di Milena
Gabanelli e Rita Querzè
In Europa, l’Italia è il Paese dove da anni la probabilità di prendersi
un’infezione negli ospedali, è in assoluto la più alta: il 6%. È la
conseguenza di un graduale aumento di rischi specifici inclusa la scarsa
formazione degli operatori sanitari a osservare le misure di sicurezza, a
partire da quelle igieniche. In questo quadro è esploso il Covid-19.
Oggi
il personale sanitario, che conta 19.942 contagiati e 185 morti,
attraverso le sue rappresentanze sindacali ha presentato un esposto ai Nas
oltre che alle procure di dieci regioni: contestano alle aziende ospedaliere di
non avere tutelato medici e infermieri come dovuto.
La questione riguarda anche noi cittadini,
perché i medici positivi al virus
rischiano di trasformare gli ospedali in focolai del contagio, e il livello
di sicurezza del personale sanitario è una delle chiavi del successo (o
dell’insuccesso) della lotta contro il coronavirus.
Il piano contro le pandemie mai attuato
Vediamo
come sono andate le cose, a partire dai presidi di tutela
numero uno: le mascherine.
Le Regioni
avevano sul tavolo il piano contro le pandemie (dal 2007 in Veneto ed Emilia
Romagna, e ben due a partire dal 2006 in Lombardia). Una disposizione
chiave dice: «Fate scorta di dispositivi di protezione, mascherine, guanti,
tute». Al contrario della Germania, le
nostre aziende sanitarie non lo hanno mai attuato, e quando è arrivata la
tempesta i dispositivi mancavano. Va sottolineato che, per i medici, le
mascherine dovevano essere le FFP2 e P3. Lo richiedeva l’Inail. Siccome
scarseggiavano le
regole sono state cambiate in corsa dall’Oms e poi dal governo stabilendo che bastavano quelle chirurgiche, che proteggono il paziente ma non l’operatore. È andata avanti così fino a poco tempo fa, e quindi si sarebbe dovuto, quantomeno, fare il tampone a medici e infermieri esposti, per tenerli fuori dagli ospedali in caso di positività, come raccomanda dal 25 marzo il Ministero della Salute. D’altra parte, fin da fine febbraio, con l’analisi dei primi casi di Vo Euganeo e di Codogno, è stato confermato che a trasmettere il virus sono anche persone senza sintomi, ma infette.
regole sono state cambiate in corsa dall’Oms e poi dal governo stabilendo che bastavano quelle chirurgiche, che proteggono il paziente ma non l’operatore. È andata avanti così fino a poco tempo fa, e quindi si sarebbe dovuto, quantomeno, fare il tampone a medici e infermieri esposti, per tenerli fuori dagli ospedali in caso di positività, come raccomanda dal 25 marzo il Ministero della Salute. D’altra parte, fin da fine febbraio, con l’analisi dei primi casi di Vo Euganeo e di Codogno, è stato confermato che a trasmettere il virus sono anche persone senza sintomi, ma infette.
Ma per capire come ogni ospedale si regola con i propri
operatori prendiamo tre casi: il Papa
Giovanni XXIII di Bergamo, l’Azienda Ospedaliera di Parma e quella di Padova nei
giorni dell’emergenza, cioè dal 20 febbraio fino a Pasqua. Nei tre ospedali, ai medici che si ammalavano in corsia
veniva subito fatto il test, e i positivi tornavano in servizio solo quando
avevano due tamponi negativi. Ma cosa succedeva quando un medico o un infermiere scopriva a casa di avere i sintomi del
Covid-19? Ai medici di Padova e di Parma veniva fatto il tampone, e se positivo
scattava l’infortunio sul lavoro. A Bergamo,
invece, se non finivano ricoverati, spesso
restavano a casa in malattia finché non erano guariti, senza che venisse fatto
alcun tampone per sapere se avevano contratto la malattia, esponendo così i
familiari. Il tampone non veniva fatto nemmeno al ritorno in ospedale, per
verificare se erano ancora contagiosi. Inoltre, per loro non si poteva
applicare l’infortunio legato al Covid-19, perché la direttiva Inail prevede
l’esito del tampone positivo (che nessuno ha fatto).
Una
differenza non da poco: con l’infortunio, in caso di invalidità o morte, sono
previste indennità, con la semplice «malattia» invece a molte
direzioni sanitarie hanno pure imposto inizialmente un taglio alla busta paga
sui primi dieci giorni di assenza, applicando la legge Brunetta.
