giovedì 20 marzo 2014

Tito Boeri: “Il grande abisso tra scuola e lavoro”

da: la Repubblica

Pensate a una lunga coda, quasi interminabile, per trovare lavoro. Chi finisce la scuola secondaria e decide di smettere di studiare, si mette subito in fila: sarà una lunga attesa, ma prima o poi toccherà anche a lui avere un impiego.

Chi, invece, decide di continuare a studiare dopo la scuola secondaria aspetterà almeno tre anni (il tempo minimo di ottenere una laurea breve) per mettersi in una coda a parte, riservata ai laureati. Va più veloce di quella dei diplomati, ma non abbastanza da permettere loro di arrivare al traguardo del primo impiego in anticipo rispetto ai loro coetanei che si sono messi in coda 3 anni prima di loro. In questo dato, messo in luce dal primo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca redatto da Anvur, presentato ieri alla presenza del neoministro dell’Istruzione e della Ricerca, si capiscono molte cose sull’andamento dell’istruzione terziaria in Italia.
Sono pochi coloro che si iscrivono all’università, nonostante il grande divario che ci separa dagli altri Paesi europei nel numero di laureati. Anche se ci concentriamo sulle generazioni che oggi hanno meno di 45 anni, ne abbiamo la metà che nel Regno Unito e non più del 60% che mediamente nell’Unione Europea (a 27 Paesi). Il fatto è che, per famiglie che hanno difficoltà
nell’accesso al credito, conta che il proprio figlio trovi lavoro prima possibile, anche se guadagnando meno di un laureato (il divario medio nei salari di ingresso fra diplomati e laureati e del 25%). E se ci si accorge che non si è particolarmente dotati per gli studi universitari e che si rischia di andare fuori corso, si decide di abbandonare il corso di studio ancor prima di ottenere il pezzo di carta.
Avviene così che solo 14 studenti su 100 che si iscrivono ai corsi di laurea triennale ottenga una laurea magistrale al termine di un ciclo di studi durato almeno 5 anni. Più o meno lo stesso numero abbandona l’università entro il primo anno di università. E sono pochissimi i giovani con più di 25 anni che iniziano o continuano un corso di studi universitario.

Se vogliamo che in Italia aumentino gli investimenti in capitale umano dobbiamo migliorare la transizione da scuola e lavoro. Questo è tanto più vero dopo la cocente delusione del 3+2, il fallimento dei trienni nel fornire un percorso alternativo e più breve verso il mercato del lavoro dei laureati. Non sappiamo se l’ampia delegazione italiana presente in Germania lunedì abbia discusso anche di questo. Ma certo abbiamo molto da imparare dall’esperienza tedesca nel fornire scuole di formazione universitarie professionalizzanti. Quel 10 per cento in meno di laureati che abbiamo rispetto al paese di Angela, si spiega soprattutto nel 9 per cento di giovani tedeschi che hanno conseguito un titolo di studio nelle scuole professionali avanzate. Mettere in piedi anche da noi un sistema di questo tipo andrebbe incontro alle richieste di molte imprese di avere qualificazioni intermedie fra il diploma e la laurea magistrale e delle famiglie di vedere i propri figli cominciare ad acquisire professionalità e guadagnare qualcosa mentre stanno ancora completando il ciclo di studi. Abbiamo le strutture per farlo. Nonostante i fondi all’università siano calati in termini reali di un quinto negli ultimi 5 anni, il numero di comuni con sedi universitarie non è calato. Con pochi fondi, dispersi su troppe sedi, è impossibile riuscire a fornire formazione universitaria al livello richiesto dalle lauree magistrali. Le sedi che non riescono a raggiungere questi livelli dovrebbero perciò porsi l’obiettivo di mettere in piedi, in accordo con un certo numero di imprese locali, un corso di laurea triennale altamente professionalizzante, un apprendistato universitario caratterizzato da una presenza simultanea in impresa e in azienda. Metà dei crediti verrebbe acquisito in aula e metà in azienda. Il lavoratore sarebbe impiegato in azienda e seguito da un tutor. Con controlli reciproci fra università e azienda sulla qualità della formazione conferita al lavoratore.


Un altro fattore che limita i nostri investimenti in capitale umano sono le poche risorse per il diritto allo studio. Il fatto che le borse vengano erogate solo al 69% degli idonei è un fatto indegno per un Paese civile. Speriamo che il neo-ministro della Pubblica istruzione, presente ieri in sala, abbia provato la nostra stessa vergogna nel vedersi presentato questo dato. Può porvi rimedio senza fare la questua in via XX Settembre. Basta che imponga agli atenei di aumentare subito le tasse universitarie per chi ha redditi più alti (sopra i 50.000 euro), impegnando le risorse così raccolte prioritariamente a garantire la borsa a tutti coloro che ne hanno diritto.

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