lunedì 18 maggio 2015

Inps, simulazione assegno previdenziale: "Povero lavoratore, guarda la tua pensione"



da: l’Espresso di Maurizio Maggi e Gloria Riva

L’Inps si prepara a spedire agli italiani ancora attivi le “buste arancioni” con le simulazioni del loro futuro assegno previdenziale. E le notizie sono pessime per tutti o quasi.

È stupita e preoccupata Camilla (nome di fantasia ma persona in carne e ossa, al pari degli altri casi raccontati e raffigurati in queste pagine): ha 29 anni, fa la commessa nel negozio del babbo a Monza, oggi guadagna poco meno di 1.200 euro lordi e quando potrà andare in pensione (nell’anno 2056) il suo assegno sarà di 1.355 euro lordi mensili, che ne varranno però poco più di 900 di oggi – sempre lordi – calcolando gli attuali tassi d’inflazione. Cosa diavolo si potrà permettere con quei soldi la settantenne brianzola? Per intascare la pensioncina, tra l’altro, Camilla dovrà lavorare con continuità per altri 41 anni e dovranno rivelarsi azzeccati i pronostici della Ragioneria generale dello Stato, secondo la quale gli stipendi sono destinati a crescere dell’1,5 per cento l’anno, e così pure il Prodotto interno lordo. In bocca al lupo.

A Camilla come stanno le cose lo abbiamo detto noi: lei ancora non c’è andata sul sito Web dell’Inps dove dal primo maggio gli under 40 possono già scoprire
quando e con quanti quattrini – suppergiù – per loro sarà possibile andare in pensione. Lo ha fatto “l’Espresso”, per lei e diversi altri lavoratori, calcolando poi a quanto equivarrà realmente, con l’inflazione, l’assegno che percepiranno. Prendiamo la 37enne molisana Maria che è laureata, fa l’operaia alla Fiat dal 2004 e guadagna 1.566 euro lordi al mese: se tutto andrà bene (cioè se lei conserverà il posto di lavoro e il Pil italiano sarà in crescita) potrà andare in pensione nel 2047 con un assegno che nominalmente sarà di 2.644 euro lordi ma in realtà ne varrà circa 1.923 (sempre lordi).

La rivoluzione arancione è in arrivo e agiterà i sonni di milioni di futuri pensionati. Nel Nord Europa gli istituti pensionistici inviano ogni anno a casa degli interessati una busta colorata che contiene le stesse informazioni ottenibili oggi sul sito Inps. Tito Boeri, il presidente fortemente voluto da Matteo Renzi, da economista era un feroce sostenitore della pratica nata in Svezia, e appena arrivato alla guida della previdenza tricolore ha lanciato la sfida. L’obiettivo è far sapere ai giovani che la loro pensione sarà ben diversa da quella di nonni e genitori. I quali, smettendo di sgobbare, hanno percepito immediatamente un assegno grosso modo uguale all’ultimo stipendio. Il vecchio capo dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, la pensava diversamente. «Se dovessimo dare la simulazione ai parasubordinati, rischieremmo un sommovimento sociale», disse nell’ottobre 2010 a margine di un convegno, salvo poi smentire. Tre anni più tardi, quand’era ministro del Lavoro, anche Elsa Fornero si schierò, diciamo così, con la “beata ignoranza”: «Se inviassimo oggi la busta arancione a un giovane di 35 anni, daremmo un messaggio di allarme e il governo non vuole aumentare l’incertezza». Una “delicatezza” nei confronti delle nuove leve che la Corte Costituzionale non ha avuto, scatenando una sorta di guerra generazionale, nel bocciare pochi giorni fa il blocco agli aumenti delle pensioni. Norma che proprio la Fornero aveva introdotto in uno dei momenti più drammatici della politica italiana. Ora l’ex ministro che non voleva far preoccupare i ragazzi se la prende con la Consulta, che «rischia di far pagare il conto alle giovani generazioni».

