da: la Repubblica
Chissà se i tassisti milanesi avranno
l’eccellente idea di denunciare, con nome e cognome, il loro collega che ha
appeso un cartello di insulti sessuali contro la giovane manager di Uber
(azienda loro concorrente) proprio davanti a casa della signora [leggi qui]. Chissà se le tassiste
milanesi, soprattutto loro, sono in grado di far notare al farabutto che ha
scritto quel cartello che se il manager di Uber fosse stato un maschio nessuno
gli avrebbe dato della puttana. Chissà se i tassisti milanesi si rendono conto
che un utente come me, da anni loro affezionato cliente, dopo un episodio come
questo, e dopo i casi di vero e proprio bullismo corporativo del quale i
tassisti non solo milanesi si rendono a volte responsabili, ha una gran voglia
di cambiare abitudini e dedicarsi al car sharing o diventare cliente di Uber.
Chissà se i tassisti milanesi sanno che le loro buone ragioni (una licenza
costa quattrini) diventano carta straccia se spiegate così malamente, urlate in
faccia a chi non è d’accordo con loro, e capiscono la differenza tra i diritti
di chi lavora e i privilegi di una casta. Chissà se i tassisti milanesi (e
ancora di più quelli romani) colgono la differenza abissale tra il servizio che
offrono loro e il servizio di Londra, di Parigi o di una delle tante città
europee dove per trovare un taxi libero basta fare un cenno con la mano. Chissà
se i tassisti milanesi avranno l’intelligenza di scusarsi con
la manager di
Uber e con la cittadinanza per quell’orribile intimidazione.
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