da: Il
Fatto Quotidiano
Alle 17:30 Nino Di
Matteo, il pm che Totò Riina vuole morto ammazzato è al lavoro nel suo ufficio,
al secondo piano del Palazzo di giustizia di Palermo. Dire che non sia turbato,
sarebbe troppo. Ma non ha perduto né la calma, né il sorriso. La
determinazione, quella, è addirittura aumentata.
Dottor Di Matteo, qual è il suo pensiero dominante dopo
15 mesi di minacce e preannunci di attentato?
Cercare di capire a
fondo quel che sta succedendo intorno a me. Non tutto è ancora così chiaro. Un
anno fa, al primo alternarsi di minacce di stile mafioso e di fonte
istituzionale, pensai a qualcosa di casuale. Poi mi convinsi che erano attacchi
collegati. Ora sentire e vedere Riina pronunciare quelle parole rabbiose e
quegli ordini di morte contro di me mi riporta al contenuto di una delle prime
minacce che mi fu recapitata anonimamente.
Il dossier di 12 cartelle intitolato “Protocollo
Fantasma”, con lo stemma della Repubblica Italiana, che la metteva in guardia
dallo spionaggio di “uomini delle istituzioni” verso una “centrale romana”,
l’avvertiva che si stava inoltrando su terreni pericolosi e citava politici
della Prima Repubblica coinvolti nella trattativa non ancora toccati dalle
indagini?
Quello fu il primo
messaggio di fonte istituzionale. Però mi riferivo al secondo, successivo alle
elezioni di febbraio.
La lettera giunta il 26 marzo, scritta al computer da un
anonimo sedicente “uomo d’onore della famiglia trapanese” che annunciava la sua
eliminazione – in alternativa a quella di Massimo Ciancimino – perché l’Italia
“non può finire governato da comici e froci”?
Quella. Usava un
frasario tipico di chi vuole accreditarsi come appartenente alle istituzioni o
ad apparati investigativi. E parlava della decisione di uccidermi “chiesta
dagli amici romani di Matteo”, cioè di Messina Denaro, avallata dal carcere
anche da Riina “tramite il figlio”. Ora che ho ascoltato la viva voce di Riina
ho capito il collegamento fra le due tipologie di minacce: quelle mafiose e
quelle istituzionali o para-istituzionali. E ho colto la sottovalutazione che
se ne fa, magari in buona fede, per ignoranza, su molti giornali e a livello
politico.
Sottovalutazione?
Tutti parlano di
minacce di Riina. Ma minacciare qualcuno significa volerlo spaventare. Riina,
intercettato in carcere, non si limita a minacciarmi: il suo è un crescendo di
parole rabbiose che culminano nell’ordine di uccidermi. Tant’è che i
procuratori di Palermo e di Caltanissetta hanno utilizzato uno strumento
eccezionale previsto dal Codice per “desegretare” le intercettazioni e ne han
consegnato la trascrizione e il supporto audio-video al ministro dell’Interno
Alfano. Parlare di “minacce” è improprio e fuorviante.
Non voglio farla polemizzare con le massime cariche dello
Stato, ma proprio questo dicono, dopo un anno e mezzo di silenzi imbarazzati e
imbarazzanti: solidarietà ai magistrati minacciati dalla criminalità
organizzata.
Per carità,
solidarizzare con tutti i magistrati minacciati dalla criminalità organizzata è
giusto: le minacce delle mafie sono sempre cose serie. Ma i magistrati di
Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia sono un caso a parte: qui lo
stragista numero uno degli ultimi trent’anni ha dato l’ordine di eliminarci e
di rilanciare così la strategia stragista, sospesa vent’anni fa con la lunga
Pax Mafiosa seguita alla trattativa.
Qual è il suo stato d’animo in questi giorni?
