Si chiama “contratto per il web” e si tratta di un nuovo “www” che, questa volta, non significa “world wide web” ma “web we wont”, il web che vogliamo.
È il progetto che dopo una lunga gestazione
Tim Berners-Lee – il geniale papà del
web creato e regalato al mondo poco più che trentenne – frattanto divenuto
“Sir”, propone per salvare la sua stessa creatura dalle derive che ne hanno
segnato la crescita e lo sviluppo negli ultimi decenni: “Se non riusciamo a difendere la libertà del web ‘aperto’, rischiamo
una distopia digitale di disuguaglianza radicale e abuso dei diritti.
Dobbiamo agire ora”, è l’accorato appello lanciato ieri via Twitter dal papà di
una delle invenzioni che, più di ogni altra, ha cambiato la società e il corso
della storia dell’umanità.
A year ago I called for governments, companies &
citizens to come together to protect the web as a force for good.
Today, we launch the Contract for the Web — the first
global plan of action to build the #WebWeWant.
— Tim Berners-Lee (@timberners_lee) November 25, 2019
E l’idea è, nella sostanza, quella di un nuovo contratto sociale per effetto del
quale governi, Società private – colossi del web in primis – e cittadini del
mondo potrebbero garantire uno sviluppo sostenibile della società globale
attorno al web.
Tre impegni solenni per ciascuna “parte” del
contratto: connettività per tutti,
accessibilità delle risorse online senza discriminazioni e rispetto per la
privacy dei cittadini sono quelli rivolti ai governi; prezzi accessibili per la connettività, ancora rispetto per la privacy e sviluppo di tecnologie antropocentriche
quelli che dovrebbero assumere le società private; infine, creatività, civiltà
e rispetto della dignità umana nonché difesa a oltranza dei valori originari
del web quelli indirizzati a tutti i cittadini del mondo.
Impossibile
non essere d’accordo sia sull’esigenza di impegnarsi sui
principi – per la verità molto alti ma “centrati” – identificati da Sir Tim
Berners-Lee e, probabilmente, difficile anche non condividere l’idea secondo la
quale la salvezza di una creatura globale come il web passa per la “firma” di
un nuovo “contratto sociale”.
Ma l’impressione è che l’impresa nella quale si è lanciato anima
e corpo il papà del web – garantire alla società sviluppatasi attorno alla sua
creatura un futuro sostenibile – sia, questa volta, più ardua di quella che trent’anni fa lo portò a dare i natali al
web e che, questa volta, la sua straordinaria lucida follia non basti.
L’allarme che Sir Berners Lee lancia non è
nuovo e, anche solo a fermare il calendario all’ultimo decennio, nel mondo si è
assistito a un pullulare di esercizi di “codificazione”, “contrattualizzazione”
e persino “costituzionalizzazione” di alcuni dei principi che vengono
comunemente identificati come indispensabili a garantire che la società del web
non sia, almeno, meno libera, della società prima del web.
Internet bill of rights, Magnae Cartae,
Marco civil, carte dei diritti e doveri di Internet, codici etici per Internet
e, più di recente – anche se la questione è solo parzialmente sovrapponibile –
per la convivenza tra uomini e macchine intelligenti, si sono moltiplicati in
ogni parte del globo a iniziativa di tutte le diverse categorie di soggetti che
Berners Lee vorrebbe come parti del suo contratto.
Anche in Italia abbiamo fatto la nostra
parte qualche anno fa quando Laura
Boldrini, all’epoca Presidente della Camera dei Deputati, affidò a Stefano Rodotà – papà dei
diritti civili della società del web – il compito di presiedere una commissione
che scrisse una carta dei diritti e dei doveri di Internet, poi approvata dal
nostro Parlamento come risoluzione e tradotta in tante lingue da garantirne
conoscibilità globale.
Ma, purtroppo, nessuno di questi esercizi
democraticamente prezioso, è, sin qui, bastato.
Il ritmo
dell’evoluzione tecnologica produce questioni e problemi che sembrano
sfuggire a qualsiasi tentativo di codificazione, la dimensione commerciale del web sembra travolgere qualsiasi
esercizio regolatorio e le straordinarie usabilità e utilità dei servizi online
appaiono trasformare miliardi di cittadini e utenti del mondo in scimmiette che
pedalano all’interno di smartphone e altri dispositivi con leggerissima e
inconsapevole serenità salvo repentine e drammatiche cadute dalle quali,
tuttavia, ci si rialza in fretta riprendendo a pedalare con più convinzione di
prima.
Difficile,
oggi, pensare che un “contratto per il web” possa
valere – anche se di successo planetario – a far cambiare direzione alla
società globale nata attorno al web, ai governi che, con alibi diversi, ne
approfittano per imporre regole di orwelliana memoria, alle corporation che,
con l’alibi della gratuità dei servizi, hanno trasformato in un enorme giardino
privato nel quale le loro regole valgono più delle leggi e agli stessi
cittadini che, con l’alibi della semplificazione della vita, sembrano ormai
convinti che privacy e diritti fondamentali siano inutili orpelli, retaggio di
rivoluzionari del passato.
Solo
il codice – il software – forse può salvarci dal codice.
Bene, quindi, tutti gli esercizi di codificazione dei principi e
dei diritti fondamentali necessari allo sviluppo di una società sostenibile
attorno al web, ma è indispensabile che i
diritti vengano tradotti in algoritmi e in codice, che i governi recepiscano
nelle loro leggi e ancor di più in accordi internazionali meccanismi e
sistemi capaci di dare valore giuridico effettivo a questi principi, anche
attraverso il codice, e che giudici e Autorità siano dotati di strumenti e
competenze capaci di applicare le regole attraverso il Codice. E, soprattutto, serve investire in educazione e cultura dei
diritti fondamentali perché certi diritti – tanto importanti quanto
invisibili – non esistono se non li conosciamo, non esistono se non ce ne
innamoriamo, non esistono se non li difendiamo. Purtroppo i contratti, le
carte, le dichiarazioni solenni e, forse, persino, le Costituzioni sono, ormai,
strumenti necessari ma non più sufficienti a garantirci le libertà che ci
servono perché il web e le tecnologie che verranno producano benefici
collettivi per i più superiori ai malefici.
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