da: Il Sole 24 Ore – 11
agosto 2015
Dalla
diffamazione all’aggiotaggio, sul web proliferano i reati ma il diritto penale
è in ritardo
di Donatella
Stasio
Un immenso spazio di libertà, di
informazioni, di comunicazioni, di scambi economici e culturali. È il lato
luminoso – e democratico – di Internet. Ma come diceva Goethe, «Dove c’è molta
luce, l’ombra è più cupa». E l’ombra di Internet – il suo lato oscuro,
criminale – è così densa che si fatica a esplorarla. Eppure, conoscerla è
essenziale per evitare censure preventive, acquisire piena consapevolezza delle
potenzialità liberatrici della rete, sviluppare una necessaria cultura della
responsabilità individuale, sanzionare le condotte criminose. Se Internet
potesse sdraiarsi sul lettino di uno psicanalista, occorrerebbero certamente
anni per «entrare in contatto, abbracciare ed esaminare la sua ombra», per
dirla con Jung. Ma ciò non toglie che vi sia un ritardo del diritto penale
nell’affrontare quella zona oscura, in cui i giuristi navigano a vista,
muovendosi sul filo di vuoti normativi e di interpretazioni estensive, tra
incertezze e problemi, anche nell’individuazione dei reati. Non tanto di quelli
“contro” la rete (i cosiddetti reati informatici, come le frodi),
quanto di
quelli commessi “all’interno” o “per mezzo” della rete, e che proprio nella
rete trovano un ambiente accogliente, favorevole alla loro proliferazione e
potenzialità offensiva.
Caos
giuridico
La recente approvazione della
«Dichiarazione dei diritti in Internet» è un passo importante ma, tanto più,
impone di recuperare il ritardo sul versante buio dell’immensa piazza
telematica. Sulla rete si diffama, si minaccia, si vìola la privacy delle
persone, si rubano identità e beni immateriali, si truffa, si diffondono false
informazioni capaci di alterare l’andamento dei mercati, e così via. Un caos,
dal punto di vista della repressione penale. Finora, infatti, norme e cultura
giuridica si sono concentrate solo sui crimini informatici in senso stretto,
introdotti nel 2008 per reprimere le aggressioni e gli accessi illegittimi ai
sistemi tecnologici nonché le utilizzazioni indebite delle tecniche di
captazione, memorizzazione e trasmissione telematica.
Certo, se Internet è un mondo in continua
evoluzione, è difficile disegnare la mappa delle sue zone a rischio.
Forse pesa anche la preoccupazione di
incidere sulla libertà di espressione – principio cardine della rete – e di
aprire la strada a divieti o a forme di oscuramento. Fatto sta, però, che il
ritardo è fonte di problemi e di incertezze, che tocca ai magistrati risolvere
in attesa che il diritto penale faccia la sua parte.
Aumentano
le querele
Agosto. Procura di Roma. «Saliamo al
concreto» dice il Procuratore aggiunto Nello Rossi – che coordina sia il pool
sui reati finanziari che quello sui crimini informatici – guardando l’ombra di
Internet attraverso i casi concreti.
Il primo dato è «il preoccupante aumento» delle querele per diffamazione a mezzo Internet. Il che non porrebbe problemi se bastasse applicare le norme e gli orientamenti sulla diffamazione a mezzo stampa o attraverso altre forme di pubblicità. «Eppure non è proprio così», osserva Rossi. Anzitutto perché giornali, Tv, riviste sono molto diversi dai blog, dai forum, dalle comunicazioni libere su Facebook o dai contatti su Twitter. «Nei media tradizionali c’è un soggetto che controlla e assume la responsabilità, insieme ai giornalisti, per quanto di falso e di lesivo viene scritto sulle persone, mentre sulla rete spesso non c’è traccia di queste figure», spiega. «Inoltre – prosegue – chi per mestiere fa informazione ha una specifica professionalità e perciò verifica, controlla, laddove la rete offre a tutti libertà di espressione ma anche occasione di diffamare...Infine, a differenza di molti dei nuovi canali infomativi presenti sulla rete, i media tradizionali sono normalmente gestiti da imprese economicamente in grado, all’occorrenza, di risarcire i diffamati». Viste queste differenze, il giudice penale talvolta ha rilevato veri e propri vuoti normativi, talaltra ha cercato, in via interpretativa, la soluzione a problemi inediti.