È un complesso di
stati d’animo. Se mi guardo intorno e rifletto razionalmente, mi dico che non è
valsa e non vale la pena aver sacrificato, in vent’anni di vita scortata, tanti
momenti importanti di libertà e di spensieratezza miei e delle persone che mi
stanno accanto. Ma poi per fortuna prevale la passione, come in tanti
magistrati della mia generazione. Quando entrai in magistratura 22 anni fa, lo
feci proprio con l’aspirazione di occuparmi di mafia. Il mio punto di
riferimento era il pool antimafia di Chinnici, Caponnetto, Falcone e
Borsellino. Tre su quattro li abbiamo purtroppo accompagnati nella tomba, ma
quello è rimasto il mio imprinting.
Quindi prevale ancora la passione?
Sì, e ha la meglio
sulla razionalità pura che consiglierebbe di mollare tutto. La passione per la
bellezza del nostro lavoro. Che però non cancella la consapevolezza che fare il
magistrato in questo modo – l’unico che conosco leggendo la Costituzione – “non
paga”. Né in termini di serenità personale, né di carriera, né di apprezzamento
omogeneo dalle istituzioni e dagli uomini che le rappresentano, e anche da
pezzi importanti dell’opinione pubblica. Ma non importa, andiamo avanti.
Prima delle stragi del ’92 era palpabile a Palermo
l’insofferenza per i magistrati antimafia, le scorte, le sirene, le zone di
rimozione forzata, i pericoli indotti dalla presenza di giudici a rischio. Si
respira di nuovo quell’aria?
No, anzi
l’intensificarsi dei pericoli per la mia persona è stato accompagnato
paradossalmente da un surplus di solidarietà e vicinanza di tanti cittadini:
lettere, email, parole d’incoraggiamento. Anche dai vicini di casa. È uno dei
maggiori, e rari, motivi di conforto. Lo stesso vale naturalmente per la mia
famiglia: ho la fortuna di essere circondato da persone che condividono
idealmente gli stessi valori che sono alla base del mio impegno. Andiamo
avanti, pure con grande difficoltà.
Com’è cambiata la sua vita in questi ultimi mesi?
Non devi mai ripetere
gli stessi movimenti e gli stessi percorsi, che devi rendere il più possibile
imprevedibili. Sei costretto a rinunciare anche a quelle piccole e poche cose
che ancora ti concedevi prima, anche da scortato. Ma non è questo che mi pesa.
Cosa le pesa di più?
La consapevolezza che,
quando ti inoltri su certi crinali investigativi sui rapporti fra mafia e
istituzioni (non soltanto quelle politiche, ma anche i cosiddetti “apparati”),
senti – per usare un eufemismo – di non essere capito da chi rappresenta lo
Stato e persino da vasti settori della magistratura. Troppi continuano a
pensare che le nostre indagini siano tempo perso, risorse sottratte alla “vera
lotta alla mafia”, che consisterebbe soltanto nell’arrestare la manovalanza
criminale, nel sequestrare carichi di droga. Invece, oggi più che mai, un
contrasto serio alla criminalità organizzata deve recidere i suoi legami con
istituzioni, politica, finanza, forze dell’ordine, apparati.
A parole, lo dicono tutti.
Sì, ma poi appena
qualche pm ci prova e magari ci riesce, ecco il solito coro pieno di risolini e
di dubbi sparsi a vanvera: ti senti additato al pubblico ludibrio come un
“acchiappanuvole”, o peggio come un soggetto destabilizzante che rema contro le
istituzioni per scalfirne il prestigio. C’è chi ancora ripete il ritornello
che, scoperchiando la trattativa, abbiamo fatto un favore a Riina mettendo
sotto accusa uomini dello Stato e della politica. Riina, a sentirlo parlare,
non sembra proprio pensarla così. Anzi: manifesta nei nostri confronti una
rabbia furibonda, che vuole addirittura tradurre nel mio assassinio.
Si è domandato perché Riina ce l’ha tanto e proprio con
lei?
No. Ma constato che mi
sono occupato spesso e da molto tempo di processi che lo vedevano imputato:
sono stato pm sulle stragi di Capaci, di via D’Amelio, sugli assassinii dei
giudici Chinnici e Saetta e su altri omicidi perpetrati a Palermo.
