martedì 8 settembre 2015

Dalla crisi a conti pieni di profitti. Interrogativi su banche & finanza



da: Avvenire – 12 agosto 2015 – di Giancarlo Galli

Default, nel gergo della finanza anglosassone, è il termine col quale si definisce l’impossibilità di un individuo od un’azienda di onorare i propri debiti. Ovvero a rimborsare i prestiti contratti con banche ed istituzioni finanziarie.
Da qualche tempo ha però, drammaticamente, coinvolto gli Stati sovrani. A fare da apripista, tre lustri fa, L’Argentina, con un crack che polverizzò anche i risparmi di migliaia di famiglie italiane; poi è stata la volta della Grecia; ora nell’occhio del ciclone è Portorico, piccolo paese caraibico (3,5 milioni di anime), che gode dello status di «Territorio americano d’oltremare» in pratica una quasi-colonia Usa.
Come può uno Stato fallire? L’interrogativo ha una risposta dalla disarmante semplicità: quando spende più di quanto produce, vieppiù indebitandosi, a colmare la differenza e colmare la differenza sui mercati finanziari. Per meglio comprendere, proviamo a pensare ad una famiglia che, le uscite superano le entrate, è obbligata a ricorrere a prestiti. Finchè il meccanismo s’inceppa, ed è il disastro.
Osserviamo la casistica più recente. Grecia e Portorico. Ad Atene il debito pubblico, pari al 185 per cento del prodotto nazionale (Pil), è di 330 miliardi di euro. Nell’isola caraibica, di circa 70 miliardi di dollari. Cifre modeste, tutto
sommato, se dietro ad essi non si nascondesse un problema che tecnici ed economisti definiscono «strutturale». Ovvero una spesa regolarmente superiore alle entrate.
In epoche passate, era buona regola per gli Stati puntare al pareggio del bilancio; altrettanto delle famiglie misurando i consumi con le disponibilità Questi sani principi che ebbero nel nostro Luigi Einaudi un maestro, paiono relagati in soffitta. Travolti dalle mode consumistiche, cui è difficile sottrarsi. Urge pertanto affrontare il problema alle radici.
Argentina, Grecia, Portorico, potrebbero essere le spie di un sistema finanziario che rischia di esplodere. Da decenni, nel mondo occidentale, viviamo al di sopra delle nostre reali possibilità. Il debito pubblico dello Stato italiano ad esempio ha raggiunto il 135 per cento del reddito annuo prodotto, in difficoltà pure Francia e Spagna. Parametri migliori della Grecia, ma non per questo tranquillizzanti. L’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale (Fmi) afferma che all’Italia saranno necessari almeno vent’anni per riportare crescita ed occupazione ai livelli pre-crisi. Lo Svimez (l’Istituto per lo sviluppo del mezzogiorno), sostiene che il nostro Sud è praticamente alla deriva: il divario del Pil pro-capite fra centro-nord e sud avendo toccato il 57,3 per cento, la percentuale più alta mai registrata. Esiste tuttavia una scuola di pensiero di opposto ed ottimistico orientamento. In prima fila il governo Renzi a sostenere che il peggio è alle spalle. Sulla stessa lunghezza d’onda o quasi la Confindustria che, nonostante la battuta d’arresto di giugno-luglio, prefigura un autunno roseo (comunque, non grigio) per le industrie. C’è da augurarselo, sebbene ingigantisca l’interrogativo: perché mai la vendita a stranieri di tante primarie aziende?

Altro enigma, il sistema bancario italiano. Negli anni passati, molti Istituti hanno registrato ribassi clamorosi (sino al 90 per cento) delle quotazioni borsistiche. S’era calcolato che i «crediti in sofferenza», cioè difficilmente recuperabili, avessero toccato i 190 miliardi. Lasciando balenare la creazione di una Bad bank magari con fondi pubblici, per ristabilire gli equilibri. D’un tratto, quasi fosse entrato in scena con tanto di bacchetta magica il Mago Merlino, i bilanci semestrali delle maggiori banche (Financo del Monte Paschi) sbandierano utili. Miracolo agli sportelli?
Certo quello di banche & finanza è un pianeta misterioso. Però, in democrazia, una maggior chiarezza non guasterebbe.

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