venerdì 21 marzo 2014

Più longevi dei politici: conduttori tv


La tv non si rottama. E i conduttori battono i politici
La Terza Repubblica commentata dai giornalisti della Prima. E Matteo Renzi riabilita Porta a Porta
di Marco Fattorini



Il corto circuito tra tv e politica non è appannaggio degli ultimi mesi, ma all’antologia di un rapporto sospeso tra informazione e bulimia si aggiunge un altro tassello: la Terza Repubblica commentata dai giornalisti della Prima. Fenomeni nuovi, forse impensabili dieci anni fa, come Matteo Renzi premier o l’avvento del Movimento 5 Stelle, analizzati e lavorati dagli stessi esperti che hanno fatto le pulci al primo Bossi, agli Occhetto e ai Forlani. Se molti di questi sono oggi dinosauri politici dimenticati dalla generalista, gli anchorman che hanno assistito alla loro sepoltura apparecchiano la nuova stagione e ingurgitano tutti, grillini e renziani. Da Vespa a Santoro, da Annunziata a Mentana, fino ai più giovani Fazio e Floris. Opinion leaders, cavalli di razza del giornalismo televisivo capaci di costruire insieme ai propri gruppi autorali
programmi di successo guadagnando share e autorevolezza, fanno incassare fior di quattrini alle reti grazie agli investimenti pubblicitari (giova un’occhiata ai listini di Rai Pubblicità). Corazzate che stanno sul mercato e non sembrano patire il cambio delle dinamiche generazionali a Palazzo Chigi e in Parlamento. D’altronde i rapporti con la politica seguono le vicende dei singoli conduttori, abiti su misura quasi mai lineari, in alcuni casi burrascosi: storie di ordinaria battaglia nel paese di lottizzazioni e par condicio.

Il gran cerimoniere della vecchia guardia è Bruno Vespa. Classe 1944, ex direttore del Tg1 ed eterno scrittore di best seller politici, il grande pubblico ha imparato ad amarlo e odiarlo per Porta a Porta, in onda dal 1996, salotto tv per antonomasia impermeabile a tutte le stagioni politiche e assurto a «Terza Camera del Parlamento». Sulle poltroncine bianche è stata scritta una fetta della storia repubblicana: Massimo D'Alema che cucinava il risotto, il collegamento telefonico con Papa Wojtyla, la sfida Berlusconi-Prodi o ancora il Cav che firma il contratto con gli italiani. Mario Monti ha provato a rompere la consuetudine sacrale del rito vespiano: «Non sono qui per far piacere a lei». Nel mezzo Bersani col peluche del giaguaro e infine Renzi, che “ri-legittima” Vespa. «I presidenti del Consiglio passano, Porta a Porta resta», questo l’incipit dell’ex sindaco nell’ospitata del 13 marzo, poi tacciata di «ruffianeria» da Sebastiano Messina su Repubblica.
L’ambasciatore della rottamazione, nonché ottavo premier a passare per gli studi del giornalista aquilano, non fa nulla per disconoscere il padrone di casa, anzi. Tra battute e sintonia, Renzi propone una scommessa al conduttore: «Se entro il 21 settembre, San Matteo, noi avremo pagato tutti i debiti della pubblica amministrazione, Vespa salirà a piedi al monte Senario». Proietta e rilancia la centralità mediatico-istituzionale del salotto di Porta a Porta nella Terza Repubblica, oltre ad impennarne gli ascolti: l’ultima performance di Renzi ha portato Vespa al 25% di share, quasi il doppio della media del programma. Dal canto suo il padrone di casa ha “vinto” il microfono di legno messo in palio da Beppe Grillo sul suo blog per la categoria del «conduttore di talk più fazioso». Di tutta risposta Vespa si è portato in studio Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera e leader in pectore dei Cinque Stelle, che ha collezionato diverse ospitate nel talk più paludato della tv italiana. Da quelle parti sono passati anche i colleghi Vito Crimi, Nicola Morra e Barbara Lezzi con buona pace del primordiale divieto di partecipare ai talk. Caro Beppe, ha vinto Bruno.

