da: la Repubblica
Coi suoi metodi autoritari, il premier è la
nemesi perfetta per l’Italia. E per una sinistra che si è crogiolata nella sua
lentezza. Così chi lo critica, a ragione o a torto, non sfugge al sospetto di
essere un conservatore.
Matteo Renzi è la nostra nemesi. Ovvero,
qualcosa che discende direttamente dal nostro passato; che non è spiegabile
senza il nostro passato. Ne è, in molti sensi, il compimento. La definizione di
nemesi in Treccani on line è questa: “Espressione riferita ad avvenimenti
storici che sembrano quasi riparare o vendicare sui discendenti antiche
ingiustizie o colpe di uomini e nazioni”.
Nemesi, dunque, non è un concetto
rassicurante. Implica qualcosa di travolgente. Di incombente. Di (forse)
inevitabile. Ma non si sa se fausto o nefasto. Se di rinascita o di rovina.
Treccani riferisce che una nemesi può “riparare o vendicare”. E sono cose ben
diverse. Riparare vuol dire porre rimedio, risanare, rimettere in funzione.
Vendicare può voler dire, semplicemente, punire, castigare, seppellire tra le
macerie un popolo immeritevole. Un terremoto che sbriciola case costruite male,
magari costruite rubando, è una nemesi. Ma nemesi è anche la caduta del
fascismo, piazzale Loreto, il ritorno della libertà. Entrambi gli eventi,
radicali, hanno le loro radici nelle precedenti “colpe di uomini e nazioni”.
La nostra “colpa”, ciò che ha preparato il
campo all’irruzione stordente e per ora inarrestabile di Renzi e del renzismo,
è la lentezza. Non la lentezza virtuosa del saggio. La lentezza patologica
dell’infermo. Quel tanto di irriformabile, di immobile, di neghittoso che ha
fatto dell’Italia, nel volgere di un paio di generazioni, il Paese
anagraficamente più vecchio del mondo. Economicamente, un Paese che in larga
parte vive di rendita e di glorie passate, spendendo ciò che è stato accumulato
dai padri, in termini di benessere così come in termini di diritti.
Politicamente, un Paese che parla di “riforme” con enfasi direttamente
proporzionale alla propria incapacità di produrne anche mezza.
È come se lo slancio poderoso del
dopoguerra e poi del boom, i primi formidabili trent’anni anni della nostra
storia repubblicana, ci avessero sfiniti, sfiatati, spremuti. Troppa fatica per
recuperare, a qualunque costo e con qualunque mezzo, lo status di Paese
arretrato con il quale eravamo usciti dalla guerra. Subito dopo avere raggiunto
la fisionomia, metà vera metà apparente, di Paese moderno, perfino avanzato,
con tanto di Statuto dei lavoratori, con tanto di divorzio e aborto
legalizzati, ci siamo fermati, o quasi.
Sarà schematico dirlo, sarà una
semplificazione, ma gli ultimi venticinque anni della nostra storia sono stati
il trascinamento degli anni Ottanta fino allo stremo. Fino alla parodia. Le
Olgettine e le cene eleganti sono pura parodia, la parodia dell’edonismo
reaganiano. Berlusconi, almeno negli ultimi dieci anni, è la parodia del
berlusconismo, dei suoi modelli, della sua estetica e della sua etica. E la
sinistra, con le sue idiosincrasie morali spesso sacrosante eppure ripetute
come tic, come nevrosi, con la sua litigiosità saccente e vanitosa, con il suo
inconfessabile terrore del cambiamento (se qualcuno sta per offendersi sappia
che sto pensando a me stesso) è la parodia di se stessa.
Molti fanno osservare, giustamente, che
bisognerebbe entrare nel merito di quello che Renzi sta facendo. Nel bene e nel
male. “Cambiamento”, in sé, non significa nulla. “Velocità”, in sé, non
significa nulla. A trecento all’ora si può andare a vincere un Gran Premio o a
schiantarsi contro un muro. E un Paese può essere bruscamente ribaltato da una
vivificante ondata di rinnovamento così come da una dittatura. E dunque bisognerebbe
entrare di più, molto di più, nel merito delle cose: lo dicono i
costituzionalisti a proposito dell’Italicum; lo dicevano i giuslavoristi e i
sindacalisti a proposito del Jobs Act.
