ArcelorMittal
dice che non vuole più comprare la più grande acciaieria d'Europa: ma fa sul
serio? E di chi è la colpa?
La decisione della società indo-francese
ArcelorMittal di lasciare l’acciaieria ILVA di Taranto, comunicata ieri, era in
realtà attesa dal governo, tanto che il ministro dello Sviluppo economico,
Stefano Patuanelli del Movimento 5 Stelle, la scorsa settimana è rimasto in
Italia invece di seguire il suo capo politico Luigi Di Maio in un viaggio
diplomatico in Cina. Ma anche se la decisione di rescindere il contratto di
affitto e acquisto non è stata una sorpresa, come finirà questa vicenda e di
chi sia la responsabilità rimane ancora oggi poco chiaro, mentre il governo,
l’opposizione e gli stessi partiti interni alla maggioranza si rimpallano le
colpe per quello che è accaduto.
Ci sarà maggiore chiarezza probabilmente
dopo mercoledì, quando i dirigenti dell’azienda si incontreranno a Roma con il
governo per decidere le sorti della più grande acciaieria d’Europa, che impiega
10.700 operai, di cui 8.200 nello stabilimento di Taranto (gli altri in quelli
di Novi Ligure e Cornigliano) e che produce ogni anno acciaio per 24 miliardi
di euro. Nel frattempo ecco quello che sappiamo, messo in ordine.
Perché
ArcelorMittal dice che vuole andarsene?
La ragione ufficiale è che il Parlamento ha
cancellato lo “scudo penale” di cui godevano gli amministratori dell’ILVA nel
realizzare il “piano ambientale” con cui lo stabilimento dovrebbe essere messo
a norma rispetto alle leggi sull’inquinamento. In sostanza, ILVA si trova da
anni in una situazione irregolare e inquina molto più di quanto consentito. Per
via della sua importanza economica e occupazionale (10 mila lavoratori, circa
il doppio nell’indotto) è stato da tempo deciso di non interromperne
l’attività, ma di mantenerla in funzione mentre il gruppo ArcelorMittal, che
intendeva acquistarla, cercava di metterla a norma.
Il problema è che così facendo gli attuali
e nuovi amministratori della società si trovano potenzialmente a commettere dei
reati ambientali, sulla base delle attuali condizioni dell’impianto frutto
della precedente gestione. Per questo, fin dal 2015, i commissari del governo e
i successivi acquirenti sono stati protetti con uno scudo penale che evita che
vengano perseguiti per l’inquinamento fuori norma che sarà prodotto almeno fino
a quando il piano di bonifica non sarà ultimato, purché venga ultimato secondo
i tempi previsti dagli accordi.
La società si lamenta anche per i
provvedimenti del Tribunale di Taranto che rischiano di obbligare allo
spegnimento dell’altoforno 2 dell’acciaieria, che necessita di interventi
speciali dopo la morte di un operaio nel 2015. Molti però sostengono che queste
ragioni non spieghino da sole la decisione di ArcelorMittal: il mercato
dell’acciaio è entrato in crisi nell’ultimo anno e ArcelorMittal vorrebbe
quindi liberarsi di un investimento che non ritiene più redditizio.
Chi
ha deciso di togliere lo scudo penale?
Che sia una scusa o meno, l’intera vicenda
di questi giorni ruota intorno allo scudo penale, rimosso da un voto del Senato
la scorsa settimana dopo le insistenze di 15 senatori del Movimento 5 Stelle,
capeggiati dall’ex ministra per il Sud Barbara Lezzi (di origine pugliese, eletta
l’anno scorso con la promessa di chiudere l’ILVA). Lo scudo penale era stato
introdotto la prima volta nel 2015, durante il governo Renzi, quando si decise
di mantenere in funzione l’ILVA e di affidarla a dei commissari che cercassero
un compratore. Il decreto approvato a gennaio 2015 escludeva la responsabilità
penale «in relazione alle condotte poste in essere in attuazione del Piano
ambientale» da parte del commissario o dei futuri «affittuari o acquirenti»,
sulla base dell’idea che altrimenti sarebbe stato impossibile trovare qualcuno
disposto a investire nel necessario risanamento dell’impianto.
All’epoca non c’erano ancora affittuari o
acquirenti all’orizzonte, e per circa tre anni ILVA proseguì la sua attività
sotto la gestione commissariale. Tra 2017 e 2018, durante il governo Gentiloni
e durante la gestione del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda,
iniziarono le procedure per cedere lo stabilimento ai privati, che furono poi
completate il primo novembre 2018 con l’entrata di ArcelorMittal nello
stabilimento. Nel frattempo però erano cambiati governi e maggioranza
parlamentare. Al posto del PD, favorevole alla cessione dell’impianto e alla
prosecuzione della produzione, era arrivato il Movimento 5 Stelle, che da
sempre sostiene la necessità di chiudere l’ILVA o almeno di rivoluzionarne
completamente i metodi di produzione.
Nonostante le promesse fatte in campagna
elettorale, il Movimento dovette rapidamente cambiare idea e accettare che
oramai l’impianto era destinato a rimanere aperto (Di Maio disse che la colpa
era del governo precedente che aveva commesso un “delitto perfetto” approvando
per ILVA un decreto “illegittimo” ma – disse lui – “impossibile” da revocare).
Nonostante la resa di Di Maio un gruppo di senatori pugliesi, capeggiato dalla
ministra per il Sud Barbara Lezzi, decise di continuare la sua battaglia (Lezzi
e i suoi alleati avevano già dovuto ingoiare l’approvazione del gasdotto
pugliese TAP e non volevano cedere su un altro fronte). Dopo settimane di
lavoro il gruppo riuscì a ottenere un’importante vittoria lo scorso aprile,
quando persuase sia Di Maio che il capo della Lega Matteo Salvini a eliminare
lo scudo penale con una nuova norma inserita nel cosiddetto “decreto crescita”.
