giovedì 3 settembre 2015

Il quid che manca alla grande impresa italiana



da: http://www.linkerblog.biz/   - 14 agosto 215

Ho letto e riflettuto sui commenti apparsi all’indomani della vendita a sorpresa del gruppo Italcementi da parte della famiglia Pesenti. Tutti interessanti, tutti stimolanti, ma nessuno è riuscito a convincermi del tutto. O meglio nessuno ha fornito la risposta al mio interrogativo: perché si stanno ripetendo con maggiore frequenza le cessioni di imprese italiane in buona salute a investitori esteri? In buona salute significa che né Pirelli né Italcementi sono state svendute, chi le ha acquisite ha dovuto pagare agli azionisti venditori un prezzo elevato e un sovrapprezzo rispetto al valore ‘normale’ di mercato. Chi ha venduto non ha svenduto quindi. Eppure qualcosa non torna nello schema che vede grandi imprese italiane finire ripetutamente nelle mani di investitori esteri: non si tratta di stabilire se sia ‘giusto’ o ‘sbagliato’ per l’orgoglio nazionale, rischiando di fare grande confusione con quella linea che vuole giustamente agevolare gli investimenti diretti (FDI) in Italia, nemmeno di precipitare nell’analisi di situazioni poco trasparenti come per il caso Indesit-Whirlpool. Si tratta di capire se sia pura casualità degli eventi, oppure se vi sia una ragione comune che giustifica il passaggio di grandi aziende italiane in mani di investitori esteri.

La mia personalissima impressione è che le grandi imprese italiane, quelle che
hanno da tempo superato le soglie dimensionali della piccola e media impresa, diventando molto strutturate e articolate su base internazionale, difettino di qualcosa per mantenere la propria indipendenza e continuare a competere con successo crescendo e diventando più potenti. E’ la loro fragilità strutturale che le rende target di acquisizioni di altre imprese estere.

Purtroppo temo che non si tratti solo di disponibilità di capitali, ma di qualità delle risorse umane. Perché i capitali volendo e potendo si trovano nelle borse internazionali (Marchionne lo sta facendo con FCA e Ferrari), ma la qualità delle risorse umane e ancora di più la capacità di farle operare al meglio delle loro possibilità non si comprano. Con tutti i pesanti limiti che le generalizzazioni comportano, facendo sicuramente torto a ottimi manager italiani (alcuni dei quali hanno avuto successo in società estere), l’ambiente in cui crescono i manager italiani è molto probabilmente inadeguato; alla lunga l’inadeguatezza del management si traduce nella debolezza delle aziende per cui lavorano.

L’inadeguatezza dei manager italiani (su cui si è espresso in passato il prof. Zingales in modo colorito) potrebbe nascere da alcuni fattori strutturali, uno dei quali è la commistione quasi costante con gli interessi e lo stile manageriale delle famiglie proprietarie, visto che quasi tutte le grandi imprese italiane hanno avuto origini da aziende familiari, ma anche tenendo in conto che molti manager sono cresciuti in imprese a conduzione familiare. Nella patria del compromesso che mescola interessi di controllo (attraverso scatole cinesi) a obiettivi di sviluppo, il seme dell’innovazione cresce in un terreno poco fertile.

Un secondo fattore, sempre legato al tasso d’innovazione delle imprese, ha a che fare con l’età anagrafica dei manager italiani, manifestamente più elevata di quella dei loro colleghi non solo oltre oceano ma anche nei paesi del nord Europa. Il lento, lentissimo ricambio generazionale, la consumata abilità politica dei capi azienda italiani nell’occupare poltrone oltre una certa età regala quintali d’esperienza ma probabilmente sottrae quel tasso indispensabile di grinta, di coraggio e di propensione a rinnovare e rivoltare l’azienda per evitare di essere dominati da qualche concorrente nello stesso settore. I Pesenti hanno fatto forse la scelta giusta per il loro portafoglio (e quello degli azionisti), ma per quali ragioni le parti non si sono rovesciate e Italcementi non ha avuto la forza, il coraggio, la sfrontatezza di comprare Heidelberg?
Il mio sospetto è che i manager italiani siano mediamente più anziani e meno propensi o capaci di alimentare quell’innovazione radicale ed esponenziale che ha sovvertito interi settori che sembravano intoccabili (uccidendo colossi come Kodak, Blockbuster…) e portato alla nascita dei nuovi colossi nell’era della gestione dei dati e della sharing economy (Google, Airbnb, Alibaba, Groupon…).

Non commettete l’errore di pensare che l’innovazione esponenziale tocchi solo i settori legati all’informazione o a internet. Apple ha sovvertito l’industria dei telefoni, della fotografia e della musica, persino i settori tradizionali come le costruzioni sono esposti a una radicale innovazione dei processi e dei consumi nel prossimo futuro. Per non citare i settori assicurativo e bancario, forse quelli più in ritardo perché storicamente poco esposti alla concorrenza, che stanno per essere colpiti da un tifone che spazzerà via molte vecchie abitudini e molti manager totalmente inadeguati.

L’humus in cui crescono le imprese italiane e i manager italiani è da tempo poco stimolante: inquinato dai tempi e dai costi della burocrazia imposta dallo Stato, spesso viziato da trame e complotti interni di stampo machiavellico, ma raramente caratterizzato da quell’adrenalina che spinge altri manager in altri paesi a cambiare sistematicamente i processi, i prodotti, a distruggere per ricostruire imprese più competitive sui mercati internazionali. Temo che alcuni dei nostri giovani e migliori manager che sono stati reclutati o hanno scelto imprese straniere della nuova generazione potrebbero confermare che l’aria che respirano in queste aziende è sostanzialmente diversa. Gran parte delle strutture organizzative delle grandi imprese italiane sono ancora troppo complesse e a matrice: per la loro stessa natura rallentano i processi di cambiamento e innovazione. Sono proprio queste forme organizzative che, uccidendo creatività e spinta al rinnovamento, hanno messo in crisi le imprese di successo degli anni ’80 e ’90, all’estero come in Italia.

Forse la combinazione di famiglie d’imprenditori -cresciute in un capitalismo sostanzialmente protetto nel mercato domestico e dallo Stato che ha contribuito alla loro obsolescenza cedendo loro i monopoli naturali- e di manager ‘lenti’, ‘politici’ e scarsamente votati all’innovazione radicale aumenta esponenzialmente il tasso di vulnerabilità delle nostre grandi imprese, fortunatamente con diverse eccezioni note e importanti (Ferrero, Barilla, Luxottica…) e altre meno famose ma ugualmente valide. Senza però dimenticare che abbiamo perso molti pezzi importanti della nostra collezione negli ultimi anni. Non a caso.

Quando, come nel caso della Pirelli Cavi, ora diventata Prysmian, un management competente guidato da Valerio Battista si separa dalla proprietà familiare ed entra nella corrente ascensionale della pura competizione industriale e finanziaria (per la creazione di valore verso un azionariato diffuso) le storie sembrano avere un percorso diverso e la capacità di competere appare più solida, anche se sarà sempre e comunque sottoposta alla sfida delle nuove tecnologie.

Una classe dirigente si forma in decenni e può diventare obsoleta in pochi anni se non vede per tempo i grandi cambiamenti del mercato. Temo che questo sia uno dei non pochi problemi che il paese Italia deve affrontare, insieme al rinnovamento e alla pulizia della propria classe politica. La politica ha il suo ruolo, ma imprese, capitali e manager non possono sentirsi esenti da questo processo.

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