da: https://www.lettera43.it/
- di Emilio Fabio Torsello
Le prime poesie da adolescente, gli amori
sofferti, l'esperienza del manicomio, la rinascita negli anni Anni 80.
Nell'anniversario dalla morte la figlia Emanuela ripercorre la vita di un'icona
della poesia italiana.
«Sono
nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le
zolle / potesse scatenar tempesta. / Così Proserpina lieve / vede piovere sulle
erbe, / sui grossi frumenti gentili / e piange sempre la sera. / Forse è la sua
preghiera».
Alda Merini è nata il 21 marzo del 1931 e
se ne è andata esattamente 10 anni fa. E questi 10 anni di silenzio e assenza
sono molto simili a quel periodo – tra il 1965 e il 1978 – in cui la poetessa
dei Navigli venne rinchiusa in un manicomio e la sua voce sepolta tra le mura
di un ospedale psichiatrico. Per molto tempo i critici hanno parlato del
«ventennio di silenzio» da parte di Alda Merini, sostenendo che in quegli anni
costellati di elettroshock, farmaci e rare uscite dal manicomio, la Merini
avesse smesso di scrivere.
Eppure – proprio come Giuseppe Ungaretti
nella trincea della Prima Guerra mondiale – così Alda Merini continuò a
salvarsi in quell’inferno attraverso la poesia e grazie alla lungimiranza di un
medico dell’ospedale psichiatrico che non la considerò mai «matta» (come invece
molti all’esterno del manicomio per anni la etichettarono) e cercò di darle
strumenti per esprimere quel dissidio e quell’inquietudine interiore che da
sempre Alda portava con sé: le mise a disposizione una macchina da scrivere.
LA
GIOVINEZZA DI ALDA MERINI E LE PRIME POESIE
Ma andiamo con ordine. L’infanzia di Alda
Merini conosce la Seconda Guerra mondiale, il fascismo, i bombardamenti, la
caduta del regime di Benito Mussolini. Emanuela Carniti – autrice del libro
Alda Merini, mia madre, edito da pochi giorni per i tipi Manni editore, e
figlia di prime nozze della poetessa milanese – racconta a Lettera43 che «a
cinque anni nonno Nemo regalò a mamma un vocabolario di italiano, e ogni sera
le insegnava 10 parole nuove. Così, per gioco, Alda ha imparato a scrivere
prima di andare a scuola». A 10 anni», prosegue, «vinse il Premio Giovani
Poetesse Italiane, che le fu consegnato dalla regina Maria José e consisteva in
un libretto della Cassa di Risparmio di mille lire. Ne era molto orgogliosa, e
la regina le sembrò bellissima».
A 15 anni Alda Merini viene assunta come
segretaria di uno studio notarile a Milano, in via Verdi, e si fa quasi
licenziare perché sorpresa a battere a macchina alcune sue poesie. È il 15
novembre 1947 quando Alda Merini trascrive questi versi, nel chiuso dello
studio notarile: «Non avete veduto le
farfalle / con che leggera grazia / sfiorano le corolle in primavera? / Con
pari leggerezza / limpido aleggia sulle cose tutte / lo sguardo della vergine
sorella. / Non avete veduto quand’è notte / le vergognose stelle / avanzare la
luce e ritirarla? / Così, timidamente, la parola / varca la soglia / del suo
labbro al silenzio costumato. / Non ha forma la veste ch’essa porta, / la luce
che ne filtra / ne disperde i contorni. / Il suo bel volto / non si sa ove
cominci, / il suo sorriso / ha la potenza di un abbraccio immenso”.
Alda Merini sta descrivendo la Vergine, ha
solo 15 anni ma in questa poesia sono presenti già molti degli elementi di
quella che sarà poi la sua poetica “adulta”. Dai sentimenti d’amore a quella
metafisica personale che negli ultimi anni darà forma e senso a componimenti
importanti dedicati a Dio e a San Francesco. La stessa esperienza dell’ospedale
psichiatrico viene trasposta nelle poesie de La Terra Santa, dove simboli ed
elementi religiosi divengono elementi di un mondo altro, con leggi ignote agli
uomini.
LA
STORIA D’AMORE CON GIORGIO MANGANELLI
Nella Milano del Dopoguerra, la
giovanissima Alda cerca di intrattenere contatti con gli intellettuali
dell’epoca. Conosce Giacinto Spagnoletti, un intellettuale della redazione di
Democrazia, il settimanale della Dc. A casa di Spagnoletti incontra personaggi
come Maria Corti, David Maria Turoldo, Luciano Erba, Mario Luzi – quest’ultimo
la definirà «un tipo misterioso» – e soprattutto Giorgio Manganelli.
