da: Il Fatto Quotidiano
di Daria
Lucca
Mai fidarsi dei titoli, degli slogan e
delle battute strappa applausi. Nonostante la retorica traboccante, infatti,
ecco spuntare nel Jobs Act un piccolo (o non tanto piccolo?) tranello non
esattamente politically correct. Leggendo per intero, fino in fondo, il famoso
decreto attuativo della legge 183/2014 sulla riforma delle tipologie
contrattuali, decreto esaminato dal Consiglio dei
ministri qualche giorno fa, si può scovare una perla della
politica discriminatoria di genere, nascosta in uno degli ultimi articoli del
provvedimento, per l’esattezza l’articolo 46. Nascosta molto bene,
peraltro, poiché è mascherata dietro quelle formule abrogative che nessuno mai
si prende la briga di controllare, dando per scontata la buona fede
dell’estensore.
Vediamo nel dettaglio. Abolendo norme ormai
superate (o ritenute tali) dalla legge 183, infatti, si inserisce nell’elenco
“l’articolo 3, comma 1 e 2, del decreto legislativo 151 del 2001”.
Per chi non lo sapesse, si sta parlando
della legge a tutela e sostegno della maternità e della paternità. La sorpresa
è proprio qui, e se ne sono accorte, fra le altre, le consigliere di parità
della Regione Marche. L’articolo cancellato è
nientemeno che il divieto di discriminazione
fondato sul sesso per quanto riguarda l’accesso al
lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il
settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia
professionale”.
Il decreto di cui stiamo parlando non è
ancora stato approvato definitivamente. Ma la noncuranza o quantomeno la
leggerezza con cui l’ignoto estensore del testo ha ritenuto di poter abrogare
con un tratto di penna anni di battaglie delle lavoratrici italiane, e non solo italiane e non solo
lavoratrici di mansioni minori, è indicativa di quanto ci sia
ancora da vigilare perché la discriminazione di genere nel mondo del lavoro sia
mandata in soffitta.
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