La doccia fredda degli under 40
Sulla Corte Costituzionale spara a zero pure l’economista Mauro Marè, presidente di Mefop, centro studi previdenziale controllato dal ministero dell’Economia: «Soloni che vivono in una bolla di vetro, senza percepire il rischio di ampliare la frattura tra generazioni. Si appellano a “proporzionalità e adeguatezza” delle pensioni, senza considerare che spesso quelle calcolate con il metodo retributivo consentono ai pensionati d’intascare molto più di quanto hanno versato quando lavoravano». Chiara, 32 anni, formatrice romana, organizza i viaggi degli allievi e fa la tutor. Viene licenziata e riassunta ogni anno, così resta nel limbo del contratto a tempo determinato, intasca un mensile netto di poco superiore ai mille euro e versa pochi contributi. Andrà in pensione nel 2053 con un assegno di 2.222 euro, con il 78,3 per cento dell’ultimo stipendio: con l’inflazione varranno poco più di 1.550 euro di oggi. Sul sito dell’Inps risultano cinque anni di “buco”, perché in quel periodo ha lavorato in Spagna per una multinazionale della moda. «Per come stanno andando le cose, non credo proprio che arriverò alla cifra che mi segnalate voi, perché nel mio settore le rivalutazioni sono ferme al palo. Sto pensando di andarmene all’estero, forse in Francia».

Scoprire quanto magra sarà la pensione è una doccia fredda per quasi tutti. Tito Boeri però ritiene fondamentale mettere in guardia giovani e meno giovani. Ha cominciato con quelli sotto i 40 anni, che possono accedere alla sezione “La mia pensione” sul sito dell’Inps, verificare tutti i contributi versati finora e anche modificare i parametri. Magari ipotizzando una crescita del Pil inferiore all’1,5 per cento – tra il 2007 e il 2014 il Pil, d’altronde, è calato del 9 per cento – o qualche mesata senza intascare il becco d’un quattrino, piuttosto che calcolare di quanto si ridurrà l’assegno mollando il lavoro prima di aver raggiunto il limite di età per la pensione di vecchiaia. In dieci giorni, in 400 mila hanno visitato il sito. Dal primo giugno 2015 questa opportunità ce l’avrà anche chi ha tra i 40 e i 50 anni, e un mese dopo l’accesso sarà per tutti. O quasi. Dovranno infatti attendere il 2016 i dipendenti pubblici e coloro che versano i contributi nelle gestioni separate dell’Inps; come, per esempio, le partita Iva e chi è ingaggiato con contratti a progetto (gli ex co.co.co.), insomma i cosiddetti “parasubordinati”.
Paradossalmente, quella degli atipici è una delle gestioni col disavanzo migliore. Nel 2013, sottolinea “Il bilancio del sistema previdenziale italiano” di Alberto Brambilla, il saldo attivo della gestione dei lavoratori parasubordinati è stato di 6,7 miliardi di euro: i versamenti sono stati pari a 7,3 miliardi, le prestazioni erogate hanno superato di poco il mezzo miliardo. Come mai? La causa è la ristretta platea degli aventi diritto – pari a un quinto di quanti sganciano i contributi – visto che la gestione è cominciata nel marzo del 1996. Ed è molto basso, inferiore ai 2 mila euro all’anno, l’importo medio erogato.

Punito chi ha iniziato presto
Dal prossimo mese di settembre la busta arancione vera e propria – che forse non sarà esattamente di quel colore – comincerà ad arrivare nella casella postale di quelli che sono, a vario titolo, dipendenti di un’impresa e che non hanno richiesto il pin (il codice personale) per navigare e informarsi sul sito Inps. «Altro che battaglie NoExpo, fossi un giovane scenderei in piazza contro il sistema del welfare, assistenziale e garantista con gli anziani, intransigente verso i giovani, che prenderanno pensioni da fame, senza alcun aiuto dallo Stato e dovranno sgobbare per parecchi anni», tuona Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali, il centro studi che ogni anno analizza i conti Inps. Dice Brambilla che, su oltre 16 milioni di pensionati, il 52,2 per cento beneficia di maggiorazioni sociali e integrazioni al minimo a carico della fiscalità generale. «In 66 anni di vita costoro non sono riusciti a versare neppure 15 anni di contribuzione regolare e ricevono un aiuto dallo Stato, che i giovani non riceveranno perché quelle integrazioni non esisteranno più», incalza l’economista.