Manganelli ha 26 anni, è sposato e ha una
figlia. Eppure proprio Manganelli – che diventerà una delle più eminenti voci
del panorama letterario italiano – instaura una relazione di amore e passione
con Alda Merini. I due iniziano a vedersi di nascosto, nel pied-à-terre di
Maria Corti. «Ogni sabato pomeriggio», racconta Maria Corti, «lei e Manganelli
salivano le lunghe scale senza ascensore del mio pied-à-terre in via Sardegna e
io li guardavo dalla tromba della scala: solo Dio poteva sapere cosa sarebbe
stato di loro. Manganelli più di ogni altro la aiutava a raggiungere la
coscienza di sé, a giocarsi bene il destino della scrittura al di là delle
ombre di Turro». Ma Alda Merini dà già i primi segni di un’inquietudine che
porterà con sé tutta la vita. E quel riferimento a «Turro» fatto da Maria Corti
riguarda l’ospedale Villa Turro, dove la Merini venne ricoverata una prima
volta da giovane.
In quegli anni Spagnoletti scrive a
proposito di Alda: «Lo psichiatra che la teneva in cura si è dimostrato
scettico sui risultati di un anno e mezzo di psicanalisi ed elettroshock. L’ha
dichiarata, a bruciapelo, inguaribile. E allora, vista questa situazione, ho
pensato che sarebbe giusto, umanamente, intervenire con quello che ella ha di
più suo, cioè con la poesia. Chissà che questo non serva di più che gli
elettroshock».
Anche Manganelli – futuro autore di
Centuria (edito da Adeplhi), cerca di salvare la Merini. Di lui la Corti
racconta: «Durante le visite settimanali che mi faceva la strana coppia, degna
di un dramma antico, scopersi la complessità della natura di Manganelli, che
affiancava a sublimi raptus intellettuali, una profonda e rara e squisita
umanità. Con essa egli cercava di salvare la ragazza, di affidarla in mani
sicure, ma la paurosa immensità degli abissi della follia cominciava a dare i
suoi segni esteriori. Un giorno egli scomparve in Lambretta verso Roma».
Manganelli esce di scena. Alda Merini ha 22 anni. Nel frattempo vengono
pubblicate le sue prime poesie, all’interno anche i componimenti per cui
rischiò di essere licenziata.
IL
MATRIMONIO CON ETTORE CARNITI
Terminata la relazione con Manganelli, Alda
sposa Ettore Carniti, un panettiere di Milano, da cui avrà quattro figlie. «Si
conobbero nel 1953», spiega Emanuela a Lettera43, «in un cinema. Questo lo
sappiamo dai racconti di mamma. Lei era seduta davanti a papà e portava un
cappellino alla maschietta. Lui era dietro, ed essendo basso di statura aveva
difficoltà a vedere. Credendo di avere a che fare con un ragazzo, le diede uno
scappellotto esclamando: “E togliti questo cappello!”. Da quel momento iniziarono
a frequentarsi. Nel 1954 si sono sposati nonostante mio nonno non fosse così
convinto di questo matrimonio. Sembra che le avesse detto: ‘Alda fai un buco
nell’acqua’. E chi conosce mamma sa che non c’è cosa peggiore che dirle di non
fare una cosa».
«Papà era un uomo semplice», prosegue
Emanuela Carniti, «era rimasto presto orfano da piccolo e cresciuto dalle
sorelle. Fin da bambino aveva sofferto molto e per questo anelava ad avere una
famiglia. Una famiglia normale. Era un uomo di poche pretese ma con dentro un
grande amore da condividere. Era una persona semplice, fu molto affettuoso e lo
fu anche con i nipoti. Mamma al contrario aveva una personalità complessa, era
sempre inquieta ed era difficile per papà avere con lei la vita domestica che
sognava: doveva sostenere la mamma ma non ne era molto capace. Tornato da
lavoro si ritrovava a fare le veci di nostra madre nelle vicende domestiche,
perché spesso lei proprio non voleva saperne di rassettare casa e fare la
casalinga».
«Ricordo», aggiunge Emanuela dopo un
momento di silenzio, «che papà era un bravo giocatore di carte, andava a
giocare all’osteria sul Naviglio – un’osteria che adesso non esiste più, si
chiamava Nigretti – lì gli amici lo chiamavano “il poeta delle carte”»
ALDA
MERINI ENTRA IN MANICOMIO
Il ricovero in manicomio per Alda Merini
arriva nel 1965. «Papà era andato a un funerale di un parente nella
bergamasca», ricorda Emanuela, «doveva rientrare la sera stessa ma non tornò e
ci fece contattare da qualcuno a casa. Mamma disse: “Non ha nemmeno telefonato
lui”. Iniziò a provare un’ansia molto forte. Passò così l’intera notte.
All’epoca non esistevano i cellulari e con il passare delle ore mamma iniziò ad
agitarsi sempre di più. La mattina successiva era chiaro a tutti che quando
papà fosse tornato, sarebbe successo un putiferio. E così accadde».
