da: https://www.ilfattoquotidiano.it -
di Guido Scorza
È inquietante e fa riflettere l’edizione
2019 del rapporto Freedom on the net pubblicata nei giorni scorsi da Freedom
House, think tank americano fondato nel 1941 da Eleonor Roosevelt.
L’immagine complessiva del web – social
network in particolare – che ne esce è quella di un’enorme riserva di pesca nella quale gli utenti giocano il ruolo dei
pesci e una pletora di soggetti
pubblici e privati, in tutto il mondo, quello dei pescatori che, lanciando
grandi reti a strascico, raccolgono
quantità industriali di dati personali per gli scopi più disparati – anche
se il rapporto si concentra quelli pubblici – e con esche di ogni genere
orientano i banchi di pesci in una direzione o nell’altra a seconda delle
esigenze politiche del momento. O, se si preferisce, per usare una metafora più
digitale, l’immagine potrebbe essere quella della Rete e dei social network in
particolare come un videogioco, il Pacman di altri tempi con i nostri dati
personali nella veste dei puntini gialli dei quali è ghiotta la creatura sferica
protagonista del gioco ormai cult.
Ma che l’immagine sia l’una oppure l’altra
Freedom House non ha dubbi: la Rete,
complessivamente, oggi, per il nono anno consecutivo, è meno libera che in
passato e diritti e libertà fondamentali come quello alla privacy, alla
parola e alla manifestazione del pensiero sono più in pericolo di sempre.
Sui 65
Paesi oggetto dello studio, nell’ultimo anno, in 47 le forze dell’ordine hanno
arrestato delle persone per aver
pubblicato un contenuto online, in 40
sono in funzione programmi avanzati di sorveglianza di massa sul web e in
33 si è toccato con mano un calo verticale – più o meno rilevante – della
libertà di utilizzo del web specie in dimensione sociale, politica,
democratica. L’Italia mantiene invariato il suo status di Paese libero – o,
almeno, più libero degli altri – con gli stessi 75 punti su 100 che ci hanno
fatto tirare un sospiro di sollievo nel 2018. Ma, naturalmente, è una magra
consolazione.
La storia del web e, in generale, delle
nuove tecnologie insegna che quando una tecnologia, una soluzione innovativa,
una pratica si rivelano efficaci da qualche parte del mondo, nello spazio di
poco si diffondono ovunque nel mondo in maniera inarrestabile. Difficile,
dunque – in un mondo connesso e nel quale gli usi, i costumi e le soluzioni
tecnologiche dei privati e dei governi sono gioco forza sempre più
standardizzati, globalizzati come spesso si dice – sentirsi al riparo dietro al
bollino verde di Paese libero che Freedom House ci attribuisce. Nessuno è al
sicuro, nessuno nuota in acque tanto sicure da potersi considerare estraneo a
quello che sta accadendo perché online non esistono riserve nella riserva. E
l’impietoso ritratto del mondo del web che rimbalza da Washington è quello di
un web divenuto cavallo di Troia per gli spioni di tutto il mondo.
E fa venire i brividi pensare che, in
realtà, con l’Internet delle cose che avanza, con gli oggetti connessi che sono
ormai entrati nelle nostre case e si preparano a invadere il nostro quotidiano,
le nostre città e le nostre vite, i confini di Internet stiano per estendersi a
dismisura e la nostra esistenza “fisica”
stia per entrare a far parte della riserva di pesca disegnata da Freedom
House.
La pesca
a strascico dei governi minaccia di tracimare presto fuori dal web e
dall’universo social e finire a raccogliere i dati trasmessi dalle nostre
automobili, i nostri frigoriferi, gli aspirapolveri, i giocattoli dei nostri
bambini e le azioni di manipolazione di massa e orientamento politico di
disporre di una quantità pressoché infinita di megafoni attraverso i quali
diffondere il verbo del signore – scritto rigorosamente con la lettera
minuscola – del momento.
E a quel punto le riflessioni in corso
sulle intercettazioni telematiche e sul cosiddetto trojan di Stato diverranno uno sbiadito ricordo che ci farà
sorridere, sarà come l’immagine di un archibugio d’altri tempi, rispetto ai
droni killer dell’industria bellica di oggi; perché i governi non dovranno più
inoculare software spia da nessuna parte, potendo, semplicemente, “pescare”
dati a strascico nella riserva di pesca in cui si sta per trasformare il mondo.
Il rapporto Freedom of the net spaventa, ma
forse suona anche una campanella d’allarme: c’è un’emergenza invisibile da affrontare, bisogna farlo in fretta
e per farlo non c’è soluzione diversa rispetto a riconoscere, per davvero, la
centralità che meritano nelle nostre democrazie la libertà di informazione e il
diritto alla privacy, compiendo ogni sforzo ragionevole perché ogni genere di
servizio online e di oggetto connesso sia progettato e costruito e,
soprattutto, funzioni a prova di spioni e manipolatori di massa.
Guai a diventare luddisti, guai a
avventurarsi lungo il crinale di chi vorrebbe marciare contro tecnologie che
hanno rivoluzionato e rivoluzioneranno la nostra vita indiscutibilmente in
meglio perché sarebbe inutile e deleterio. Ma al tempo stesso guai a voltarsi
dall’altra parte o a rassegnarsi, rinunciando a governare il fenomeno: si
tratta di orientare lo sviluppo tecnologico in una direzione sostenibile e
porre alcuni paletti invalicabili a tutela della persona e, almeno, dei suoi
diritti fondamentali.
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