venerdì 29 maggio 2015

Un secolo di Billie Holiday: con lei il jazz scoprì la voce strumento





Cento anni fa la nascita di una delle più grandi interpreti del 900. Una vita breve e intensa di dolore e trionfi. Un talento immenso fatto di pathos e sensualità. Che ieri come oggi la rende un modello. I successi con le grandi orchestre e i piccoli combo, le truffe dei discografici e gli anni tristi. Storia (senza stereotipi) della vita scandalosa di una creatura meravigliosa

Cosa resta oggi di Billie Holiday? Risposta scontata. Moltissimo. Intanto la profonda bellezza che ha donato al mondo. E non solo quello del jazz. Anzi. Nata Eleanora Fagan a Philadelphia il 7 aprile del 1915, Billie è stata -  e resta - una delle più belle e influenti interpreti vocali del Novecento tout court. E il suo centesimo dalla nascita val bene qualche pensiero intorno a quella figura così incredibilmente dotata, sensuale, fragile, seducente. Una pasoliniana disperata vitalità la sua, che unita al ciclopico talento musicale le ha aperto i cuori di milioni di persone. Con però, alla distanza, la discutibilissima prevalenza – il maledettismo, quello degli altri però, va sempre di moda – della prima sul secondo. Tesi che con molta ragione Cassandra Wilson, che le ha da poco dedicato un disco di abbagliante intelligenza, bellezza e sensibilità,
sostiene con vigore. Un omaggio il suo che, fra i pochi realizzati – anzi i pochissimi, a dispetto di ambita rotondità del centenario e fama del personaggio: solo altri due che si sappia, quello asciuttamente molto jazz dell’ottimo portoricano d'America Jose James e l’altro della vociante e troppo giovane inglese Rebecca Ferguson – brilla proprio per il suo compiuto desiderio di accendere, con bel piglio contemporaneo, lo splendore senza tempo di un classico moderno. Che come Billie non può più scendere dall’Olimpo cui è saputa assurgere. Per, appunto, l’enormità di ciò che ebbe in dono e di cosa seppe farsene. E non, una volta per tutte, per le inenarrabili sofferenze, la miseria e le violenze sessuali da bambina, la prostituzione da adolescente, l’eroina (con processi e galera al seguito) e l’alcol che mise nel sangue per turare la voragine nella sua anima, gli infiniti amori folli e senza speranza, la segregazione durissima di cui per tutta la vita fece le spese. Malgrado una celebrità che tra gli afroamericani, fin lì, era toccata solo al genio, anche di businessman, del però integerrimo e religiosissimo Duke Ellington.

Una maniacale perfezionista. Tutte cose che, se a qualcosa son servite – oltre a contribuire all’edificazione d’un topos fino ai Settanta sfortunatamente, significativamente centrale del jazz – è stato solo perché hanno inciso ancora più a fondo in lei verbo e pathos del blues col quale ha nutrito la sua musica. Il resto, tutto il resto, era frutto della sua vocazione sublime. L’aver capito e sviluppato la lezione degli immensi Bessie Smith e Louis Armstrong, facendo per prima della sua duttile, sensuale voce, uno strumento, oggi un’ovvietà, nei Trenta una rivoluzione copernicana; lo storytelling scarnificato, offerta di una se stessa intima, narrazione privatissima e dichiarazione d’amore per ogni singolo ascoltatore; il perfezionismo ossessivo per il quale ha cambiato senza tregua etichette, autori, arrangiatori e musicisti, alla ricerca di un ideale che sa d’ultraterreno, come anche nelle tante canzoni che arrivò ad incidere 5, 6, 8, 12 o, è il caso di Billie’s Blues, 19 volte. Ancora, un senso dello swing, altra svolta epocale, pigro, sexy e ciondolante che, su tempi per lo più lenti e medi, i suoi favoriti, replicava in modo già cool, felino e pieno d’elegantissime invenzioni ritmiche, ai sudatissimi baccanali a la page in quel periodo. Per la voce di Billie, in particolare, che come Bessie Smith seppe miracolare anche le più triviali delle 304 canzoni che ebbe in repertorio – solo due o tre, come Billie’s Blues e God Bless The Child, quelle cui mise mano scrivendone i testi – ci vorrebbe un libro apposta. Ce la caviamo con le parole d’un ottimo studioso del canto nero quale Luciano Federighi: “Nuda, friabile, resa eloquente – nella modestia del volume e dell’estensione – da una trama naturalissima di sussulti, crepature, pieghe e trasalimenti timbrici sospesi tra lirismo e tono colloquiale”. Una sorta di recitar cantando o parlar cantando afroamericano.

