da: https://it.businessinsider.com/ - di
Gea Scancarello
Andrea Crisanti è un cervello di ritorno: professore di parassitologia molecolare
all’Imperial college di Londra, è rientrato
in Italia come direttore del laboratorio di microbiologia e virologia
dell’Università (e azienda ospedaliera) di Padova, portando competenze
preziose. In questi giorni è infatti noto soprattutto per essere l’uomo che ha
guidato il Veneto fuori dall’emergenza coronavirus, risparmiando alla regione
uno scenario catastrofico come quello lombardo e che è stato indicato da Ernesto
Burgio come uno dei pochi se non l’unico vero esperto italiano.
In controtendenza
netta e isolata con le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità
(Oms), Crisanti ha insistito per fare i tamponi a tutti i contatti dei
presunti infetti, riuscendo a bloccare l’epidemia sul territorio prima che
dilagasse negli ospedali.
Eppure, dice, che ancora oggi “questa
decisione strategica non è stata fatta propria da altre regioni”. Gli abbiamo
chiesto allora di spiegarci il mistero dei tamponi che non si fanno e il nuovo
fiorire di test sierologici (“Non servono assolutamente a nulla”).
Ci
aiuta a capire una volta per tutte perché ancora ci sono malati o persone che
chiamano con sintomi a cui non vengono fatti tamponi? Mancano i materiali? Non
c’è la volontà?
È un insieme di cose. All’inizio
sicuramente i reagenti sono mancati, ma non credo che
adesso siano più un grandissimo problema: penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli ai contatti e a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione. Se non si capisce l’importanza di questa strategia di fatto rimarremo sempre con queste polemiche…
adesso siano più un grandissimo problema: penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli ai contatti e a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione. Se non si capisce l’importanza di questa strategia di fatto rimarremo sempre con queste polemiche…
La
strategia in Veneto ha funzionato, possibile che ancora gli altri non abbiano
capito?
Possibile, sì. In altre regioni si pensa
che il tampone serva solo a fare la diagnosi. In realtà, se arriva una persona
che sta male, da sette-otto giorni, con tutta la sintomatologia canonica e il
quadro radiologico, il tampone non c’è nemmeno bisogno di farlo: dovrebbero
farlo invece tutte le persone con cui la persona è entrata in contatto. È,
insomma, essenzialmente una questione di decisioni strategiche.
Se
non si cambiano queste decisioni strategiche corriamo dei rischi il 4 maggio,
alla riapertura?
I rischi esistono perché c’è ancora
tantissima trasmissione: tremila casi al giorno sono ancora molti, mica pochi.
Vengono
raccontati però come fossero un successo.
Certo, perché eravamo abituati ad altri
numeri.
Dove
ci si contagia oggi, quali sono i focolai presumibili?
Principalmente a casa e nelle istituzioni,
cioè nelle Residenze sanitarie per anziane (Rsa). E poi, ovviamente, nelle
fabbriche o in altri ambienti di lavoro: ci sono anche tantissime attività
produttive o commerciali che sono attive.
A
questo proposito servirebbero informazioni più certe sul virus stesso. Molti
dovranno per esempio riaprire gli studi professionali nei prossimi giorni,
dovranno aprirsi al contatto col pubblico. Di cosa devono preoccuparsi,
concretamente: disinfettare le superfici, mettere divisori in plexiglass o che?
Se le persone usano le mascherine le
possibilità che il virus si depositi sulle superfici è di fatto limitata.
Certo, il virus resiste sulle superfici in determinate condizioni di
temperatura e umidità, come è stato dimostrato in diversi studi: tuttavia, le
mascherine aiutano anche in questo, perché bloccando il passaggio delle
goccioline danno al virus meno possibilità di depositarsi. Detto questo, certo,
anche i plexiglass aiutano.
Cosa
sappiamo dell’immunità e di possibili riattivazioni, come quelle denunciate in
Corea?
Nulla, assolutamente nulla.
Quindi
i test sierologi che ci apprestiamo a fare che valore hanno?
Nessuno, soltanto, chiamiamolo così, un
valore epidemiologico, per capire dove il virus si è diffuso in maniera più
estesa.
Esistono
però casi di persone che erano convinte di aver fatto la malattia, anche se in
forma debole, a cui i sierologici non hanno rilevato nulla…
Appunto, continuo a ripeterlo: non servono
a nulla questi test.
Con
queste pochissime certezze, a che estate andiamo incontro?
È difficile da dire, onestamente non lo so.
Stiamo affrontando questa cosa in maniera troppo caotica: ogni regione si sta
organizzando in maniera diversa mentre ci vorrebbe invece una risposta
unitaria.
Ma
il governo sta cercando di stroncare le spinte regionali e riaprire con regole
condivise il 4 maggio..
Il punto è che aprire tutti il 4 maggio è
sbagliato! Non tutte le regioni sono pronte, non si conosce l’incidenza della
malattia per giorno, per regioni e per classi di popolazione… insomma, è un pasticcio.
E d’altronde è sotto gli occhi di tutti: può la Lombardia essere paragonata
alla Calabria o alla Sicilia? Sono regioni che hanno casi diversi e capacità di
affrontarli diversi, e comunque né per l’una né per le altre sappiamo quali
sono i contagi giornalieri. Io rimango basito. Queste sono le cose che non
vanno bene: sa quante persone sono state abbandonate a se stesse in questo
periodo? Non ne ha idea…
Con
chi dovremmo prendercela?
Chiaramente l’epidemia era un evento in
qualche modo imprevedibile, nel senso che non era successo in 80 anni: il fatto
che non fossimo preparati è deprecabile
ma può essere in qualche modo giustificato. Quello che non è giustificabile è
riaprire essendo ancora impreparati: questo proprio non va bene.
Molti
hanno seguito le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms),
ma si sono rivelate sbagliatissime. Perché l’Oms ha sbagliato?
Perché non prevedevano il fatto che ci
fosse un grande numero di asintomatici, essenzialmente.
Si sono basati su studi cinesi e i cinesi
non sono mai stati trasparenti, né sull’inizio della malattia né sul numero dei
casi: parliamo di un Paese in cui la trasparenza non è un valore e tutte le
informazioni che fornisce vanno prese come un certo scetticismo. Invece l’Oms le
ha prese come oro colato e la ha trasmesse a tutto il mondo, con le conseguenze
che stiamo vedendo.
E
lei come ha fatto a decidere che l’Oms stava sbagliando?
Noi ce ne siamo accorti facendo i tamponi a
Vo’: ci siamo resi conto che c’era una percentuale grandissima di persone
asintomatiche ma positive.
Aver
insistito sui tamponi è stato essenziale, insomma. Ma voi lo avete detto a
tutti gli altri per avvertirli?
Certo. Lo abbiamo detto a tutti e si
trattava inoltre di dati disponibili, forniti a tutti dal Veneto. Chi avesse
voluto, avrebbe potuto vederli, capirli, usarli.
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