martedì 12 maggio 2015

Michele Serra: Ce lo siamo meritato, Matteo Renzi



da: la Repubblica

Coi suoi metodi autoritari, il premier è la nemesi perfetta per l’Italia. E per una sinistra che si è crogiolata nella sua lentezza. Così chi lo critica, a ragione o a torto, non sfugge al sospetto di essere un conservatore.
Matteo Renzi è la nostra nemesi. Ovvero, qualcosa che discende direttamente dal nostro passato; che non è spiegabile senza il nostro passato. Ne è, in molti sensi, il compimento. La definizione di nemesi in Treccani on line è questa: “Espressione riferita ad avvenimenti storici che sembrano quasi riparare o vendicare sui discendenti antiche ingiustizie o colpe di uomini e nazioni”.

Nemesi, dunque, non è un concetto rassicurante. Implica qualcosa di travolgente. Di incombente. Di (forse) inevitabile. Ma non si sa se fausto o nefasto. Se di rinascita o di rovina. Treccani riferisce che una nemesi può “riparare o vendicare”. E sono cose ben diverse. Riparare vuol dire porre rimedio, risanare, rimettere in funzione. Vendicare può voler dire, semplicemente, punire, castigare, seppellire tra le macerie un popolo immeritevole. Un terremoto che sbriciola case costruite male, magari costruite rubando, è una nemesi. Ma nemesi è anche la caduta del fascismo, piazzale Loreto, il ritorno della libertà. Entrambi gli eventi, radicali, hanno le loro radici nelle precedenti “colpe di uomini e nazioni”.


La nostra “colpa”, ciò che ha preparato il campo all’irruzione stordente e per ora inarrestabile di Renzi e del renzismo, è la lentezza. Non la lentezza virtuosa del saggio. La lentezza patologica dell’infermo. Quel tanto di irriformabile, di immobile, di neghittoso che ha fatto dell’Italia, nel volgere di un paio di generazioni, il Paese anagraficamente più vecchio del mondo. Economicamente, un Paese che in larga parte vive di rendita e di glorie passate, spendendo ciò che è stato accumulato dai padri, in termini di benessere così come in termini di diritti. Politicamente, un Paese che parla di “riforme” con enfasi direttamente proporzionale alla propria incapacità di produrne anche mezza.
È come se lo slancio poderoso del dopoguerra e poi del boom, i primi formidabili trent’anni anni della nostra storia repubblicana, ci avessero sfiniti, sfiatati, spremuti. Troppa fatica per recuperare, a qualunque costo e con qualunque mezzo, lo status di Paese arretrato con il quale eravamo usciti dalla guerra. Subito dopo avere raggiunto la fisionomia, metà vera metà apparente, di Paese moderno, perfino avanzato, con tanto di Statuto dei lavoratori, con tanto di divorzio e aborto legalizzati, ci siamo fermati, o quasi.

Sarà schematico dirlo, sarà una semplificazione, ma gli ultimi venticinque anni della nostra storia sono stati il trascinamento degli anni Ottanta fino allo stremo. Fino alla parodia. Le Olgettine e le cene eleganti sono pura parodia, la parodia dell’edonismo reaganiano. Berlusconi, almeno negli ultimi dieci anni, è la parodia del berlusconismo, dei suoi modelli, della sua estetica e della sua etica. E la sinistra, con le sue idiosincrasie morali spesso sacrosante eppure ripetute come tic, come nevrosi, con la sua litigiosità saccente e vanitosa, con il suo inconfessabile terrore del cambiamento (se qualcuno sta per offendersi sappia che sto pensando a me stesso) è la parodia di se stessa.

