da: La
Stampa
di Stefano Lepri
E’ difficile
guardare dentro a una protesta caotica, somma di rabbie disparate. Ma alcuni
focolai da dove si grida contro «i politici che rubano i soldi delle nostre
tasse» hanno una sorprendente caratteristica in comune: nascono dentro
categorie ben assuefatte a ricevere denaro pubblico.
Una frangia ribelle
di autotrasportatori anima la protesta dei «forconi»: nell’ultimo decennio il
settore ha ricevuto a vario titolo sussidi per circa 500 milioni di euro
l’anno. Due settimane fa, Genova era stata bloccata dagli autoferrotranvieri
contrari a una inesistente «privatizzazione», quando nel trasporto locale fino
a tre quarti dei costi sono coperti con denaro del contribuente.
La crisi esaspera;
la rabbia spinge a schierarsi dietro i più determinati a battersi. Il guaio è
che, nel crescente dissesto del sistema italiano, i più determinati spesso
hanno esperienza nello sfruttarne i benefici. Poi per ricucire tutto si
inveisce contro Equitalia, che ha vessato a torto parecchie persone perbene, ma
tra i cui nemici gli evasori è probabile siano in maggioranza.
E’ una protesta che
guarda al passato, già tenta di riassumere il Censis; anzi è un passato che si
rivolta contro sé stesso. Nelle sessioni di bilancio parlamentari come di
fronte ai consigli comunali da anni prevalgono, a svantaggio degli elettori,
gruppi di interesse piccoli e compatti, capaci non soltanto di gestire
pacchetti di voti ma di bloccare il Paese con le loro agitazioni.
Ora scontenti di
ogni tipo sono tentati di mettersi al loro traino nelle piazze, con effetti
paradossali. Possono alcuni autotrasportatori, insoddisfatti dei 330 milioni di
specifiche agevolazioni tributarie per il 2014 già ottenuti dalle associazioni
di categoria, ergersi a simbolo del malcontento antifisco di tutti? Forse si
tratta solo della speranza che almeno loro riescano ad ottenere qualcosa.
Nel trasporto
cittadino invece è normale che si spenda denaro pubblico, perché il mezzo
collettivo è un risparmio per tutti; ma in altri Paesi lo Stato copre una parte
inferiore dei costi, circa metà, e i servizi funzionano meglio. La
«privatizzazione» sarebbe in realtà l’ingresso di altri operatori pubblici,
come Trenitalia, Deutsche Bahn (Stato tedesco), Ratp (Stato francese), non
legati – a differenza dei sindaci – all’immediato tornaconto elettorale.
Insomma il Paese per
non poterne più rischia rimedi peggiori del male: ulteriori aumenti della spesa
pubblica oppure delle agevolazioni fiscali mirate qui o là, in un do ut des
imbarbarito tra piazza e politica. Mentre, ad esempio, la vita del camionista
migliorerebbe facendo rispettare la legge sulle strade, limiti di velocità,
carichi, orari, reprimendo le intermediazioni più o meno malavitose, evitando
che il lavoro nero prevalga sull’impresa in regola.
Vediamo l’esito
estremo di una politica che ha cercato di immischiarsi in tutto, mancando
invece al dovere di far funzionare le strutture basilari dello Stato. Il
sospetto della corruzione, in più casi fondato, dilaga fino a diventare un
pretesto invocando il quale chiunque può sottrarsi alla legge (quanti romani
salgono ora in autobus senza pagare giustificandosi con lo scandalo dei
biglietti falsi?).
L’unica via è
ritracciare in modo trasparente il confine tra ciò che lo Stato fa e non fa.
Una parte della responsabilità deve ritornare ai cittadini: se un servizio
comunale è gestito male, perché non lasciarlo organizzare in proprio a
associazioni di luogo o di categoria? Ridurre i costi della politica e
revisionare la spesa pubblica da cima a fondo sono le due parti inseparabili di
un compito urgentissimo: ridurre l’uso clientelare dello Stato. Purché non sia
troppo tardi.
Nessun commento:
Posta un commento