Ciò malgrado, Riina, per quei processi, non aveva mai
manifestato quel furore contro di lei. Che esplode solo per la Trattativa.
Con l’uscita di
Ingroia, sono il pm che da più tempo segue quelle indagini. Quindi quella
rabbia non me la spiego altrimenti.
Eppure, dagli atti che avete depositato finora, non si
coglie un motivo che giustifichi tanta rabbia. A Riina non dovrebbe dispiacere
di apparire come il superstragista che ha messo in ginocchio lo Stato. Avete il
dubbio di non aver capito ancora tutto ciò che è acceduto, e che lui invece
conosce bene?
Non il dubbio: la
certezza. Finora abbiamo capito e riteniamo di aver provato solo una parte di
ciò che è avvenuto. Non è casuale la tempistica dell’intensificarsi di questa
pressione. Inizialmente si pensava che l’indagine sarebbe finita in archivio.
Poi invece c’è stata la nostra richiesta di rinvio a giudizio e poi l’ordinanza
di rinvio a giudizio del gup. E il processo è iniziato. Ma non è un mistero che
stiamo continuando a indagare: non ci fermiamo certo a cercar di provare la
colpevolezza degli attuali imputati. Vogliamo trovare chi li ha manovrati, li
ha diretti e ha concorso con loro, dall’esterno di Cosa Nostra, nei delitti che
abbiamo contestato. Con chi, perché e su incarico di chi gli attuali imputati
han fatto ciò che han fatto. Ecco: quando si è capito che non ci fermiamo, sono
partite non solo minacce e ordini di morte, ma anche episodi pericolosi come
l’irruzione in casa del giovane collega Roberto Tartaglia.
Voi rappresentate lo Stato, ma anche chi ha fatto la
trattativa e chi vi minaccia o fa di tutto per ostacolarvi. Quanti Stati ci
sono, in Italia?
Lo Stato è uno solo:
quello disegnato con chiarezza e precisione dalla Costituzione. Per essere
credibile e riconosciuto come tale, lo Stato non deve temere di processare se
stesso, attraverso propri esponenti infedeli, collusi, deviati. Altrimenti non
ha titolo neppure per processare la criminalità, organizzata e non.
Mai avuto il dubbio di essere voi, i deviati?
No, nemmeno quando
veniamo additati come tali, come portatori di interessi diversi dalla giustizia
e dalla legalità costituzionale. Certo, c’è la sensazione palpabile di essere
devianti rispetto al sentire comune molto diffuso che vorrebbe imporci una
particolare “prudenza” perché non scoperchiamo certi vasi. Ma quella sulla
trattativa è una delle poche indagini che ha subìto attacchi praticamente da
tutte le parti politiche: almeno non possono accusarci di volerne favorire una
a scapito di un’altra.
Qual è l’accusa che vi ha ferito di più?
Quella di autorevoli esponenti del giornalismo e
della politica che ci attribuiscono addirittura la finalità di ricattare il capo dello Stato, solo
perché ci siamo imbattuti casualmente in
alcune sue telefonate con l’ex ministro Mancino, o perché l’abbiamo citato
come testimone. È l’accusa più pesante e ingiusta, ma ci è toccato sopportare
anche questo.
Quella vicenda ha trascinato tutti voi dinanzi alla
Consulta e lei e il suo capo Messineo al Csm. Avete la sensazione che quella
doppia delegittimazione abbia tappato la bocca a chi magari poteva collaborare
pienamente alle indagini?
Posta così la domanda,
è difficile rispondere. Diciamo che i pentiti di mafia ragionano ancora con
l’istinto tipico dei mafiosi: se capiscono di avere di fronte dei pm attaccati
dalle istituzioni, fiutano che parlare di certi argomenti potrebbe essere
scomodo e poco conveniente anche per loro. E magari chi sa molte cose si
attesta su canoni di ordinaria “normalità”, rivelando solo ciò che non
scandalizza troppo il sistema, e dunque non si rivela troppo dannoso per lui.