Sorvegliata speciale. Anche in punto di morte.  Viste la sua consistente discografia non si può affermare in effetti che critica e industria, negli Usa, l’abbiano davvero dimenticata. Dai sei Grammy (fra il 1976 e il 2000) della Hall of Fame Awards, per i singoli con almeno 25 anni e un alto significato storico e di qualità, ai quattro (fra il 1980 e il 2002, il premio nasce nel 1979) per il miglior disco storico, da quello postumo alla carriera nell’87 all’ingresso – bizzarro la sua parte – nella Rock and Roll Hall of Fame del 2000, c’è in effetti una certa continuità. Ma è l'avvio di questa memoria che parte davvero troppo tardi rispetto alla morte nel '59. Un gap confermato anche dall’Apollo Theater di Harlem, sancta sanctorum soul & jazz dove la Holiday andò 23 volte a miracol mostrare e dove fu accolta anche quando nel ’47 il City Hall le ritirò la licenza (cabaret card), che l’ha inserita nella sua Walk of Fame solo lo scorso 7 aprile – dopo divinità come James Brown, Stevie Wonder, Etta James, la Franklin e la Fitzgerald, e, incredibile a dirsi ed ascoltarsi, persino Lionel Ritchie. Un ritardo enorme, che colpisce e ferisce quello con cui è stata ammessa nel parterre de roi dello showbusiness. Perché Billie non fu il genio di pochi ma ebbe, ed ha, milioni di adoratori ovunque nel mondo. E d’altro canto non l'aiutò certo ad arrivarci prima una vita scandalosissima – anche nella morte. Il 21 luglio del ’59 Billie volò via da un letto del Metropolitan Hospital di New York cui era ammanettata e sorvegliata da uno della narcotici (la tenevano d’occhio da vent’anni) per una nuova condanna a causa dell’eroina trovatale in casa.

Fermata dalla Storia. Dopo, negli anni bui ancora maccartisti e già di una Guerra Fredda dalla quale nascerà presto il Vietnam, delle durissime rivolte di neri e studenti fino al Watergate, non ci fu tempo né voglia per ricordarsi di lei. Anche perché da una parte il jazz nero guardava altrove urlando il free e il rock si faceva largo imponendosi su tutto. Dall’altra i probi cittadini nordamericani e i loro incorruttibili mentori non potevano davvero perdonarle d'esser morta come aveva per loro, impenetrabili all’arte sua, vissuto. In più Billie era nera: Rosa Parks aveva da poco, 1° dicembre 1955, a Montgomery Alabama, reclamato un posto fra quelli dei bianchi sull'autobus che la portava a casa. Mentre al sud il linciaggio degli afroamericani era un passatempo per famiglie ancora largamente praticato. Fu enorme e generosa fino all’ultimo Lady Day, tenero nomignolo col quale il “saxophone colossus” e suo solo vero grande amore Lester Young la ringraziò per averlo ribattezzato Prez o Pres, diminutivo di President. Malgrado la perdita di volume, verve ritmica e flessuosità d’emissione, arrivate lungo i ’50, mentre gli stravizi le sbriciolavano un po’ alla volta la salute, seppe volgere quel declino in una vocalità nuova, fascinosamente scura, opaca, lacerata. Fino ad esser capace, come rivelano le toccanti registrazioni Verve (il cui box di dieci cd costa 59 euro; da poco Legacy ha fatto uscire The Centennial Collection, bell’assaggio dell’intera carriera in 20 classici), di metter in scena quella sua lenta straziante sparizione dal mondo con una sincerità dolorosa anche solo a sentirsi.

