da: la Repubblica
Il “califfo” al-Baghdadi non potrebbe
sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da
”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani
più arabi e africani vari). Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si
discetta nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte
militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano. Una
operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio largamente
desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos geopolitico, dove si
affrontano decine di bande e milizie di vario colore e appartenenza etnica,
locale o regionale, tutte armate fino ai denti. Una campagna che in teoria si
presenta non dissimile dalle guerre sovietica o americana in Afghanistan, solo
in un contesto molto più confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la
stessa carenza di obiettivi chiari e perseguibili. Perché, contrariamente a
quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la
Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il
marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute.
In ogni caso, per una spedizione oltremare
toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza —
percorso non scontato — in modo
da vestirla da “operazione di pace”. Come ha
avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’Italia «è pronta a
combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale». Stavolta
però la foglia di fico onusiana non potrebbe mascherare la natura della guerra:
non c’è nessuna pace da preservare, nemmeno in embrione.
Non basta: il ministro della Difesa Roberta
Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione schierando
un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di soldati avremmo
bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo: quelli davvero
efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più. Peggio, sembra che
alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria del nostro passato
coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non l’hanno dimenticato i
libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo gli italiani qui fra le
mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger di Misurata, nemmeno fra i più
radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e i suoi gloriosi martiri.Quattro anni
dopo aver partecipato controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla
liquidazione franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo
dunque di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato.
A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi francesi nel
Fezzan.
Invece del Colonnello, con cui flirtammo
per quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle
ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi, emiratini
e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente intestarsi la
“guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di qualità ad uso dei
governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno avvertite, utile a
legittimare l’eliminazione dei propri avversari — in questo caso anzitutto le
milizie di Misurata e altri gruppi presuntamente “islamisti”. Puro avventurismo
geopolitico, che fra l’altro significherebbe esporci gratuitamente al
terrorismo jihadista sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia
adesso. A rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi
ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una soluzione
militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare l’Onu”. E ha
correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione dello Stato Islamico,
ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a
loro». Renzi mostra così di non voler cadere nella trappola della propaganda
del “califfo”, che si annuncia “a sud di Roma”. E, se volessimo davvero
combattere lo Stato Islamico, potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova,
fra Siria e Iraq. Non risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a
colpirlo.
Ma qualcosa si può e si deve fare. Prima di
tutto, non accendere nuovi focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi,
usare le leve finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di
denaro che arrivano ai gruppi armati — operazione tutt’altro che impossibile.
In terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i
jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria gli
americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e impianti controllati
dal “califfato”. In Libia le Marine occidentali potrebbero affondare, prima che
partano, le barche con cui i mercanti di essere umani attraversano il Canale di
Sicilia, lucrando su migliaia di disperati. Un blocco navale di fatto,
accompagnato da operazioni di forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un
colpo severo al più osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del
“califfo”.
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