Lei è sempre sotto procedimento disciplinare al Csm?
Sì. A marzo mi è stato
notificato l’atto di incolpazione, con l’accusa di aver leso le prerogative del
capo dello Stato con un’intervista in cui spiegavo le procedure per la
distruzione delle telefonate indirettamente intercettate fra lui e Mancino.
Sono già stato interrogato e ora attendo che il Pg della Cassazione decida se
chiedere al Csm di condannarmi o di prosciogliermi. A quel che risulta a me e
al mio difensore, è la prima volta che si esercita l’azione disciplinare contro
un magistrato per un’intervista. Ma, se sarò rinviato a giudizio, mi difenderò
con serenità, ben conscio di aver fatto soltanto il mio dovere e di non aver
violato alcuna legge o regola. Come il mio ufficio ha già fatto – purtroppo con
gli esiti a tutti noti – dinanzi alla Consulta nel conflitto di attribuzioni
sollevato dal Quirinale.
Anche alla Consulta la sua Procura sostenne di aver
obbedito soltanto alla legge.
Certo, e la prova era
nei fatti: non era la prima volta che una Procura, intercettando un soggetto
coinvolto nelle indagini, captava casualmente sue conversazioni con un
presidente della Repubblica. Era accaduto nel 1992 a Milano con il presidente
Scalfaro. Ed era capitato nel 2009 a Firenze con Napolitano. In entrambi i
casi, i pm avevano fatto trascrivere le telefonate e le avevano depositate agli
atti. Nel caso di Scalfaro i giornali le avevano riportate. Eppure il Quirinale
non sollevò alcun conflitto contro i magistrati. Lo fece soltanto con noi nel
2012, sebbene non avessimo fatto trascrivere quelle conversazioni penalmente
irrilevanti, le avessimo custodite in cassaforte e avessimo spiegato che ne
avremmo chiesto la distruzione. All’amarezza per quel che è accaduto, unisco
però una soddisfazione, mia personale e dei miei colleghi: i nostri
scassatissimi armadi hanno mostrato una tenuta stagna, infatti di quelle
telefonate non è uscita neppure una sillaba. Nessuno può rimproverarci di non
aver compiuto al meglio il nostro dovere di magistrati.
Cos’ha pensato quando il Comitato per l’Ordine e la
Sicurezza le ha proposto di girare per Palermo a bordo di un carrarmato Lince?
Sulle prime, non
sapevo neppure cosa fosse. Ho visto la foto in Internet di un Lince usato nella
guerra in Afghanistan e ho detto di no. Oltreché impensabile dal punto di vista
pratico e logistico, un magistrato che deve circolare a bordo di un carrarmato
diventa anche ridicolo. E se c’è una cosa che non posso accettare è che il mio
lavoro venga messo in condizione di perdere il rispetto. La sicurezza non può
diventare un pretesto per i tanti che guardano con ostilità al nostro impegno
per metterci alla berlina. Tutti gli altri rischi li accetto: questo no.
Si è parlato anche dell’uso di un robottino anti-esplosivi,
il “Jammer bomb”. Lo Stato sta facendo tutto quello che può per garantire la
sua sicurezza?
Io non ho mai chiesto
nulla: ci sono autorità preposte a queste decisioni tecniche e stanno operando
con la massima professionalità. A cominciare dai carabinieri della mia scorta.
Ma un magistrato è sicuro soprattutto quando tutte le istituzioni si mostrano
totalmente unite nell’affermare che il suo operato – peraltro criticabile – non
può subire minacce né annunci di strage. La reazione compatta di tutto lo Stato
sarebbe la migliore protezione per me e per qualunque altro magistrato in
pericolo.
E quella reazione compatta per ora non c’è stata.
Finora è arrivata solo
a spizzichi e bocconi, con molta lentezza, fatica e reticenza. Ma non dispero
che ci si arrivi, un giorno o l’altro…
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