Una dittatrice di genio. Irascibile e indomabile, tanto sicura di sé sul lavoro quanto non lo era nel privato, specie gli affetti, la Billie artista parve aver scelto subito di lasciarsi guidare da un’irrequietezza di perenne insoddisfatta. Altro segno di una personalità pericolosamente sensibile e inquieta. Per la quale è impossibile lavorare troppo a lungo con le stesse persone. È famosa e amata già dal ’37, anno in cui piazza 16 pezzi in classifica. Dal ’45 al ’47 guadagna la fortuna di 250.000 dollari l’anno. Il 27 marzo ’48 la Carnegie Hall, con anticipo di giorni, resta senza uno solo dei suoi 2700 posti disponibili. Entra in fretta fra gli ospiti di riguardo dei nascenti salotti catodici Usa. Lo stesso non si dà requie. E cambia casa discografica come cambiava le sue provocanti, eleganti mise e i troppi amanti, quasi tutti violenti e dominatori come belve attratte da quell’agnello che si offriva loro inerme. Così la Columbia, e le sue sussidiarie Brunswick, Vocalion e OKeh, cedono il posto alla Commodore, la Capitol alla Decca e la Aladdin, poi la Verve e di nuovo la Columbia fino alla MGM, in un ossessionato gioco dell’oca. Ma se si sceglie un disco o un box ufficiali le sue cose valgon tutte la pena. Che siano i piccoli favolosi combo come quelli con i giganti dei Trenta rimasti fuori dalla nouvelle vague del bop, da quelli con Lester Young o Coleman Hawkins a quello fra '56 e '57 con Ben Webster, Harry Edison, Barney Kessel e alcuni contrabbassisti (riccamente ristampati dalla spagnola Phoenix nel 2012). Oppure che si tratti delle molte grandi orchestre, dalla prima, quella di Teddy Wilson, uno dei dominatori della swing era, all’ultima, diretta da Ray Ellis, con la quale incise Lady In Satin, passando per le big band di Artie Shaw, Paul Whiteman e Red Norvo. Stregati dal suo talento tutti lavoravano con lei. Ma farlo non fu mai facile. Così Count Basie, che fra ’37 e ’38 le mise al servizio, però solo dal vivo, il suo storico ensemble: “Quando provava con l’orchestra, si trattava solo di fare le canzoni come voleva lei, perché sapeva come voleva che suonassero e non potevi davvero dirle cosa fare”. Lo stesso valeva per gli arrangiamenti, che regolarmente ritoccava, e il personaggio di donna sfortunata in amore col quale seduceva maschi e femmine. Che però, strano a dirsi, nella pur sincera autobiografia Lady Sings the Blues scritta nel ’56 col giornalista del “New York Post” William Dufty (nel ’72 ne fu tratto l’incredibilmente sopravvalutato e melenso film di Sidney J. Furie, con una Diana Ross da dimenticare), depenna o minimizza dalla lista dei suoi amori relazioni sulla carta piene di glamour. Come quella con l'inglese Charles Laughton, mostro sacro di cinema e teatro, e quella, nota ai più né poi troppo scandalosa visto lo stile di vita del mondo dello spettacolo d'allora, con Talullah Bankhead, tragica, fascinosa figura di attrice e intellettuale “genio e sregolatezza”. Senza dimenticare che nel libro Billie pare abbia ridimensionato assai pure il suo affaire con l’Orson Welles giovane, bellissimo e invincibile di Quarto potere (1941).

Favola notturna ad Harlem. Ne era passato di tempo da quando, ragazzina nata a Philadelphia da una povera coppia di teenager, Sarah Fagan e il chitarrista jazz Clarence Holiday, che non visse mai con loro riuscendo però a entrare nell’orchestra di Fletcher Henderson, raggiunse la madre a New York. Dove era andata a cercar lavoro dopo esser stata cacciata dalla famiglia perché incinta. Insieme spartivano fame e freddo in una povera casetta sulla 145esima, nel cuore di Harlem. Là Billie, in cambio delle commissioni per una vicina, poteva ascoltare da lei i suoi idoli Louis Armstrong, col quale avrà nei ’40 fortunati incontri artistici e dividerà la per lei frustrante esperienza del cinema in New Orleans, e Bessie Smith, cui già celebre renderà splendido omaggio. “Per mamma quella era musica peccaminosa, mi avrebbe frustato all’istante se mi avesse scoperto. La sola permessa per lei erano inni e roba del genere”, come ha raccontato al critico e storico del jazz Nat Hentoff nella sua fondamentale raccolta (purtroppo inedita in italiano) di testimonianze di protagoisti di blues e jazz Hear me, Talking to Ya. “Un giorno eravamo così affamate che respiravamo appena. Mi buttai fuori dalla porta, era freddo da morire e camminai a lungo entrando in ogni locale in cerca di lavoro. Alla fine ero così disperata che mi fermai al Log Cabin club di Jerry Preston. Gli dissi che volevo da bere. Non avevo un centesimo ma ordinai un gin. Era il mio primo drink, non l’avrei riconosciuto da un bicchiere di vino. Lo trangugiai in un sorso. Chiesi un lavoro a Preston, dicendogli che ero ballerina. ‘Danza allora’ mi disse. Provai. Disse che facevo schifo. Gli dissi che sapevo cantare. ‘Canta’ rispose. Nell’angolo c’era un vecchio che suonava il piano. Attaccò Travelin’ e cantai. Gli avventori smisero di bere, si girarono e guardarono. Il pianista, Dick Wilson, scivolò dentro Body and Soul. Accidenti, avresti dovuto vedere quella gente, iniziarono tutti a piangere. Preston si avvicinò, scosse la testa e disse ‘Ragazzina, hai vinto’. Ecco come ho cominciato. La prima cosa che feci fu prendermi un sandwich che buttai giù in un boccone. Alzai 18 dollari di mance. Uscii di corsa, comperai un pollo intero e corsi fino a casa. Mamma ed io mangiammo quella sera, e da allora l’abbiam fatto sempre piuttosto bene”.