La nuova disposizione limitava l’esonero di
responsabilità all’esecuzione del piano ambientale ed escludeva «l’impunità per
la violazione delle disposizioni a tutela della salute e della sicurezza sul
lavoro». Insomma, lo scudo risultava depotenziato e i manager dell’azienda
iniziarono a temere di finire in tribunale. Dopo settimane di nuove trattative
e discussioni, però, ci fu una nuova marcia indietro: lo scudo venne
parzialmente ripristinato tramite un nuovo decreto, il cosiddetto “salva
impresa” approvato dal Consiglio dei ministri ad agosto. Il decreto stabiliva
una maggiore tutela per i manager per la durata dei lavori del piano
ambientale: una sorta di compromesso, scrissero i quotidiani, per permettere
all’azienda di proseguire l’opera di risanamento e al Movimento 5 Stelle di
salvare la faccia.
Ma “salvare la faccia”, evidentemente, non
è bastato ai senatori pugliesi del Movimento 5 Stelle. Da agosto nuove
trattative sono iniziate all’interno della maggioranza e, con l’arrivo del
secondo governo Conte, i 15 senatori sono riusciti a ottenere un parere
positivo sull’emendamento che punta a eliminare lo scudo penale dal decreto
“salva imprese” durante la sua conversione in legge (significa che la loro
posizione è divenuta la posizione dell’intero governo). L’unica resistenza
fatta dai favorevoli all’ILVA nel governo è la richiesta di un ordine del
giorno (una dichiarazione non vincolante votata dal Parlamento) in cui si
chiede di ritornare sulla materia. L’eliminazione dell’emendamento è quindi
arrivata la scorsa settimana, il 31 ottobre, con il voto favorevole di
Movimento 5 Stelle, PD e Italia Viva.
Chi
sta con chi in questa storia?
I più contrari di tutti allo scudo penale e
più in generale alla prosecuzione delle attività nell’ILVA sono i 15 senatori
pugliesi del Movimento 5 Stelle, ma quasi tutto il partito è schierato su
posizioni critiche nei confronti di questa norma. Con un programma che
prevedeva la chiusura dell’ILVA o la sua decarbonizzazione, alle ultime
elezioni politiche il Movimento 5 Stelle ha raccolto il 47 per cento dei voti a
Taranto e all’europee dello scorso maggio, pur perdendo 20 punti, è rimasto il
primo partito con il 27 per cento dei consensi.
La pensa così anche il presidente della
Puglia Michele Emiliano, che accusa ArcelorMittal di usare lo scudo penale come
una scusa per giustificare una decisione presa per ragioni economiche (la sua
opinione è, da sempre, che Taranto sarebbe stata molto meglio se l’ILVA non
fosse mai stata aperta). Il PD e Italia Viva sono invece nella situazione più
complicata, poiché hanno sempre sostenuto la necessità che ILVA continui la sua
produzione, ma la scorsa settimana hanno votato insieme ai senatori del
Movimento 5 Stelle la norma che elimina lo scudo penale. Oggi anche loro
accusano ArcelorMittal di usare lo scudo penale come una scusa, e molti
esponenti di entrambi i partiti chiedono al governo di ripristinare lo scudo
così da togliere una scusa alla società.
Italia Viva, poi, ha una posizione
particolare. Il suo leader Matteo Renzi, scrivono Repubblica e La Stampa,
avrebbe pronta una soluzione alternativa se ArcelorMittal dovesse riuscire a
disimpegnarsi: il ritorno della cordata che perse la gara con ArcelorMittal lo
scorso autunno e in cui era coinvolto anche il suo amico Marco Carrai.
Infine, anche la Lega ha fatto un discreto
avanti-e-indietro sul tema: prima assecondando la cancellazione dello scudo
penale e poi, con il decreto di agosto, ripristinandolo parzialmente. Oggi
Salvini non sembra avere ancora preso una posizione definitiva sul tema dello
scudo penale, ma ha detto che se ILVA dovesse chiudere il governo dovrebbe
dimettersi.
Ci
sono altre ragioni per lasciare l’ILVA?
In molti ritengono di sì. ArcelorMittal
starebbe cercando una scusa per ritirarsi da un investimento che si è rivelato
meno profittevole di quanto previsto. Attualmente i giornali scrivono che
l’acciaieria perde tra gli uno e i due milioni di euro al giorno, a causa
soprattutto di un mercato internazionale dell’acciaio peggiorato a partire
dalla fine del 2018, subito dopo l’entrata di ArcelorMittal in ILVA. Inoltre,
come la società ha scritto nel suo comunicato di ieri, a questi problemi vanno
aggiunti quelli dell’altoforno 2, che secondo i magistrati non è sicuro e
potrebbe avere bisogno di pesanti investimenti per essere messo in sicurezza.
Nel frattempo il rischio è doverlo spegnere, causando così alla società un
doppio danno.
Un incontro con il governo per discutere
della faccenda è fissato per mercoledì. Secondo molti esponenti della
maggioranza, a quel punto ArcelorMittal metterà sul tavolo le sue vere
richieste: potrebbero andare da uno sconto sulla prossima rata che la società
deve pagare (1,5 miliardi di euro su un totale di circa 4, tra affitti,
investimenti e piano ambientale) al permesso di dimezzare i dipendenti,
licenziando 5 mila lavoratori.
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