mercoledì 9 novembre 2011

Legge sulle intercettazioni: regole e controlli non escludono autonomia e delega


24 maggio 2010

Il disegno di legge sulle intercettazioni “fortemente voluto” da Silvio Berlusconi è da giorni oggetto di scambi di dichiarazioni, di manifestazioni di pensiero, di raccolta di firme.
Il governo sostiene che le norme che riducono o escludono l’uso delle intercettazioni non limiteranno la lotta alla criminalità ma che bisogna porre fine all’invasione della privacy. La stampa, al contrario, ritiene trattarsi di una ‘legge bavaglio’ per impedire l’indipendenza dell’informazione.
I due “contendenti”: potere politico e potere mediatico non sono poi così diversi e, soprattutto, i media non sono certo esenti da difetti, in buona e mala fede.


1. Le intercettazioni sono uno degli strumenti d’indagine che magistrati e forze dell’ordine dispongono per individuare e combattere la criminalità. In ogni sua forma ed “etichettatura”.

Non possono essere l’unico mezzo d’indagine, ma, non è pensabile e accettabile che si possono utilizzare per tempi limitati e solo se già presenti sufficienti indizi come stabilirebbe il testo normativo.

Il perché è presto detto: sono le intercettazioni spesso a fornire i sufficienti indizi per proseguire nelle indagini. Qualsiasi norma o cavillo normativo con relative interpretazioni di vario genere che impedisca l’avvio e la prosecuzione di intercettazioni, con le assunzioni di responsabilità da parte dei giudici, s’intende, limita se non addirittura impedisce la lotta alla criminalità. 
2. Il rispetto della privacy è un diritto. Fondamentale. Non è accettabile che i media pubblichino conversazioni telefoniche che sono inequivocabilmente fatti privati. Non è accettabile né personalmente mi interessa sapere, per fare un esempio, che il figlio di Luciano Moggi voglia fare sesso con Ilaria D’Amico. Questa conversazione privata non è rilevante dal punto di vista penale e neppure rientra nel rapporto di delega tra me e il giornalista.


E qui arrivo al terzo punto.
3. Nel mestiere di giornalista è implicita una forma di delega. Siamo noi opinione pubblica che deleghiamo i media nella scelta degli argomenti e nel modo di porli. Qualcosa sta cambiando dall’avvento del web; il giornalismo lo tiene d’occhio e non è raro che lo segua nella scelta degli argomenti. Ma il giornalismo è essenzialmente e storicamente questo: qualcuno decide cosa e come dobbiamo essere informati. O disinformati. 
La massima espressione di delega è il giornalismo televisivo. Tra l’altro, l’unico che si diffonde in milione di case. Mentre la stampa cartacea continua ad essere referenziale e autoreferenziale; conseguentemente: se le cantano e se le suonano tra quattro gatti.


Il compito del giornalista è quello di informare. Per farlo è indispensabile avere senso critico, essere oggettivi. Manipolare miscelando fatti e opinioni è disonesto, seppure, la distinzione netta – totale - tra fatti e opinione non esiste. Chi sostiene il contrario, truffa. Diffidate di questa gente. E coloro che sostengono questo purismo inesistente si leggano “Sei lezioni di storia” di Edward Carr. I loro neuroni ne trarranno giovamento.
Perché scegliere un argomento piuttosto che un altro, il modo di presentarlo, è già uno “schieramento” mentale. La correttezza e professionalità sta nel senso critico, nel racconto di più voci, nell’esposizione di elementi oggettivi, nel  controbattere con argomenti a tesi ed affermazioni, così da consentire ad ognuno di noi di formare un pensiero che ha un fondamento logico.

Il principio basilare, non contrattabile, è la correttezza, il rispetto della persona, il senso del dovere d’informazione. Le leggi danno le regole. I controlli servono per verificarne il rispetto. Ma pur in presenza di leggi e controlli – quest’ultimi in realtà pressoché sconosciuti in ogni campo nella vita sociale italiana – vi sono inevitabilmente margini di autonomia, necessità di delegare e assunzioni di responsabilità che non si possono evitare. Perché sono logicamente, naturalmente, negli aspetti delle notizie e nel modo di trattarle.

Si deve accettare e si deve fare i conti con il fatto che la stampa ha e deve continuare ad avere autonomia su certi aspetti inerenti la raccolta e pubblicazione delle informazioni.


Cercherò di spiegarmi con un esempio.
Abbiamo letto della conversazione telefonica avvenuta la sera del terremoto in Abruzzo tra due “imprenditori”. Abbiamo sentito la loro sghignazzata. C’era trippa per gatti: cioè c’erano appalti a iosa con i quali fare business.
Quella conversazione non era penalmente rilevante. Quel ridacchiare mostrava solo la “sensibilità” di due mammiferi a due zampe. Era una conversazione privata.
Per il rispetto della privacy, quell’intercettazione doveva o no essere pubblicata? Se stessimo ai “puristi” della tutela della vita privata: no.