Eppure i lavoratori che “l’Espresso” ha condotto per mano alla scoperta del proprio inquietante domani pensionistico più che indignati paiono in cerca di una via di fuga. Oltre ai parecchi che pensano di emigrare, c’è chi sogna di fondare una start-up e chi vuol aprire un bed & breakfast. Tipo Diego, 37 anni veronese che aggiusta le caldaie e vede il traguardo-pensione a quota 69. Dopo aver sgobbato 51 anni. «Scherzate?», domanda sbigottito. Tutto vero, perché la riforma Fornero ha eliminato la distinzione fra pensione di vecchiaia e di anzianità, e in futuro non conteranno più gli anni di lavoro ma solo l’età anagrafica. Un siluro per chi è entrato nel mondo del lavoro presto. L’operaio scaligero aveva 18 anni, quando ha indossato per la prima volta la tuta blu. Se vorrà, nel 2043 potrà chiedere la pensione anticipata, decurtata del 20 per cento: poco più di 920 euro lordi, contro i 1.612 che percepirebbe lavorando altri quattro anni (pari comunque a 1.172 attuali). «Sto valutando le alternative, non so se a 70 anni riuscirò ancora a fare ‘sto mestiere. Comunque, se avessi saputo che andava così, avrei cominciato a lavorare a 40 anni», ironizza.
«Per i giovani questo è un disastro sociale», spiega Felice Roberto Pizzuti, docente di Politica economica alla Sapienza di Roma: «Con lavori sempre più precari e a singhiozzo, ovviamente la continuità dei versamenti va a farsi benedire, provocando buchi contributivi che influenzeranno assai la pensione», dice il professore. Che s’infervora ancora di più quando punta il grilletto contro le mini-aliquote: «Ci sono dei quarantenni che per anni hanno versato il 12 per cento, perché così stabiliva la norma. Quindi, visto che sarà calcolata col metodo contributivo, la loro sarà una pensione davvero misera».>

Anche i disoccupati puntano sull’integrativa
È più o meno la preoccupante prospettiva di Mirko, programmatore informatico bolognese, 37 anni pure lui. Ha iniziato a collaborare a 24 anni con una società che lo faceva lavorare un po’ sì e un po’ no. Un tira e molla durato sette anni. Poi ha aperto la partita Iva ma la stabilità dei guadagni è rimasta un miraggio. Morale, quando appenderà il computer al chiodo, nel 2047, la sua pensione sarà di 1.925 euro, cioè il 62,8 per cento del suo ultimo guadagno mensile, secondo i calcoli di Epheso Informatica Applicata, società privata che studia il mercato previdenziale. Allora, il suo assegno varrà in realtà circa 1.400 euro lordi e forse se ne sarà andato prima dall’Italia, dice amareggiato.