Il primo dato è «il preoccupante aumento» delle querele per diffamazione a mezzo Internet. Il che non porrebbe problemi se bastasse applicare le norme e gli orientamenti sulla diffamazione a mezzo stampa o attraverso altre forme di pubblicità. «Eppure non è proprio così», osserva Rossi. Anzitutto perché giornali, Tv, riviste sono molto diversi dai blog, dai forum, dalle comunicazioni libere su Facebook o dai contatti su Twitter. «Nei media tradizionali c’è un soggetto che controlla e assume la responsabilità, insieme ai giornalisti, per quanto di falso e di lesivo viene scritto sulle persone, mentre sulla rete spesso non c’è traccia di queste figure», spiega. «Inoltre – prosegue – chi per mestiere fa informazione ha una specifica professionalità e perciò verifica, controlla, laddove la rete offre a tutti libertà di espressione ma anche occasione di diffamare...Infine, a differenza di molti dei nuovi canali infomativi presenti sulla rete, i media tradizionali sono normalmente gestiti da imprese economicamente in grado, all’occorrenza, di risarcire i diffamati». Viste queste differenze, il giudice penale talvolta ha rilevato veri e propri vuoti normativi, talaltra ha cercato, in via interpretativa, la soluzione a problemi inediti.
La Cassazione, ad esempio, ha escluso la
punibilità dei direttori dei giornali on line e dei coordinatori e gestori dei
blog e dei forum, chiamati a rispondere dei messaggi diffamatori presenti sui
siti solo se c’è un diretto concorso nel reato di diffamazione, ma non per
omesso controllo. Oppure ha escluso la responsabilità penale dei gestori di
“Internet point” per le mail diffamatorie inviate dai propri centri. «Da queste
e altre pronunce – osserva Rossi – deriva che nell’agorà telematica non
agiscono controllori penalmente responsabili dei contenuti delle comunicazioni
diffuse per mezzo della rete, ma individui che prendono la parola sotto la
propria responsabilità, spesso senza alcun filtro preventivo e all’insegna di
un’evidente estemporaneità, per esprimere sensazioni, riflessioni e opinioni,
non solo libere ma anche “in libertà”».
Molte
archiviazioni
Da questo dato sono partite alcune Procure
per individuare «filtri efficaci nonché linee di discrimine ragionevoli tra le
più gravi forme di diffamazione a mezzo Internet, da perseguire con fermezza, e
il vociare confuso della rete, che invece non merita l’intervento del giudice
penale». Significativo è l’alto numero di archiviazioni richieste dai Pm
romani. Sulla base di questo ragionamento: fermo restando che la rete è «mezzo
di pubblicità» spesso più potente e diffusivo dei media tradizionali e che, quindi,
l’immissione di frasi offensive e/o immagini denigratorie è in linea di
principio riconducibile al delitto di diffamazione «a mezzo di pubblicità»
(articolo 595, comma 3, Cp), bisogna prendere atto che essa è diventata
un’immensa piazza telematica e che i messaggi diffusi attraverso blog o forum
«sono caratterizzati, agli occhi dei frequentatori, da un’elevata dose di
soggettivismo e di relatività, se non di deliberata unilateralità o di assoluta
estemporaneità». Il che stempera la loro potenzialità lesiva dell’altrui
reputazione, e perciò ne ridimensiona l’offensività.
La
diffamazione è soft
Si potrebbe dire, insomma, che sulla rete
la diffamazione è... più soft, meno graffiante. «Con Internet – spiega Eugenio
Albamonte, Pm romano del pool sui reati informatici – c’è stata un’estensione
del diritto di critica: quel che prima si diceva al bar, ora si dice in rete;
se prima soltanto editorialisti, premi Nobel, personaggi noti potevano
esprimere le loro critiche sui media, ora tutti i cittadini hanno uno strumento
per farlo. Inoltre, il linguaggio del cittadino comune va valutato anche alla
luce di quello pubblico». Come dire che se il linguaggio politico degenera, non
ci si può dolere se il cittadino si esprime per le rime. Senza dimenticare,
aggiunge Albamonte, che molte notizie che appaiono sul web rimbalzano nei post
di comuni cittadini i quali non hanno l’obbligo – a differenza dei giornalisti
– di verificarne l’attendibilità.
«L’enorme mole di messaggi immessi – spiega
Rossi – determina, agli occhi degli utenti, una sorta di desensibilizzazione
oggettiva dei messaggi stessi, che impone quindi un vaglio particolarmente
penetrante al momento di individuarne la reale valenza diffamatoria». Non sono
considerati diffamatori, ad esempio, tutti i messaggi che, pur avendo
un’astratta potenzialità lesiva della reputazione, hanno un contenuto generico
quanto ai fatti; così come i commenti denigratori di chi si copre dietro un
nickname, poiché la scelta dell’anonimato riduce, agli occhi dei lettori, la
credibilità del messaggio e “azzera” la sua idoneità a ledere la reputazione.
