giovedì 17 settembre 2015

Majid Rafizadeh: “L’Europa invece di agire in Siria continua a fare troppa retorica”




Parla Majid Rafizadeh, politologo, presidente dell'International American Council on the Middle East: "La Russia agisce per prepararsi al negoziato"
di Davide Vannucci

In agosto Qassem Soleimani, il capo delle forze Al Quds, le milizie iraniane che operano all’estero, ha incontrato a Mosca Vladimir Putin. Secondo alcune fonti di stampa, proprio allora sarebbe stato pianificato quel massiccio invio di mezzi e personale militare russo in Siria che, avviato la scorsa settimana, sta allarmando l’Occidente.

Majid Rafizadeh, politologo, accademico di Harvard, presidente dell’International American Council on the Middle East, vede nelle mosse di Russia e Iran, padrini di Assad, "solo" un modo per negoziare il futuro della Siria da una posizione di forza.

L’Occidente si chiede se Mosca abbia intenzione di impegnarsi sul campo oppure se stia semplicemente proteggendo l’enclave alawita, e quindi i propri interessi sulla costa, in vista di possibili colloqui tra il regime e l’opposizione.
L’obiettivo principale del governo russo è quello di preservare i propri interessi
nazionali, strategici, geopolitici ed economici. Questo discorso si può applicare a qualsiasi Stato-nazione stia offrendo soluzioni per risolvere la crisi siriana. Mosca non è in una posizione comoda. Ha speso moltissimi soldi per mantenere Assad al potere e deve trovare un modo per porre fine al conflitto. Al momento, però, non è disposta ad abbandonare ancora Assad e il suo clan. Quindi le operazioni militari russe in Siria servono a sostenere il fronte traballante del regime, che sul campo ha subito parecchie sconfitte negli ultimi mesi, in modo da rafforzare la sua posizione al tavolo dei negoziati.

Lo stesso discorso si può fare per l’Iran?
In un certo senso sì, perché Teheran ha investito pesantemente su Assad e sul suo gruppo di potere, e l’emorragia di denaro e di uomini deve essere fermata, ad un certo punto. Anche gli iraniani non sono disposti a scaricare il regime. Ed è difficile che questo avvenga in futuro, perché Bashar al Assad non è un semplice individuo, che può essere sostituito da qualcun altro. È parte dello Stato siriano, perché incarna il dominio degli alawiti all’interno dell’establishment politico. La rimozione di Assad dal potere non farebbe altro che alimentare le ambizioni dei ribelli e delle opposizioni. Gli iraniani hanno visto che cosa è successo nei Paesi del Medio Oriente in cui i governi hanno ceduto il passo ai loro contestatori. 

Obama scommette che, quantomeno sul lungo periodo, un Iran reintegrato nella comunità internazionale possa essere un fattore di stabilizzazione. 
La politica regionale dell’Iran non è cambiata, è rimasta intatta anche dopo l’intesa raggiunta sul nucleare. Gli affari esteri, infatti, sono ancora saldamente nelle mani dell’ayatollah Khamenei e dei pasdaran, non certo in quelle del presidente Rohani. L’ideologia del regime resta la stessa, la spina dorsale è l’opposizione agli Stati Uniti e all’asse sunnita guidato dall’Arabia Saudita. Certo, Teheran dà l’impressione di volersi avvicinare all’Occidente e di negoziare sulla Siria, ma non si tratta di uno spostamento strategico.

Pura tattica, quindi.
L’Iran vuole rientrare all’interno della comunità internazionale e del sistema finanziario globale, quindi sta cercando di guadagnarsi la fiducia dell’Occidente. Le immagini dei migranti che hanno scosso l’opinione pubblica europea non hanno giocato alcun ruolo nell’indirizzare la linea di Teheran, che non ha modificato le proprie priorità in materia di sicurezza nazionale.

Allora, quale può essere una via d’uscita al conflitto in Siria? Una divisione del Paese, attraverso, ad esempio, una "nuova Yalta", un grande accordo tra sunniti e sciiti, Stati Uniti e Russia? Paesi che, peraltro, condividono un nemico, lo Stato Islamico.
Non credo che l’intervento di potenze esterne possa risolvere la crisi, ma solo esacerbarla ulteriormente. Le soluzioni top/down non rappresentano gli interessi del popolo siriano, ma solo quelli, geopolitici, strategici ed economici, degli Stati che le propongono. Un piano come quello descritto, una nuova Yalta, non sarebbe diverso dal progetto disegnato da Sykes e Picot un secolo fa (l’accordo di divisione delle sfere di influenza in Medio Oriente operato da Francia e Gran Bretagna, in vista della caduta dell’Impero ottomano, ndr). Le potenze coloniali tracciarono i confini nella regione sulla base dei loro interessi e non di coloro che abitavano quelle terre.

La prosecuzione della guerra aumenterà il flusso dei rifugiati verso l’Europa. Che cosa può fare l’Unione? Alcuni Paesi, come Francia e Gran Bretagna, stanno pensando di intervenire in Siria per risolvere il problema alla radice.
È troppo tardi per organizzare un piano che possa essere produttivo. L’Europa dovrebbe osservare la crisi siriana con uno sguardo più ampio. C’è un settore in cui si può fare ancora molto, ed è quello degli aiuti umanitari. Si possono proteggere i rifugiati, impedendo al tempo stesso che tentino la pericolosa traversata nel Mediterraneo. Bisogna, in sostanza, sostenere i Paesi confinanti con la Siria, che stanno sostenendo il fardello più pesante. Fino ad ora, però, ci sono state tante parole, e tanta retorica, ma poca azione.

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