Non è colpa loro, non è colpa delle loro
buone intenzioni se anche questo giustificato, coscienzioso invito a riflettere
finisce per assomigliare a un’estrema propaggine della passata, nefasta
lentezza italiana. Di analisi causidiche, di dibattiti interminabili siamo
quasi morti. Se una moltitudine di italiani è disposta (psicologiamente prima
che politicamente) a mettere tra parentesi i distinguo, quando si tratta di
mettere in discussione gli atti politici di Renzi, è perché la parola
“cambiamento” ha assunto negli anni, gioco forza, una sua aura salvifica,
benefica a prescindere, mano a mano che la sensazione di paralisi, di
ripetizione viziosa, di impotenza della politica diventavano pesanti come
macigni.
Ovviamente, l’essere il renzismo una nemesi
non è rassicurante in sé. Non lo è affatto. Il progressivo strangolamento della
concertazione, il tentativo di ridurre i corpi intermedi della politica e i
luoghi della trattativa (il sindacato, per fare un solo esempio) a simulacri
del passato, la quasi derubricazione del Parlamento da solenne aula delle
decisioni a ufficio vidimatore degli atti del governo, sono altrettante
restrizioni del campo dove si prendono le decisioni. Ma ad ogni obiezione
antirenziana fa specularmente eco una obiezione filorenziana, perché una nemesi
ha in sé qualcosa di automatico, diciamo una giustificazione “meccanica” del
proprio farsi.
Negli ultimi anni il Parlamento, nelle sue
varie propaggini anche extraparlamentari (i corridoi, i ristoranti, la Roma
consociativa e inerte che dopo la morte dei grandi partiti di massa ha finito
per mangiarsi tutta intera, immeritatamente, la rappresentanza politica), non è
certo stato un elemento di efficienza, tanto meno di controllo etico e politico
di svariate vergogne, vedi la depenalizzazione del falso in bilancio o le tante
leggine ad personam o il solenne prounciamento sull’essere effettivamente,
quella ragazza, la nipote di Mubarak. Per non parlare della più che accertata
compravendita di rappresentanti del popolo; o del loro prestigio spesso ridotto
a macchietta indecorosa, vedi i Razzi e gli Scilipoti; così che mettere
l’accento con troppa enfasi sul concetto di “democrazia parlamentare” non è poi
così ovvio né così semplice. Quanto alla concertazione sindacale, non ha potuto
evitare lo svuotamento pauroso del potere salariale, la falcidie dei posti di
lavoro, e neppure la forbice impressionante e crescente tra le garanzie
conquistate in passato e l’ingarantita precarietà del presente.
La vera forza della nemesi non è nel suo
manifestarsi. È negli eventi che l’hanno preceduta. Non esisterebbe Renzi, non
esisterebbero il verbo “rottamare”, la sbrigativa e improvvisata formazione di
un gruppo dirigente di sconosciuto talento e di improbabile lustro, la brusca e
incontrastata riduzione di quasi ogni obiezione a fastidioso impiccio sulla
strada delle riforme, se non fosse esistita, prima, una lunga stagione di
impotenza, di posizioni di rendita, di abitudini ingessate. Che sia
“democratura” o solo una ruvida forzatura delle regole pregresse, che lui sia
un bullo destinato al tracollo o il “maleducato di talento” evocato dall’ex
direttore del “Corriere”, Matteo Renzi è il figlio più rappresentativo della
crisi della democrazia italiana e più ancora della paralisi della società
italiana. Chi lo critica ha quasi sempre ragione, ma alle spalle di quasi ogni
critica a Renzi c’è il sospetto inevitabile della conservazione. È un bel rebus
e anche un bel ricatto. Ma è, almeno mi sembra, la realtà delle cose. E se
Renzi è quello che è, la colpa non è tutta sua.
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