Michele Santoro (1951) è un altro top player, stimato e temuto, maestro e tribuno. Dal 1987 su Rai Tre con Samarcanda, Il rosso e il nero, Tempo Reale, poi il passaggio a Mediaset e il ritorno in Rai nel 1999, quindi Sciuscià e Il Raggio Verde. Dopo l’editto bulgaro e una parentesi da europarlamentare indipendente nella lista Uniti nell’Ulivo, quindi il rientro nell’ovile della tv pubblica con Annozero, è il 2006. Esplode il talk di fuoco per eccellenza durante gli anni berlusconiani che poi portano all’uscita da viale Mazzini. Per il Michele Nazionale le trasmissioni continuano: un anno di multipiattaforma tra web e tv locali e infine lo sbarco a La7 dalla stagione 2012-2013 con Servizio Pubblico. La sua vicenda è emblema della rincorsa tra politica e tv, con le telefonate dell’ex dg Rai Mauro Masi e di Berlusconi, fino al derby prima delle politiche 2013 colorato dalla celebre spolverata del Cav alla sedia di Travaglio. Puntata che, per inciso, tirò come una partita di calcio: quasi 9 milioni di telespettatori e uno share del 33,6%, record per La7. Oggi indiscrezioni di stampa vorrebbero Santoro impegnato alla ricerca di un nuovo format, ragion per cui le ultime puntate della stagione di Servizio Pubblico verrebbero affidate all’allieva Giulia Innocenzi.

Nella stessa rete ha lavorato Gad Lerner, classe 1954. Già penna di Repubblica ed ex direttore del Tg1, dopo Costanzo è stato tra i padri del genere talk con Profondo Nord e Milano, Italia su Rai3. Poi L’infedele e Zeta su La7, con la celebre telefonata di Berlusconi che si scagliò contro il «postribolo televisivo», oggi l’esperienza a Laeffe, network televisivo di Feltrinelli. Massimo Giletti (1962) è invece fedele a Rai Uno, rete ammiraglia e oasi filogovernativa. Classe 1962 e scuola Minoli a Mixer, dal 2005 conduce L’Arena, ieri costola di Domenica In oggi marchio indipendente. Con buona pace dell’avversaria Barbara D’Urso, gli ascolti volano e il target è vasto, così il linguaggio gilettiano oscilla tra inchieste e gossip, pollaio e approfondimenti. Alla vigilia delle politiche 2013 aveva destato scalpore la movimentata intervista a Berlusconi, che minacciò di abbandonare lo studio. A distanza di un anno Giletti impacchetta un colloquio in esclusiva con Beppe Grillo e rivendica: «Sono orgoglioso di fare questo programma senza alcun partito alle spalle», mentre i maligni sussurrano che la sua longevità sia dovuta al fatto che «non pesta mai i piedi a nessuno».

Fabio Fazio, classe 1964, prima di condurre il Festival di Sanremo è il padrone di casa a Che tempo che fa, contenitore serale in onda dal 2003 con interviste che spaziano dalla cultura allo sport, libri, musica e spettacolo. Premiato dagli ascolti e dalla critica, è spesso in cima alle cronache per le interviste ai politici. Il giornalista ligure accoglie al momento giusto tutti i big, che dal salotto milanese di via Mecenate dettano l’agenda. Qui Renzi è stato ospite quattro volte nel 2013 e una nel 2014. Ma si è visto anche l’ex premier Enrico Letta collegato da Palazzo Chigi, poi Boldrini, Alfano, Brunetta, Grasso, Di Maio. Qualcuno gli rimprovera di «non fare mai la seconda domanda» (Riccardo Bocca de L’Espresso lo ha ribattezzato USD, «uomo senza domande») mentre Grillo e Brunetta se la prendono col suo stipendio.

Lucia Annunziata (1950) della Rai è stata presidente e dal 2005 conduce In mezz’ora: un faccia a faccia efficace con politici e imprenditori, lo stesso che vide un Berlusconi innervosito abbandonare lo studio anzitempo. Sulla stessa rete naviga Giovanni Floris, classe 1967 e il più giovane tra i totem della telepolitica: dal 2002 dirige Ballarò, talk di punta del pacchetto Rai impreziosito dalle copertine di Crozza e i sondaggi di Pagnoncelli. In occasione delle politiche 2013 è stata sua, secondo molti osservatori, l’intervista più completa realizzata a Berlusconi, mentre a febbraio 2014 lo stesso Floris entra nelle stanze di Palazzo Chigi per intervistare il premier Renzi. «Ormai Ballarò è la terza Camera del Parlamento, ha ridotto Porta a Porta a un alloggio di servizio», parola di Francesco Specchia, critico tv di Libero.