Una volta rientrato, Ettore Carniti si
trova davanti quella che Emanuela ricorda come «una tempesta»; non sapendo più
come arginare la crisi della moglie, il marito chiama un’ambulanza. «Quando
arrivarono i barellieri, mandarono noi figlie dalla portinaia. Ma sentivamo la
mamma urlare per le scale». Per Alda Merini inizia l’inferno del manicomio. «In
manicomio», scrive Alda Merini ne L’altra verità, diario di una diversa, «ero
sola; per lungo tempo non parlai, convinta della mia innocenza. Ma poi scoprii
che i pazzi avevano un nome, un cuore, un senso dell’amore e imparai, sì,
proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili».
Per quanto fosse un luogo infernale,
proprio l’ospedale psichiatrico più di ogni altra esperienza insegna ad Alda
Merini la resilienza della parola e la poesia diviene lo strumento per
salvarsi. «Papà le chiese diverse volte perdono», racconta Emanuela, «ma mamma
per un periodo gli fece comunque scontare quel primo ricovero. Penso che
l’esperienza del manicomio, per quanto di grande e profonda sofferenza, le
abbia dato quel qualcosa in più proprio nella poesia. Mamma», continua, «era
già molto brava a scrivere, ma dopo l’esperienza del manicomio e nonostante il
dolore, la sua poesia è diventata quella che oggi leggiamo: un conforto per chi
soffre, la speranza di un riscatto, di salvarsi nonostante le esperienza più
dure».
Grazie al dottor Enzo Gabrigi, che le mette
a disposizione una macchina da scrivere, in manicomio Alda Merini torna a
scrivere. Uscirà da quell’inferno solo nel 1978. Pochi anni dopo il marito
Ettore muore e per Alda inizia una seconda vita. Conosce il poeta Michele
Pierri, un intellettuale tarantino che nella vita aveva esercitato la
professione medica. «Con Michele si erano conosciuti diverso tempo prima della
morte di papà. Posso dire che morendo papà gli abbia quasi affidato nostra
mamma». Michele Pierri è un uomo colto, sa parlare di poesia, riesce a
corrispondere le aspettative di Alda Merini: i due parlano di poesia, di
letteratura e di vita. Si tengono in contatto grazie a lunghe, lunghissime
telefonate – all’epoca molto costose – tant’è che alla morte di Alda Merini le
figlie trovarono «una bolletta da 5 milioni di lire da pagare».
QUEL
PONTE SUL NAVIGLIO CHE PORTA IL SUO NOME
Per ricordare Alda Merini, la città di
Milano le dedicherà un ponte sul Naviglio, il quartiere dove Alda visse da
sempre. «Nel 2017 vennero raccolte oltre 13 mila firme», racconta Diana
Battagia, direttore artistico dello Spazio Alda Merini, Casa delle artiste,
dove è stata ricostruita la stanza di Alda e dove si trova anche il famoso muro
di casa Merini su cui la poetessa scriveva appunti, numeri di telefono, poesie,
«ma la burocrazia impone che siano trascorsi almeno 10 anni dalla morte di una
persona prima di poterle intitolare un luogo».
E il calendario unico delle iniziative in
memoria di Alda Merini presenta tavole rotonde, incontri con i traduttori che
hanno permesso di far conoscere la poesia di Merini all’estero e una fiaccolata
poetica che dallo Spazio Alda Merini arriverà fino al Naviglio. «La scrittura
di Alda Merini», spiega Diana Battagia, «oggi è un messaggio di forte
reattività per i giovani, insegna la resilienza della parola in un mondo fatto
di ambiguità e spesso di contraddizioni. Ma non solo. Oggi», prosegue Battagia,
«leggiamo Merini perché è un conforto non buonista ma capace di accogliere il
diverso e gli ultimi. Lei ritraeva spesso i personaggi del Naviglio, con una
partecipazione emotiva importante e senza mai dare giudizi». E Merini «gli
ultimi» li accolse anche nella sua casa. Dopo la morte di Ettore Carniti ospitò
clochard, pittori senza il becco di un quattrino e vagabondi, persone che come
lei avevano conosciuto l’esclusione dal consesso sociale e la sofferenza.
E proprio a vagabondi, amici, confidenti
Alda Merini regalava poesie, appunti, biglietti. Un insieme di carte grazie
alle quali ogni tanto qualche editore ancora oggi pubblica l’ennesimo libro di
“inediti”. «Lei», spiega Battagia, «regalava tutto a tutti, per cui era facile
che qualcuno avesse qualcosa in tasca. Per salvaguardare la memoria di Alda
Merini credo adesso sia giusto fermarsi, studiare ciò che già è stato
pubblicato e in qualche modo selezionato dalla memoria. Diversamente si darà
modo ai detrattori della poesia di Merini – che pure ci sono – di accusarla di
essere “la poetessa dei Baci Perugina”, una sciocchezza che a volte capita
ancora di ascoltare. In generale», conclude Battagia, «il troppo non persegue
il buono: pubblicando di tutto solo per far uscire un libro, si rischia di
offuscare il buono che nella produzione di Alda Merini è stato davvero tanto e
profondo».
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