da: Corriere della Sera – 7 agosto 2015
Le mutazioni politiche in
un Italia che cambia pelle
L’Italia cambia pelle, anche se gli
italiani non si spellano le mani per l’applauso. Cambia la sua geografia istituzionale,
sia nelle istituzioni politiche sia in quelle burocratiche, economiche,
sociali. Il nostro premier riuscirà più o meno simpatico, ma di sicuro sta
spingendo sull’acceleratore. Il governo Renzi I ha superato la boa dei 500
giorni, e in quest’arco temporale ha messo sotto tiro la scuola, la Pubblica
amministrazione, la Rai, il mercato del lavoro, le prefetture, le Camere di
commercio, le Province. E ai piani alti del sistema la legge elettorale, il
Senato, le competenze delle Regioni. Con quali effetti? C’è una direzione, c’è
una parola d’ordine che riassume l’epopea riformatrice?
Le paroline sono tre: verticalizzazione,
unificazione, personalizzazione. Nelle scuole comanderà un superdirigente, con
poteri di vita e di morte sui docenti. Alla Rai un superdirettore, con le
attribuzioni dell’amministratore delegato. Nelle imprese il Jobs act,
allentando i vincoli sui licenziamenti, rafforza il peso dei manager. Diventano
licenziabili anche i dirigenti pubblici, sicché il capogabinetto del ministro regnerà
come un monarca. Nel frattempo viene destrutturato il
territorio, nei suoi antichi puntelli istituzionali. Che dimagriscono nel numero (è il caso dei prefetti). Nelle competenze (e qui tocca alle Regioni, con la rivincita dello Stato centrale). Oppure saltano del tutto (come succede alle Province). Così l’onda di piena sommerge i poteri intermedi, non meno dei corpi intermedi. Disintermediazione, ecco l’altro slogan della nuova stagione. Ne sanno qualcosa i sindacati, ormai fuori dalla stanza dei bottoni. Anche i partiti, però, hanno smarrito la loro primazia. Rispondono forse alle direttive d’un partito Crocetta o De Luca, Emiliano o Zaia? No, la leadership dei governatori poggia su un consenso individuale, è la riproduzione su scala locale del filo diretto tra il leader nazionale e gli elettori.
territorio, nei suoi antichi puntelli istituzionali. Che dimagriscono nel numero (è il caso dei prefetti). Nelle competenze (e qui tocca alle Regioni, con la rivincita dello Stato centrale). Oppure saltano del tutto (come succede alle Province). Così l’onda di piena sommerge i poteri intermedi, non meno dei corpi intermedi. Disintermediazione, ecco l’altro slogan della nuova stagione. Ne sanno qualcosa i sindacati, ormai fuori dalla stanza dei bottoni. Anche i partiti, però, hanno smarrito la loro primazia. Rispondono forse alle direttive d’un partito Crocetta o De Luca, Emiliano o Zaia? No, la leadership dei governatori poggia su un consenso individuale, è la riproduzione su scala locale del filo diretto tra il leader nazionale e gli elettori.
Anche perché tutte le istituzioni
collegiali sono in crisi. Vale per i consigli regionali come per quelli
comunali, oscurati dall’autorità del sindaco. Vale per il Consiglio dei
ministri, che per lo più si limita a timbrare decisioni già annunziate in
conferenza stampa. E vale, da gran tempo, per le assemblee parlamentari. Che in
questa legislatura si sono spappolate come maionese: Forza Italia si è divisa
in tre, il Partito democratico ospita due truppe armate l’una contro l’altra, i
5 Stelle hanno subito un’emorragia fluviale, dentro Scelta civica s’è ripetuto
l’esperimento di Hiroshima: la scissione dell’atomo. La frantumazione dei
gruppi parlamentari parrebbe un intralcio all’attivismo del governo. I conti,
qui, si faranno alla fine.
Ma la concentrazione del potere sarà
probabilmente la regola futura, se non è regola già adesso. Con l’unificazione
delle Camere, attraverso l’abolizione sostanziale del Senato. E con il premio
dell’Italicum: al partito, dunque al partito personale, dunque personalmente al
Capo. E da lui giù verso i tanti capetti che stanno per mettere radici nel
paesaggio delle nostre istituzioni. Offrendo (almeno in apparenza) una ragione
postuma a Mosca e a Pareto, che un secolo fa avevano pronosticato la deriva
oligarchica delle democrazie. Ma con il dubbio che sempre a quel tempo inoculò
Max Weber, nella sua conferenza sulla scienza: «Il profeta, che tanti invocano,
non c’è».
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