Paolo Del Debbio (1958), prof universitario e ideologo di Forza Italia, ha traslocato anni fa a Mediaset dove dal 2002 conduce programmi di opinione e informazione. Prima Secondo Voi, poi Mattino Cinque, infine Quinta Colonna, dove talk e people show si fondono: dalle persone del pubblico cui viene trovato un lavoro in diretta fino alle piazze in collegamento che insultano i politici. Tutto questo mentre l’anti-Renzi di Mediaset, quel Giovanni Toti classe 1968 e ormai ex direttore di Tg4 e Studio Aperto, è stato promosso a consigliere politico di Silvio Berlusconi. Un trascorso importante al Biscione lo ha avuto Enrico Mentana (1955), ieri numero uno del Tg5 e fondatore di Matrix, oggi superdirettore del TgLa7 fresco di rinnovo per altri tre anni. Dominus illuminato dell’informazione nella rete di Urbano Cairo, è onnipresente e attivo nell’apparecchiare speciali-fiume su governo, consultazioni ed eventi come il V-Day dei Cinque Stelle. C’è chi ironizza: «Mentana tiene una brandina in studio» per quella che nei momenti cruciali della politica italiana si trasforma quasi in una rete all news. Dal canto suo Chicco tira dritto e conia l’hashtag #UrbanoStaiSereno per rassicurare l’editore sugli stacchi pubblicitari. Il lavoro non è mai troppo e da qualche settimana conduce anche un talk il venerdì sera, Bersaglio Mobile, trainato da Crozza.

La rottamazione si fa in politica, ma non in tv. Nei corridoi del tubo catodico non c’è rivoluzione, piuttosto qualche entrata in punta di piedi con la mannaia dell’Auditel sempre in agguato. Le nuove leve rispondono ai nomi di Corrado Formigli (1968), che ha lasciato la scuola Santoro per crearsi il suo talk del lunedì, Piazzapulita. Anche Luisella Costamagna (1968) è di formazione santoriana, ma quando ha provato a decollare con le sue ali, celebre il caso di Robinson su Rai3, il volo si è rivelato gonfio di turbolenze tra critiche e ascolti. Poi c’è il tandem Nicola Porro (1968) Luca Telese (1970), ieri coppia ben assortita alla conduzione di In Onda su La7, oggi combattenti solitari. Il vicedirettore del Giornale è in prime time su Rai Due con Virus, l’ex direttore di Pubblico si cimenta con la seconda serata di Canale 5 al timone di Matrix. Su La7 è sbarcato Gianluigi Paragone (1971) con La Gabbia. Entrato in Rai in quota Lega e con look impiegatizio, oggi indossa jeans e scarpe da ginnastica, suona la chitarra e conduce un talk battagliero strizzando l’occhio a temi grillini. Giuseppe Cruciani (1966) e David Parenzo (1976) hanno tentato una conduzione rock per Radio Belva, talk casinaro di Rete4 congelato da Mediaset dopo la prima puntata. Mentre il telegenico Andrea Scanzi (1974) si deve “accontentare” di La3, dove conduce il programma di interviste Reputescion.

Questione di età o competenze? Se spesso i padri si dimostrano più bravi dei figli, anche nell’innovare la scrittura e i formati, è altrettanto vero che la tv di oggi dà poco tempo di rodaggio e chiede risultati immediati. Spiega Nicola Porro: «È esagerato pretendere che i conduttori inesperti, tra cui mi ci metto anche io, siano subito fenomeni e abbiano linguaggi diversi dagli altri». Allo stesso tempo gli anchorman storici sono diventati superpotenze, per alcuni addirittura «intoccabili», che attirano sane antipatie con Pippo Baudo che intervistato da Tv Talk suggerisce: «Dovremmo rottamarne qualcuno». Nel dibattito s’inserisce il macrotema dei talk show, prodotto televisivo economico e duttile, da anni appendice mediatica delle risse di palazzo. E se la mole di ospiti politici rischia di ripetersi pur col nuovo corso di esponenti renziani e berlusconiani fase due, c’è chi punta alle ospitate di eccellenti intrusi (Flavio Briatore da Santoro, Oliviero Toscani da Formigli, Ilona Staller a Quinta Colonna, Eugenio Finardi a La Gabbia, Massimo Boldi ad Agorà) mentre Mentana per commentare lo stile di Renzi chiama Vespa, De Bortoli, Costamagna e Freccero.

Proprio Carlo Freccero, navigato dirigente televisivo e genio creativo tutt’altro che in pensione, non ha mai lesinato critiche al genere tv sopracitato e in tempi non sospetti ammoniva: «I giornali ormai contano soltanto per noi novecenteschi, i talk invece sono la casta, con la solita compagnia di giro che domina. Sono loro la fabbrica dell’astensionismo». Ieri elementi dalla carica anti-sistemica e oggi troppo spesso bulloni del sistema con tinte di intrattenimento, i talk show entrano nella Terza Repubblica col rischio di essere percepiti alla stregua di un circolo chiuso quasi quanto quello della politica, tacciati anch’essi di autoreferenzialità. E la rottamazione può attendere.

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