Molti fanno osservare, giustamente, che bisognerebbe entrare nel merito di quello che Renzi sta facendo. Nel bene e nel male. “Cambiamento”, in sé, non significa nulla. “Velocità”, in sé, non significa nulla. A trecento all’ora si può andare a vincere un Gran Premio o a schiantarsi contro un muro. E un Paese può essere bruscamente ribaltato da una vivificante ondata di rinnovamento così come da una dittatura. E dunque bisognerebbe entrare di più, molto di più, nel merito delle cose: lo dicono i costituzionalisti a proposito dell’Italicum; lo dicevano i giuslavoristi e i sindacalisti a proposito del Jobs Act.
Non è colpa loro, non è colpa delle loro buone intenzioni se anche questo giustificato, coscienzioso invito a riflettere finisce per assomigliare a un’estrema propaggine della passata, nefasta lentezza italiana. Di analisi causidiche, di dibattiti interminabili siamo quasi morti. Se una moltitudine di italiani è disposta (psicologiamente prima che politicamente) a mettere tra parentesi i distinguo, quando si tratta di mettere in discussione gli atti politici di Renzi, è perché la parola “cambiamento” ha assunto negli anni, gioco forza, una sua aura salvifica, benefica a prescindere, mano a mano che la sensazione di paralisi, di ripetizione viziosa, di impotenza della politica diventavano pesanti come macigni.

Ovviamente, l’essere il renzismo una nemesi non è rassicurante in sé. Non lo è affatto. Il progressivo strangolamento della concertazione, il tentativo di ridurre i corpi intermedi della politica e i luoghi della trattativa (il sindacato, per fare un solo esempio) a simulacri del passato, la quasi derubricazione del Parlamento da solenne aula delle decisioni a ufficio vidimatore degli atti del governo, sono altrettante restrizioni del campo dove si prendono le decisioni. Ma ad ogni obiezione antirenziana fa specularmente eco una obiezione filorenziana, perché una nemesi ha in sé qualcosa di automatico, diciamo una giustificazione “meccanica” del proprio farsi.
Negli ultimi anni il Parlamento, nelle sue varie propaggini anche extraparlamentari (i corridoi, i ristoranti, la Roma consociativa e inerte che dopo la morte dei grandi partiti di massa ha finito per mangiarsi tutta intera, immeritatamente, la rappresentanza politica), non è certo stato un elemento di efficienza, tanto meno di controllo etico e politico di svariate vergogne, vedi la depenalizzazione del falso in bilancio o le tante leggine ad personam o il solenne prounciamento sull’essere effettivamente, quella ragazza, la nipote di Mubarak. Per non parlare della più che accertata compravendita di rappresentanti del popolo; o del loro prestigio spesso ridotto a macchietta indecorosa, vedi i Razzi e gli Scilipoti; così che mettere l’accento con troppa enfasi sul concetto di “democrazia parlamentare” non è poi così ovvio né così semplice. Quanto alla concertazione sindacale, non ha potuto evitare lo svuotamento pauroso del potere salariale, la falcidie dei posti di lavoro, e neppure la forbice impressionante e crescente tra le garanzie conquistate in passato e l’ingarantita precarietà del presente.

La vera forza della nemesi non è nel suo manifestarsi. È negli eventi che l’hanno preceduta. Non esisterebbe Renzi, non esisterebbero il verbo “rottamare”, la sbrigativa e improvvisata formazione di un gruppo dirigente di sconosciuto talento e di improbabile lustro, la brusca e incontrastata riduzione di quasi ogni obiezione a fastidioso impiccio sulla strada delle riforme, se non fosse esistita, prima, una lunga stagione di impotenza, di posizioni di rendita, di abitudini ingessate. Che sia “democratura” o solo una ruvida forzatura delle regole pregresse, che lui sia un bullo destinato al tracollo o il “maleducato di talento” evocato dall’ex direttore del “Corriere”, Matteo Renzi è il figlio più rappresentativo della crisi della democrazia italiana e più ancora della paralisi della società italiana. Chi lo critica ha quasi sempre ragione, ma alle spalle di quasi ogni critica a Renzi c’è il sospetto inevitabile della conservazione. È un bel rebus e anche un bel ricatto. Ma è, almeno mi sembra, la realtà delle cose. E se Renzi è quello che è, la colpa non è tutta sua.

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