Parla
Majid Rafizadeh, politologo, presidente dell'International American Council on
the Middle East: "La Russia agisce per prepararsi al negoziato"
di Davide
Vannucci
In agosto Qassem
Soleimani, il capo delle forze Al Quds, le milizie iraniane che operano
all’estero, ha incontrato a Mosca Vladimir Putin. Secondo alcune fonti di
stampa, proprio allora sarebbe stato pianificato quel massiccio invio di mezzi
e personale militare russo in Siria che, avviato la scorsa settimana, sta
allarmando l’Occidente.
Majid Rafizadeh, politologo, accademico di
Harvard, presidente dell’International American Council on the Middle East,
vede nelle mosse di Russia e Iran, padrini di Assad, "solo" un modo
per negoziare il futuro della Siria da una posizione di forza.
L’Occidente
si chiede se Mosca abbia intenzione di impegnarsi sul campo oppure se stia
semplicemente proteggendo l’enclave alawita, e quindi i propri interessi sulla
costa, in vista di possibili colloqui tra il regime e l’opposizione.
L’obiettivo principale del governo russo è quello
di preservare i propri interessi
nazionali, strategici, geopolitici ed
economici. Questo discorso si può applicare a qualsiasi Stato-nazione stia
offrendo soluzioni per risolvere la crisi siriana. Mosca non è in una posizione
comoda. Ha speso moltissimi soldi per mantenere Assad al potere e deve trovare
un modo per porre fine al conflitto. Al momento, però, non è disposta ad
abbandonare ancora Assad e il suo clan. Quindi le operazioni militari russe in
Siria servono a sostenere il fronte traballante del regime, che sul campo ha
subito parecchie sconfitte negli ultimi mesi, in modo da rafforzare la sua
posizione al tavolo dei negoziati.
Lo
stesso discorso si può fare per l’Iran?
In un certo senso sì, perché Teheran ha
investito pesantemente su Assad e sul suo gruppo di potere, e l’emorragia di
denaro e di uomini deve essere fermata, ad un certo punto. Anche gli iraniani
non sono disposti a scaricare il regime. Ed è difficile che questo avvenga in
futuro, perché Bashar al Assad non è un semplice individuo, che può essere
sostituito da qualcun altro. È parte dello Stato siriano, perché incarna il
dominio degli alawiti all’interno dell’establishment politico. La rimozione di
Assad dal potere non farebbe altro che alimentare le ambizioni dei ribelli e delle
opposizioni. Gli iraniani hanno visto che cosa è successo nei Paesi del Medio
Oriente in cui i governi hanno ceduto il passo ai loro contestatori.
Obama
scommette che, quantomeno sul lungo periodo, un Iran reintegrato nella comunità
internazionale possa essere un fattore di stabilizzazione.
La politica regionale dell’Iran non è
cambiata, è rimasta intatta anche dopo l’intesa raggiunta sul nucleare. Gli
affari esteri, infatti, sono ancora saldamente nelle mani dell’ayatollah
Khamenei e dei pasdaran, non certo in quelle del presidente Rohani. L’ideologia
del regime resta la stessa, la spina dorsale è l’opposizione agli Stati Uniti e
all’asse sunnita guidato dall’Arabia Saudita. Certo, Teheran
dà l’impressione di volersi avvicinare all’Occidente e di negoziare sulla
Siria, ma non si tratta di uno spostamento strategico.
Pura
tattica, quindi.
L’Iran vuole rientrare all’interno della
comunità internazionale e del sistema finanziario globale, quindi sta cercando
di guadagnarsi la fiducia dell’Occidente. Le immagini dei migranti che hanno
scosso l’opinione pubblica europea non hanno giocato alcun ruolo
nell’indirizzare la linea di Teheran, che non ha modificato le proprie priorità
in materia di sicurezza nazionale.
Allora,
quale può essere una via d’uscita al conflitto in Siria? Una divisione del
Paese, attraverso, ad esempio, una "nuova Yalta", un grande accordo
tra sunniti e sciiti, Stati Uniti e Russia? Paesi che, peraltro, condividono un
nemico, lo Stato Islamico.
Non credo che l’intervento di potenze esterne
possa risolvere la crisi, ma solo esacerbarla ulteriormente. Le soluzioni
top/down non rappresentano gli interessi del popolo siriano, ma solo quelli,
geopolitici, strategici ed economici, degli Stati che le propongono. Un piano
come quello descritto, una nuova Yalta, non sarebbe diverso dal progetto
disegnato da Sykes e Picot un secolo fa (l’accordo di divisione delle sfere di
influenza in Medio Oriente operato da Francia e Gran Bretagna, in vista della
caduta dell’Impero ottomano, ndr). Le potenze coloniali tracciarono i
confini nella regione sulla base dei loro interessi e non di coloro che
abitavano quelle terre.
La
prosecuzione della guerra aumenterà il flusso dei rifugiati verso l’Europa. Che
cosa può fare l’Unione? Alcuni Paesi, come Francia e Gran Bretagna, stanno
pensando di intervenire in Siria per risolvere il problema alla radice.
È troppo tardi per organizzare un piano che
possa essere produttivo. L’Europa dovrebbe osservare la crisi siriana con uno
sguardo più ampio. C’è un settore in cui si può fare ancora molto, ed è quello
degli aiuti umanitari. Si possono proteggere i rifugiati, impedendo al tempo
stesso che tentino la pericolosa traversata nel Mediterraneo. Bisogna, in
sostanza, sostenere i Paesi confinanti con la Siria, che stanno sostenendo il
fardello più pesante. Fino ad ora, però, ci sono state tante parole, e tanta
retorica, ma poca azione.
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