Da John Hammond a Benny Goodman. In effetti da quella sera dei primi anni ’30 tutto cambiò nella vita di Eleanora Fagan. A partire dal nome, divenuto Billie Holiday dal quello dell’attrice Billie Dove, che le piaceva molto, e dal cognome del padre. Benny Goodman se la ricorda già nel ’31 al Bright Spot, quando iniziava a farsi una reputazione nei club tipo il Covan’s. Dove alla fine del ’32 rimpiazza la collega Monette Moore. Che da qualche tempo è nel mirino di John Hammond sr, il favoloso produttore e talent scout che lungo il Novecento scoprirà, fra i tanti, Count Basie, Charlie Christian, Lionel Hampton, Pete Seeger, Aretha Franklin fino a Dylan, Leonard Cohen, Bruce Springsteen. E Billie Holiday. Che trova per caso sul palco di quel club e subito vuol far esordire su disco per la Columbia, 11 novembre 1933, con l’altra sua fresca scoperta Benny Goodman. “Il canto di Billie cambiò i miei gusti e la mia vita musicale – ha raccontato Hammond, padre inoltre dell’omonimo eccellente chitarrista – perché è stata la prima cantante con la quale ho avuto a che fare che canta come un genio improvvisatore del jazz”. La Holiday è d’accordo: “Quando canto non penso di star cantando, mi sento piuttosto come se stessi suonando uno strumento a fiato. Provo ad improvvisare come Lester Young o Louis Armstrong o chiunque altro ammiri. E quel che esce è ciò che io sento. Detesto il canto lineare, preciso, devo sempre adattare un motivo al mio modo di interpretarlo. E questo è tutto quel che so”.

L’incontro con Duke Ellington. 1935 un provino mette quella bellissima giovane a disposizione di Duke Ellington, già star di prima grandezza, che cerca un cantante per la clip del suo debutto nell’utilizzo di jazz e forme classiche. Non si pensi che la clip sia nata col rock: già a fine anni ’20 major come Paramount e RKO e produttori come Adolph Zukor affidavano a registi di buona mano veri e propri minifilm per il mercato jazz. Fred Warrel è chiamato a dirigere gli otto movimenti di Symphony in Black. A Rhapsody of Negro Life, pionieristico capolavoro sulla consapevolezza afroamericana che attinge allo spiritual con vibrante devozione. È il racconto di una quotidianità metropolitana ma ancora da schiavi, imperniata sull’amore infelice della giovanissima Lady Day. Che nel finale, tradita e malmenata dall’infame amante, canta distesa in terra nel mezzo della strada tutto il suo straziante dolore. Profezia esatta fino ai brividi delle infinite sue sofferenze a venire. Gli stessi brividi che vengono nell’immaginarsela vent’anni dopo, quando di nuovo cerca di rialzarsi da terra. Però non è più un film, è la vita reale che va in dissolvenza sulla gloria di ieri. Nel ’54 è in Europa e poi al festival di Newport. Si divide fra California e New York, canta per quanto può ma stanchezza e dolore interiore son forti e chiari. Poco prima, 1953, è tornata in tv, stavolta da sconfitta, per un reality della ABC, “The Comeback Stories”, dove racconta i suoi sforzi per battere un destino avverso. Novembre ‘56, riesce ancora a riempire due sere di seguito la Carnegie. Nel ’57 l’ennesima unione con un uomo violento, Louis McKay, sicario della mafia, che cerca, senza riuscirci, di tirarla fuori dall’eroina. Ma è solo perché pensa di metter su un business di scuole di canto, chiamate va da sé Billie Holiday. L’attività degli ultimi anni sfuma fra orchestre e i gruppi all star che l’accompagnano nei club e alle radio, vi si alternano Gerry Mulligan, Roy Haines, Stan Getz, il fedele Jo Jones fino ai toccanti duo con un giovane Mal Waldron.