La
diffida alla Regione Lombardia
E
così decine di ospedalieri sono tornati in corsia, a contatto con i pazienti,
senza sapere di cosa si erano ammalati. Dopo le continue proteste delle associazioni dei medici, il 10 aprile la
Regione Lombardia ha emanato un’ordinanza in cui viene prescritto il
tampone anche ai medici che si sono ammalati a casa, o che hanno sintomi.
Ebbene, venerdì 24 aprile l’Anaao,
insieme a tutte le altre associazioni, ha inviato una diffida alla Regione
perché diverse aziende sanitarie si rifiutano di fare il tampone al personale
sanitario che ha riscontrato i sintomi del Covid-19 mentre era a casa e
anche a quelli che stanno in corsia (tosse, perdita dell’olfatto e del gusto)
se non hanno anche la febbre sopra 37,5.
I
medici asintomatici a Parma, Padova, Bergamo
Ci sono poi i casi dei medici asintomatici che dentro l’ospedale hanno avuto contatti senza
mascherina con persone malate. A Bergamo
nei giorni successivi al «contatto a rischio» non veniva fatto alcun tampone
per scoprire se erano stati contagiati. In situazioni analoghe a Parma veniva fatto il test entro sette
giorni, e chi risultava positivo veniva mandato a casa.
A
Padova invece venivano fatti 4 tamponi nell’arco di 14 giorni.
Padova è anche l’ospedale che in assoluto ha fatto più tamponi: ogni 10 giorni
vengono sottoposti al test tutti gli operatori dei reparti Covid, e ogni 20
giorni il personale degli altri reparti. Il risultato è che il 39% dei medici positivi è asintomatico.
Vuol dire che senza questo monitoraggio avrebbero potuto contagiare familiari e
pazienti a loro insaputa.
Quando
ad ammalarsi è il medico di base
Infine i medici di famiglia. Per loro non ci sono procedure da seguire e fino a
pochi giorni fa nemmeno i dispositivi di protezione. Con il Covid, l’Inps
ha sospeso le visite fiscali ma ai medici è stato lasciato l’obbligo di vedere
il paziente per fare il certificato medico, e quello di fare le ricette di
carta per una serie di farmaci, come le terapie del dolore. Cosa succede quando un medico di base si
ammala? In Lombardia ancora oggi
in buona parte possono contare sul tampone
soltanto se finiscono al pronto soccorso. In Emilia Romagna bastavano i sintomi, come in Veneto, dove invece da
quasi un mese si esaminano tutti i medici di famiglia, anche senza sintomi.
La velocità varia a seconda dei territori. Si va dal 97% in provincia di
Padova, al 25% di quelli della provincia di Verona (fonte Fimmg).
Scudo
penale per tutti, ma i medici non ci stanno
Intanto dal 2 aprile in Emilia sono partiti i test sierologici su tutto il
personale sanitario, in Lombardia sono
iniziati il 23 aprile, con diversi gradi di priorità. Il risultato
di tutto questo è che il tasso di
infezione degli operatori sanitari, calcolato dall’ISS, in Lombardia è 19,1
volte superiore a quello della media della popolazione, in Emilia Romagna 6
volte, e in Veneto 3,9 volte. Li abbiamo chiamati giustamente «eroi», ma
visto che durante la pandemia non
avevano le condizioni adeguate per curare i pazienti di Covid-19, i medici hanno chiesto uno scudo penale e civile
limitato ai mesi dell’epidemia. Maggioranza e opposizione si sono dette
favorevoli, ma hanno presentato emendamenti
al Cura Italia (uno firmato da Salvini per la Lega e uno da Marcucci per il Pd)
che toglievano ogni responsabilità
anche ai dirigenti delle aziende sanitarie e delle Regioni, impedendo anche
al personale sanitario di contestare inadempienze al datore di lavoro. I primi ad insorgere sono stati proprio i
medici dicendo che se così dovevano andare le cose avrebbero rinunciato
allo scudo anche per se stessi. Alla fine gli emendamenti sono stati ritirati,
ma il Parlamento ha disposto con un ordine del giorno che si tornerà sulla
questione a breve. Chiarire cosa ha funzionato e quali errori sono stati fatti
è un dovere: nei confronti del personale sanitario, delle vittime, e dei
cittadini che finanziano il sistema sanitario pagando le tasse.
Per
chi si ammala a casa niente infortunio
Ogni
Regione ha le sue regole, che poi vengono recepite in modo
diverso dalle singole aziende sanitarie. Una però vale per tutti: chi si ammala di Covid-19 torna al lavoro
dopo due tamponi negativi. All’ospedale
di Lodi succede che almeno cinque medici positivi al test, vengono fatti rientrare dalla malattia dopo un solo
tampone negativo.
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