All’estero ci è stato per un anno l’artigiano del cuoio marchigiano Davide, nato nel 1978. Dopo la laurea in Scienze politiche, s’è arrangiato per un certo periodo con qualche lavoretto nelle cooperative sociali che si occupano di disabili e anziani. Chiusa la parentesi da saldatore in Australia, è tornato in patria, ha fatto l’apprendista di bottega e finalmente s’è messo in proprio. Porta a casa 1.846 euro lordi al mese e quando andrà in pensione, dopo 48 anni di lavoro, il suo assegno sarà di appena 1.536 euro lordi, meno della metà del suo ultimo guadagno presumibile, sempre secondo le stime di Epheso: con l’inflazione di adesso, ne varranno circa 1.100, sempre lordi. «È impossibile! Così poco?», reagisce. «La Corte costituzionale dovrebbe occuparsi delle nostre difficoltà di oggi e di domani, non pensare sempre ai soliti noti, ai pensionati che hanno già avuto tanto».
Giorgio, piemontese con un passato all’Iveco e all’Olivetti, e poi dirigente di un gruppo telefonico, è il più ricco del campione raccolto. Ha 51 anni e in qualche fase della carriera ha guadagnato bene: nel 2009 la sua remunerazione lorda sfiorava i 200 mila euro. Poi s’è messo in proprio, facendo “crollare” il reddito a meno di 3.500 euro lordi al mese. Ma la sua pensione, nel 2032, ammonterà a 6.318 euro lordi mensili, che vogliono dire più di 5.300 euro ai valori attuali. Non è fortuna, semplicemente ha versato corposi contributi quando lo stipendio galoppava. Bei tempi. Più in linea con le ambasce attuali è la carta d’identità previdenziale di Carolina, trentenne bolzanina trapiantata a Milano. Ha appena avuto un bimbo e sa già che, terminata la maternità, il suo posto di lavoro – trattavasi di contratto a termine – non ci sarà più. Il calcolo previsionale Inps, basato sull’ultimo stipendio da impiegata alberghiera, che risale al luglio 2014, è dunque del tutto teorico, ma anche ipotizzando un suo ritorno dietro la scrivania dell’hotel milanese, la sua pensione, a partire dal lontanissimo 2055, sarà di 1.906 euro lordi, che – sempre se per ipotesi ritrovasse lo stesso lavoro – ne varrebbero meno di 1.300. «Due settimane fa», racconta, «ho sottoscritto una polizza assicurativa previdenziale privata: per trent’anni verserò 120 euro al mese. Non so ancora dove andrò a prenderli, ma quella è l’unica “certezza” economica che vedo nel mio futuro». Per disporre di una pensione integrativa decente, fa rilevare il professor Marè, occorrerebbe investire almeno duemila euro l’anno. Sono pochissimi i giovani in grado di farlo. Un capace paracadute sarebbe servito forse anche a Roberto, commerciante padovano di 56 anni. Quando il business della fotografia tirava, metteva insieme un gruzzoletto di 50 mila euro l’anno. La crisi gli ha segato due terzi dei guadagni. La sua pensione, tra 12 anni, sarà di 1.225 euro, che ne varranno 1.087. E sarà una vecchiaia difficile anche per l’impiegata milanese Carlotta, 43 anni, che oggi ha uno stipendio più che decente (3.542 euro lordi) ma quando potrà ritirarsi, nel 2040, prenderà una pensione di 3.328, che allora ne varranno 2.595 al lordo delle tasse: insomma, perderà circa mille euro al mese.

È indubbio che i gravi problemi del mercato del lavoro abbiano pesanti effetti sul futuro di milioni di persone. Le regole previdenziali possono farci poco, i buchi neri sono la bassa crescita economica, la disoccupazione, il cuneo fiscale. Certo, bisognerebbe produrre il massimo sforzo per evitare che il sistema pensionistico gravi ancora di più su chi lavora, imponendo livelli contributivi più alti in un Paese che ha già una pressione fiscale troppo alta. Col passaggio al metodo contributivo, sostiene Boeri, il sistema si sta avvicinando all’equilibrio. Alla Consulta che si erge a paladina degli anziani, i tre economisti interpellati da “l’Espresso” rispondono all’unisono: visto che i giovani non riescono, guadagnando poco, a farsi la previdenza integrativa, serve un fondo di solidarietà pensionistica. Chiosa Alberto Brambilla: «Tutti i nonni dovrebbero essere contenti di sganciare un contributo, tra il 2 e il 7 per cento dell’assegno, per garantire un domani decente ai nipoti».

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