“Sarò io la prossima ad andarsene”. Billie è dimagrita, spossata. Invano Leonard Feather, musicista, studioso inarrivabile del jazz e amico carissimo, il suo agente Joe Glaser e il giornalista Allan Morrison tentano di farla ricoverare di nuovo. Dentro di sé Billie ha deciso da un pezzo. In quelle stesse settimane, straziante coincidenza, Lester Young, rientrato distrutto da un tour europeo accorciato per le deriva irrimediabile della sua salute, si avvicinava alla fine. Anche Billie è in Europa: il 23 febbraio del ’59 a Londra Grenada tv manda in onda l'ultima apparizione. S'erano persi di vista da parecchio, ma lo stesso quando seppe dell’amato Prez, salì sul primo aereo per New York. Al suo arrivo però lui era già morto. Spuntava l’alba del 15 marzo 1959. Non le restò che chiedere, sperare, di cantare al funerale. Tragedia nella tragedia, la famiglia di lui disse no senza appello. Feather ricorda la corsa in taxi verso il Cemetery of Evergreens, quando Billie con un fil di voce sentenziò: “Sarò io la prossima ad andarsene”. Implacabile profezia. Quattro mesi dopo, il 17 luglio, le complicazioni una cirrosi facevano volare Billie Holiday, cremata il 21 luglio, via da una vita e da un mondo duro anzi tremendo ma amato con tutta se stessa. E che fino all’ultimo derubò la sua grande, splendida anima. Una delle più eccezionali interpreti del secolo scorso moriva con 70 centesimi in banca e 750 dollari addosso, compenso di un tabloid. Dei suoi favolosi guadagni non restava nulla, tassa pagata agli stravizi ma anche alla sua generosità. Oltre alle truffe dei discografici, i contratti disattesi, le royalties non pagate, persino la madre, alla quale aveva regalato un ristorante, la frodò non rendendole un centesimo neanche quando ne ebbe disperato bisogno. Billie se ne andò gridandole “God bless the child that’s got his own” ("che Dio benedica i ragazzi che ce la fanno da soli"). Con quel verso in testa e accanto il pianista Arthur Herzog, suo abituale collaboratore, scrissero il capolavoro che tutti sanno e una delle pochissime canzoni a portare anche la sua firma. Perché questo era lei: la musica della vita, anche quando non ti sorride.

Premi, fumetti e altri souvenir. Fra chi le ha rivolto il proprio affetto e pensiero, di certo i maestri argentini del fumetto Munoz e Sampayo, col racconto disegnato della sua vita, son fra quelli che l’han raccontata e amata per davvero. Cosa riuscita in pieno al pianoforte di Mal Waldron, ultimo suo splendido accompagnatore, che le ha poi dedicato quattro album di gran pregio. Come lo sono i versi di due poeti autentici: Frank O’Hara, autore di The Day Lady Died, e Lansgton Hughes, uno dei maggiori protagonisti dello Harlem Renaissance, che le dedicò Song for Billie Holiday. Mentre fra i colleghi vanno citati almeno Frank Sinatra, che nel 1970 volle registrare come tributo Lady Day, gli inopinati U2 di Angel of Harlem, 1988, e la meravigliosa Abbey Lincoln che nel 2010 le dedicò l'intenso, commovente Abbey Sings Billie. Fra tutti, il più curioso dei tributi è senz’altro quello delle poste statunitensi che nel 1994 hanno stampato un francobollo col viso di Billie. Ma il miglior omaggio alla sua memoria resta quello che ha lasciato lei stessa. Costruito giorno per giorno con la forza titanica della sua umanissima fragilità.

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