Analoghe considerazioni valgono per
articoli firmati, “aperti” ai commenti dei lettori che possono dissentire o
smentire.
Il carattere transnazionale della rete
Il carattere transnazionale della rete
Ma sulla rete accade anche altro.
Proliferano minacce, gruppi di internauti che si riconoscono in slogan o parole
d’ordine a volte solo volgari e demenziali, altre volte pericolosi, deliranti,
minatori. Anche in questo caso tocca al magistrato selezionare il penalmente
perseguibile, sebbene non sia facile stabilire la “soglia” dell’effettiva
valenza minatoria. «Bisogna infatti mettere in conto il carattere
transnazionale della rete e il fatto che essa viaggia attraverso Paesi con
regimi giuridici diversissimi» osserva Rossi. Ad esempio: i gruppi di Fb,
spesso composti da migliaia di navigatori, che nascono con la velocità di un
lampo attorno a una parola d’ordine minacciosa, pongono a Pm e polizia
giudiziaria problemi giuridici «quasi insormontabili»: la dislocazione
all’estero del server, l’assenza in altri Paesi di norme penali equiparabili a
quelle italiane, la diversità dei regimi di oscuramento e di cancellazione dei
siti, e così via. In questi casi, l’efficacia dell’intervento è affidata
soprattutto alla collaborazione tra polizie e all’iniziativa dei gestori del
server che, avvertiti di un provvedimento del magistrato italiano, espellono
autonomamente il gruppo dal loro ambito. Resta fermo che il giudice, su
richiesta del Pm, può sequestrare (in via preventiva) i siti attraverso cui si
commettono reati in Italia e ottenerne l’oscuramento sul territorio italiano
(si pensi anche all’offerta di servizi finanziari abusivi o ai film pirata).
Il nodo del giudice competente
Il nodo del giudice competente
Nell’ampia gamma dei comportamenti
criminosi che viaggiano in rete c’è anche l’aggiotaggio informatico, ossia la
manipolazione del mercato (punita dall’articolo 185 del Testo unico
finanziario), che grazie alla velocità e alla pervasività della rete può però
trovare un terreno particolarmente fertile di esecuzione. La repressione di
questo grave reato sconta, tra le varie incertezze, anche quella
sull’individuazione del giudice territorialmente competente. Problema comune,
peraltro, ai reati di diffamazione via Internet. La Procura di Roma ha
sostenuto la competenza del luogo di residenza del diffamato via Internet, in
“analogia” a quanto previsto per la diffamazione via radio o Tv; ma la Procura
generale della Cassazione l’ha stoppata perché i criteri di determinazione
della competenza territoriale sono di «stretta interpretazione», per cui, non
essendo individuabile un luogo fisico in cui emerge per la prima volta la
notizia diffamatoria, occorre far riferimento ai criteri residuali del Codice:
residenza, domicilio o dimora dell’indagato. I pm della capitale si sono adeguati,
in attesa di pronunce dei giudici di merito e di Cassazione. E – ma chissà
quando – del ddl sulla diffamazione in discussione in Parlamento, che per la
diffamazione via Internet stabilisce proprio la competenza del giudice del
luogo di residenza del diffamato.
La
tutela della privacy
Tornando ai reati, numerose sono le
“violazioni del codice della privacy” attuate nella rete, fonte di decisioni
innovative e controverse, come quella, notissima, del Tribunale di Milano che
ha condannato i dirigenti di Google Italia per violazione del Codice della
privacy in seguito all’inserimento sul sito di un filmato su un ragazzo down
schernito e irriso, subito rimosso quando Google ne è stata informata. Questo e
altri casi analoghi pongono, peraltro, un interrogativo: può sopravvivere la
privacy, tradizionalmente intesa, nell’epoca di Internet? O deve rimodellarsi
per adeguarsi alla moderna società dell’informazione? «Forse Zuckerberg,
l’ormai mitico inventore di Fb, ha ragione quando dice che il concetto di privacy
nella società contemporanea è destinato a mutare profondamente – riflette Rossi
– ma è un fatto che, nella fase di transizione che stiamo vivendo, convivono,
non sempre coerentemente, un’acuta sensibilità per la privacy e l’aspirazione a
vivere in una società dell’informazione».
Insomma, se finora la rete è riuscita a
passare tra le gocce di pioggia della repressione penale è anche vero che, per
garantirne integrità, libertà e responsabilità, dovrà crescere la
consapevolezza giuridica del suo lato oscuro.
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