Dal punto di vista professionale, nel rispetto della correttezza nei confronti di chi legge ma anche dei soggetti intercettati che ancora non stati condannati da un tribunale, per dovere di informazione, quella conversazione doveva essere pubblicata o no? Io ritengo: sì. Perché se anche non penalmente rilevante, se anche privata, quella conversazione dimostrava lo squallore mentale di due “persone” che lavorano con una controparte pubblica e che traggono reddito proprio da quella controparte. Che siamo noi. I cittadini italiani non evasori.

Quella conversazione, che mostra un approccio ad una vicenda umana, un modo di reagire di fronte alla disgrazia di molti italiani, non può che creare un sospetto in chi ascolta.
Il sospetto è facilmente intuibile: chi reagisce verbalmente in questo modo, è probabilmente portato ad agire nella pratica giornaliera, con altrettanto disprezzo della persona umana e delle sue dolorose vicende. Un potenziale soggetto che non si farebbe scrupoli. Probabilmente. Potenzialmente. Da appurare.
E come si può appurarlo?
Un magistrato che ascolta questo genere di conversazioni ha il dovere – non il diritto – di procedere velocemente, senza ostacoli, senza impedimenti legislativi, nel disporre altre intercettazioni per appurare che non si tratti solo di squallore verbale. Un giornalista che conosca la legge, che non la eluda, onesto mentalmente, indipendente, ha il dovere di rendere pubblica questa conversazione.


Se fossi una giornalista, la mia correttezza, il mio senso dell’informazione, m’impedirebbe di pubblicare la conversazione telefonica di un maschio che vuole trombarsi una donna, salvo che, questo suo “desiderio” non sia indicativo di condizionamenti psicologici e fisici nei confronti dell’altra persona, di possibili di abuso del ruolo che riveste.
Se fossi una giornalista, pubblicherei intercettazioni che manifestano indizi di reato, posto che, la pubblicazione avvenga in tempi e modi da non intralciare le indagini.
Se fossi una giornalista, pubblicherei la conversazione di due pezzi di merda che se la ridono per un terremoto che sta devastando migliaia e migliaia di persone e andrei a cercare altre intercettazioni per capire se dietro a quell’esplosione di gioia non si stiano configurando reati o se, comunque, questo non sia che uno dei segnali del degrado morale di una parte del paese, nella fattispecie di chi maneggia soldi pubblici, di che trae ricchezza dal bene collettivo.


La legge in approvazione in Parlamento non è mirata a tutelare la privacy. 
E’ mirata ad impedire che gli sfoghi personali di Berlusconi, le sue manifestazioni su cosa e chi eliminare siano rese pubbliche. Perché Silvio Berlusconi ritiene di essere l’unico in grado di sapere e agire per il bene pubblico.
Ergo: nessuno può mettere in discussione ciò che pensa, ciò che dice, ciò che fa.
La legge in approvazione al Parlamento è un favore fatto alla criminalità proprio da quel governo che vuole gli sia riconosciuta un’incisività nella lotta al crimine. Perché ogni norma, ogni comma che stabilisce limiti nella tipologia di reati per i quali sono ammessi le intercettazioni e/o limiti temporali e/o macchinosità nell’avere l’autorizzazione e usare lo strumento, costituisce un regalo alla criminalità. E chi approva queste norme è complice di criminali.


Con tutto ciò, il livello professionale medio della stampa italiana è proporzionato alla classe politica che ci governa. Assenza di rispetto della persona, uso delle intercettazioni per scannamenti verso l’uno o l’altro, faziosità di un gruppo di potere contro altro gruppo di potere. Privare questa stampa della pubblicazione di intercettazioni significa privarli anche di un’arma. Ma privare i magistrati delle intercettazioni significa privarli di un’arma efficace per contrastare i reati.
La stampa professionista è responsabile di questa legge vergognosa come Silvio Berlusconi che la brama da tempo per raggiungere il suo obiettivo: sistemare le faccende private, le sue voglie, le sue rabbie, le sue presunzioni, i suoi conti personali.
Sivio Berlusconi, è vittima di se stesso. Ma la stampa italiana, tranne rare eccezioni, non sta cercando di limitare i danni della sua malattia. La sta coltivando.


Solo con correttezza, professionalità, senso della giustizia, e schiena dritta nei confronti di tutti i gruppi di potere – non solo quello di Berlusconi – si possono ridurre i danni della malattia del berlusconismo. Che non riguarda solo Silvio Berlusconi. E proprio perché non riguarda solo lui, ma parte del paese, ai media professionisti non resta che recuperare autonomia, senso critico, assunzione di responsabilità nel fare il proprio mestiere. Nell’essere delegati all’informazione.


Ho tralasciato, per quanto non marginale, anche se di facile battuta, il fatto che in assenza di pubblicazioni di intercettazioni telefoniche Claudio Scaiola non saprebbe che gli hanno regalato una casa. E sarebbe ancora ministro.
Questo fatto, è semplicemente la dimostrazione del lato grottesco di un regime putrefatto. Che strapuzza.
E non è solo “merito” del berlusconismo se strapuzza. La stampa si assuma le sue responsabilità. Non solo quella al servizio di Berlusconi. Anche l’altra. Al servizio di chi? Degli italiani onesti e indipendenti o al servizio di gruppi di potere economico avversi a Silvio Berlusconi? 

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