da: la Repubblica – 18 agosto
2015
Parla
il marito della bracciante uccisa dalla fatica un mese fa mentre
raccoglieva l’uva. Aveva 49 anni e tre figli. "Siamo persone abituate
a lavorare e a stare in silenzio. Ma ora basta"
di Raffaella
Cosentino e Giuliano Foschini
«Andava via di casa alle 2 di notte.
Prendeva l'autobus alle 3. Ai campi, ad Andria, da San Giorgio Jonico, arrivava
intorno alle 5.30. Noi a casa la rivedevamo non prima delle 3 del pomeriggio,
in alcuni casi anche alle 6. Guadagnava 27 euro al giorno. Poco. Ma per noi
quei soldi erano importanti, erano soldi sicuri, assolutamente indispensabili.
Fin quando è arrivata quella telefonata: Paola si era sentita male, io non sono
riuscito nemmeno a salutarla ora Paola non c'è più».
Bisogna fermarsi un attimo prima di
ascoltare la storia di Paola Clemente, martire, prima che bracciante. Perché è
una storia di schiavitù, accaduta a pochi chilometri dalle discoteche, dalle
masserie a cinque stelle, dalla Puglia che assomiglia alla California. E questa
volta non c'è nemmeno la possibile coperta razzista per nascondere la faccia:
questi sono tutti italiani, schiavi e caporali.
Paola Clemente, 49 anni, è morta il 13
luglio ad Andria mentre lavorava all'acinellatura dell'uva. Viveva insieme con
suo marito e i suoi tre figli a San Giorgio Jonico, trecento chilometri di
distanza circa. «Ci troviamo di fronte a un terribile caso di caporalato» dice
soppesando le parole Peppino De Leonardis, segretario della Fiai Cgil. «Una
storia in cui i braccianti sono costretti a dare parte del loro compenso al
caporale». Se non fosse stato per loro, alla tenacia sindacale di qualche
dirigente, questa storia sarebbe rimasta sommersa, sparita nel nulla. Paola è
stata già sepolta. «Ma ci sono cose che non possono rimanere senza un colpevole.
Noi siamo qui e andremo fino in fondo» dice De Leonardis che, d'accordo con la
famiglia di Paola, ha messo il dossier sul tavolo di un team di avvocati di
primissimo livello: Vito Miccolis, Pasquale Chieco e Giovanni Vinci. Stefano
Arcuri, il marito di Paola Clemente, non chiedeva altro. All'inizio era
spaventato. Poi ha deciso che bisogna arrivare in fondo a questa storia.
Da
quanto tempo lavorava sua moglie?
«Da sempre. Quello nei campi è sempre stato
il suo mestiere. E da qualche tempo lavorava appunto ad Andria insieme a una
serie di persone».
In
cosa consisteva il lavoro di sua moglie?
«Acinellatura. Tolgono gli acini più
piccoli per fare bello il grappolo. È necessario quindi che le braccianti
salgano su una cassetta e tolgano l'acinino. Significa stare con le braccia
tese e con la testa alzata per tutta la giornata. È un lavoro molto faticoso,
ma non potevamo fare altrimenti».
In
che senso?
«I soldi servivano».
Quanto
guadagnava?
«Ventisette euro al giorno».
Se
conta anche il viaggio, sono tredici ore di lavoro al giorno. Meno di due euro
l'ora. È schiavitù.
«Erano soldi sicuri. Per come stanno le
cose in Italia era denaro importantissimo, per Paola e per noi. Erano
indispensabili. Ci permettevano di campare».
Si
era mai lamentata della fatica?
«Siamo abituati a lavorare. E a stare in
silenzio. Paola non stava male, me l'avrebbe detto. A parte la cervicale, di
cui soffriva in modo cronico, non aveva altri dolori. Non era cardiopatica Si
lamentava, ripeto, soltanto di questi dolori al collo ogni tanto, ma niente che
ci avesse mai fatto preoccupare più di tanto. L'avevano vista dei medici, e
bastavano un paio di punture per fare passare tutto».
Come
stava sua moglie quel 13 luglio?
«Bene. È uscita di casa con le sue gambe.
Niente che ci potesse far pensare a quello che è successo, anche perché
altrimenti non sarebbe andata al lavoro».
Poi?
«In mattinata mi hanno chiamato da Andria
per dirmi che Paola si era sentita male e stava arrivando il 118. Ho capito
subito che non mi stavano dicendo tutta la verità. Chiedevo: "Ma si è
ripresa?". Dopo mezz'ora di silenzi, ho capito che era morta È stato il
momento più brutto della mia vita In un primo momento mi hanno detto fosse
all'ospedale di Barletta. Poi hanno cambiato versione: Andria. Sono arrivato
dopo un viaggio massacrante da San Giorgio. Ho cercato dappertutto, dai reparti
alla camera mortuaria ma non risultava proprio essere entrata Nessuno sapeva
chi fosse Paola. Abbiamo richiamato di nuovo lo stesso numero e, un po' alla
volta, a pezzettini, ci hanno detto la verità: mia moglie si trovava nella
camera mortuaria del cimitero. Lì l'abbiamo trovata».
Com'è
morta sua moglie?
«Non lo so. Dicono infarto. Ma non abbiamo
niente, né un referto, né l'esito del soccorso dell'ambulanza Mi hanno detto
che è intervenuto il 118, ma non sono sicuro».
L'azienda per cui lavorava sua moglie dice
che aveva un contratto regolare, mediato da un’agenzia interinale. E’così?
«Non conosco i particolari, ma so che era
assicurata». Interviene De Leonardis, il sindacalista «Ci sono problemi, cose
che stiamo verificando. Sicuramente c'era il pagamento di un intermediario».
Ora
cosa chiedete?
«Io non mi rendo ancora conto di quello che
è accaduto. Ho l'impressione che lei debba ancora tornare dal lavoro da un
momento all'altro, non riesco ad accettare che non sia accanto a me, a casa.
Non è pensabile non vederla la sera a tavola, dal rientro dei campi, con i
nostri tre figli. Paola era una cuoca straordinaria. Abbiamo comprato casa con
il mutuo e a dicembre finiremo di pagarlo. Era la nostra conquista. E invece...
Ci siamo sposati nel 1987, sono 28 anni di matrimonio. Non esisto senza di lei,
sono solo, i ragazzi ormai sono grandi. E so che il brutto deve ancora venire.
Per questo ora devo combattere per lei».
Che
significa?
«Vogliamo verità. Noi siamo gente semplice. E
vogliamo semplicemente sapere di cosa è morta mia moglie. Chi e cosa l'ha
uccisa. Vogliamo che sia fatta l'autopsia, mi fido della magistratura: ci sono
delle cose più grandi di me ma abbiamo una dignità. E ho il diritto di sapere
perché la cosa più bella della mia vita non c'è più».
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