Ho letto e riflettuto sui commenti apparsi
all’indomani della vendita a sorpresa del gruppo Italcementi da parte
della famiglia Pesenti. Tutti interessanti, tutti stimolanti, ma nessuno è
riuscito a convincermi del tutto. O meglio nessuno ha fornito la risposta al mio
interrogativo: perché si stanno ripetendo con maggiore frequenza le
cessioni di imprese italiane in buona salute a investitori esteri? In
buona salute significa che né Pirelli né Italcementi sono state svendute, chi
le ha acquisite ha dovuto pagare agli azionisti venditori un prezzo elevato e
un sovrapprezzo rispetto al valore ‘normale’ di mercato. Chi ha venduto non ha
svenduto quindi. Eppure qualcosa non torna nello schema che vede grandi
imprese italiane finire ripetutamente nelle mani di investitori esteri: non si
tratta di stabilire se sia ‘giusto’ o ‘sbagliato’ per l’orgoglio nazionale,
rischiando di fare grande confusione con quella linea che vuole giustamente
agevolare gli investimenti diretti (FDI) in Italia, nemmeno di precipitare
nell’analisi di situazioni poco trasparenti come per il caso Indesit-Whirlpool.
Si tratta di capire se sia pura casualità degli eventi, oppure se vi sia una
ragione comune che giustifica il passaggio di grandi aziende italiane in mani
di investitori esteri.
La mia personalissima impressione è
che le grandi imprese italiane, quelle che
hanno da tempo superato le
soglie dimensionali della piccola e media impresa, diventando molto strutturate
e articolate su base internazionale, difettino di qualcosa per mantenere
la propria indipendenza e continuare a competere con successo crescendo e
diventando più potenti. E’ la loro fragilità strutturale che le rende target di
acquisizioni di altre imprese estere.
Purtroppo temo che non si tratti solo di
disponibilità di capitali, ma di qualità delle risorse umane. Perché i
capitali volendo e potendo si trovano nelle borse internazionali (Marchionne lo
sta facendo con FCA e Ferrari), ma la qualità delle risorse umane e ancora di
più la capacità di farle operare al meglio delle loro possibilità non si comprano.
Con tutti i pesanti limiti che le generalizzazioni comportano, facendo
sicuramente torto a ottimi manager italiani (alcuni dei quali hanno avuto
successo in società estere), l’ambiente in cui crescono i manager italiani
è molto probabilmente inadeguato; alla lunga l’inadeguatezza del management si
traduce nella debolezza delle aziende per cui lavorano.
L’inadeguatezza dei manager italiani (su
cui si è espresso in passato il prof. Zingales in modo colorito) potrebbe nascere da
alcuni fattori strutturali, uno dei quali è la commistione quasi costante con
gli interessi e lo stile manageriale delle famiglie proprietarie, visto che
quasi tutte le grandi imprese italiane hanno avuto origini da aziende
familiari, ma anche tenendo in conto che molti manager sono cresciuti in
imprese a conduzione familiare. Nella patria del compromesso che mescola
interessi di controllo (attraverso scatole cinesi) a obiettivi di
sviluppo, il seme dell’innovazione cresce in un terreno poco fertile.
Un secondo fattore, sempre legato al tasso
d’innovazione delle imprese, ha a che fare con l’età anagrafica dei
manager italiani, manifestamente più elevata di quella dei loro colleghi non
solo oltre oceano ma anche nei paesi del nord Europa. Il lento, lentissimo
ricambio generazionale, la consumata abilità politica dei capi azienda
italiani nell’occupare poltrone oltre una certa età regala quintali
d’esperienza ma probabilmente sottrae quel tasso indispensabile di grinta, di
coraggio e di propensione a rinnovare e rivoltare l’azienda per evitare di
essere dominati da qualche concorrente nello stesso settore. I Pesenti hanno
fatto forse la scelta giusta per il loro portafoglio (e quello degli
azionisti), ma per quali ragioni le parti non si sono rovesciate e Italcementi
non ha avuto la forza, il coraggio, la sfrontatezza di comprare Heidelberg?
Il mio sospetto è che i manager italiani
siano mediamente più anziani e meno propensi o capaci di alimentare
quell’innovazione radicale ed esponenziale che ha sovvertito interi settori che
sembravano intoccabili (uccidendo colossi come Kodak, Blockbuster…) e portato
alla nascita dei nuovi colossi nell’era della gestione dei dati e della sharing
economy (Google, Airbnb, Alibaba, Groupon…).
Non commettete l’errore di pensare che
l’innovazione esponenziale tocchi solo i settori legati all’informazione o a
internet. Apple ha sovvertito l’industria dei telefoni, della fotografia e
della musica, persino i settori tradizionali come le costruzioni sono esposti a
una radicale innovazione dei processi e dei consumi nel prossimo futuro. Per
non citare i settori assicurativo e bancario, forse quelli più in ritardo
perché storicamente poco esposti alla concorrenza, che stanno per essere
colpiti da un tifone che spazzerà via molte vecchie abitudini e molti manager
totalmente inadeguati.
L’humus in cui crescono le imprese italiane
e i manager italiani è da tempo poco stimolante: inquinato dai tempi e dai
costi della burocrazia imposta dallo Stato, spesso viziato da trame e complotti
interni di stampo machiavellico, ma raramente caratterizzato da
quell’adrenalina che spinge altri manager in altri paesi a cambiare
sistematicamente i processi, i prodotti, a distruggere per ricostruire imprese
più competitive sui mercati internazionali. Temo che alcuni dei nostri giovani
e migliori manager che sono stati reclutati o hanno scelto imprese straniere
della nuova generazione potrebbero confermare che l’aria che respirano in
queste aziende è sostanzialmente diversa. Gran parte delle strutture
organizzative delle grandi imprese italiane sono ancora troppo complesse e a
matrice: per la loro stessa natura rallentano i processi di cambiamento e
innovazione. Sono proprio queste forme organizzative che, uccidendo creatività
e spinta al rinnovamento, hanno messo in crisi le imprese di successo degli
anni ’80 e ’90, all’estero come in Italia.
Forse la combinazione di famiglie
d’imprenditori -cresciute in un capitalismo sostanzialmente protetto nel
mercato domestico e dallo Stato che ha contribuito alla loro obsolescenza
cedendo loro i monopoli naturali- e di manager ‘lenti’, ‘politici’ e
scarsamente votati all’innovazione radicale aumenta esponenzialmente il
tasso di vulnerabilità delle nostre grandi imprese, fortunatamente con diverse
eccezioni note e importanti (Ferrero, Barilla, Luxottica…) e altre meno famose
ma ugualmente valide. Senza però dimenticare che abbiamo perso molti pezzi
importanti della nostra collezione negli ultimi anni. Non a caso.
Quando, come nel caso della Pirelli Cavi,
ora diventata Prysmian, un management competente guidato da Valerio Battista si
separa dalla proprietà familiare ed entra nella corrente ascensionale della
pura competizione industriale e finanziaria (per la creazione di valore verso
un azionariato diffuso) le storie sembrano avere un percorso diverso e la
capacità di competere appare più solida, anche se sarà sempre e comunque
sottoposta alla sfida delle nuove tecnologie.
Una classe dirigente si forma in decenni e
può diventare obsoleta in pochi anni se non vede per tempo i grandi cambiamenti
del mercato. Temo che questo sia uno dei non pochi problemi che il paese Italia
deve affrontare, insieme al rinnovamento e alla pulizia della propria classe
politica. La politica ha il suo ruolo, ma imprese, capitali e manager non
possono sentirsi esenti da questo processo.
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