da: https://www.corriere.it/
- di Marco Imarisio
L’agenzia
per monitorare i 7.317 ponti e galleria italiani lanciata dall’ex ministro
Toninelli è rimasta sulla carta. Il dossier del Cnr e l’inchiesta della procura
genovese
A ogni emergenza meteo viene giù un pezzo
di viadotto ligure. Durante la penultima, era la fine di settembre, dal ponte
Bisagno dell’autostrada A12 si è staccato un pluviale, un tubo per lo scolo
dell’acqua piovana, che è precipitato in mezzo a una strada della periferia di
Genova. Il giorno dopo gli abitanti del quartiere hanno dato vita a un breve
corteo per chiedere lumi sulle condizioni di quella striscia di asfalto che
scorre sopra le loro teste. Peccato che non ci sia ancora nessuno a cui
chiedere, a parte i gestori privati che nel recente passato non hanno certo
dato grande prova di sé. Il passaggio
«istantaneo» dalla logica dell’emergenza delle infrastrutture a quello della
prevenzione annunciato nel trigesimo della tragedia del ponte Morandi
dall’allora ministro Danilo Toninelli
risulta ancora in corso oggi, a un anno
e mezzo di distanza da quella mattina del 14 agosto. Doveva chiamarsi Ansfisa, complicato acronimo di
Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture
stradali e avrebbe dovuto superare la vecchia e poco utilizzata Direzione
generale per la vigilanza sui concessionari, carrozza pubblica di limitate
risorse e ancor meno potere, impossibilitata com’era a operare veri controlli
sulle 7.317 «opere d’arte», ovvero tutti i ponti, i viadotti e i tunnel che
rientrano nelle concessioni dei 19 gestori autostradali in teoria monitorati
dall’Anac.
La vecchia struttura non era certo nata su
impulso nostrano, non sia mai. Era frutto dell’applicazione di una direttiva europea del 2008 che imponeva
ispezioni ministeriali «altamente dettagliate» su infrastrutture viarie a
un soggetto terzo. L’Italia aveva recepito con molta calma, dimenticandosi però
i regolamenti attuativi e i soldi per gli ispettori. Adesso cambia tutto, aveva
assicurato Toninelli ai genovesi che si erano dati appuntamento in piazza De
Ferrari per ricordare le 43 vittime del ponte Morandi. A oggi, è cambiato solo il titolare del dicastero. L’Ansfisa è in
attesa del parere del Consiglio di Stato su un regolamento attuativo
scritto solo nel luglio 2019, un anno dopo l’annuncio dell’ex ministro. Dovevano
essere assunti o spostati nella nuova struttura almeno 500 tra ispettori e
dirigenti. Al momento, siamo a zero. C’è un organigramma con vertici già
nominati, che in forma ufficiosa parlano di «almeno un anno» per la partenza, e
niente sotto. A conferma della consueta risacca che segue i provvedimenti
annunciati sull’onda emotiva dei disastri, una specialità italiana.
La travagliata
nascita della «super task force», il virgolettato è sempre di Toninelli,
non è solo una ulteriore conferma di uno dei nostri vizi capitali. È anche la
migliore spiegazione possibile del fatto che in Italia non sia mai esistita una mappatura delle infrastrutture a
rischio, autostradali o meno. Prima e dopo il ponte Morandi. Manca la volontà dei gestori privati, e ci
mancherebbe altro. Manca o mancava ogni forma di controllo pubblico. Al
netto delle 28 opere di Autostrade per l’Italia segnalate su tutto il
territorio nazionale dagli ispettori della Guardia di Finanza per conto della
Procura di Genova, fa ancora fede il rapporto dell’istituto di tecnologia delle
costruzioni del Cnr, che risale al giugno del 2018, quando mancava poco più di
un mese al crollo del viadotto sul Polcevera. La premessa era chiara. Il nostro
sistema di infrastrutture stradali non regge più, perché la maggior parte dei
ponti e viadotti italiani è stato costruito tra il 1955 e il 1980. «Hanno
superato la durata di vita per la quale sono stati progettati». Incrociando età
anagrafica, interventi straordinari e allarmi raccolti dai gestori, il Cnr
identifica venti ponti o viadotti che «destano preoccupazione», talvolta
sovrapposti alle segnalazioni della magistratura. Ci sono quelli sulla
superstrada Milano-Meda in Brianza, c’è il viadotto Manna in Campania e quelli
abruzzesi sulla A24/25 danneggiati dal terremoto del 2009. In Sicilia c’è il
caso di un altro ponte realizzato da Riccardo Morandi, tra Agrigento e
Villaseta, chiuso dal 2017 e con costi di riparazione esorbitanti, almeno
trenta milioni di euro.
Anche se le cause del crollo del ponte di Genova e di quello della A6 vicino a
Savona sono ben diverse una dall’altra, otto alluvioni dal 2010 a oggi e il
cedimento di tre strade provinciali negli ultimi cinque anni dimostrano che
esiste uno specifico ligure. Se due o più indizi fanno una prova, la
«scarsa lingua di terra che orla il mare e chiude la schiena arida dei monti»
cantata dal poeta Camillo Sbarbaro, è ormai allo stremo, con la percentuale di
frane in proporzione più alta d’Italia. «La nostra morfologia accidentata»
spiega il geologo Alfonso Bellini, docente universitario e perito di tutte le
Procure liguri, «ci impone strade che per forza di cose tagliano i versanti,
collinari e montani». Avrebbero bisogno di continui controlli, ma si torna alla
casella di partenza. I soldi non ci sono. I rivi esondano, la terra si inzuppa,
i viadotti cedono. Nel rapporto del Cnr sono citati come «preoccupanti» quattro
ponti della A6 Torino-Savona, equamente divisi tra Piemonte e Liguria. Quello
crollato ieri non era compreso nell’elenco.
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