24 maggio 2010
Il disegno di
legge sulle intercettazioni “fortemente voluto” da Silvio Berlusconi è da
giorni oggetto di scambi di dichiarazioni, di manifestazioni di pensiero, di
raccolta di firme.
Il governo
sostiene che le norme che riducono o escludono l’uso delle intercettazioni non
limiteranno la lotta alla criminalità ma che bisogna porre fine all’invasione
della privacy. La stampa, al contrario, ritiene trattarsi di una ‘legge
bavaglio’ per impedire l’indipendenza dell’informazione.
I due
“contendenti”: potere politico e potere mediatico non sono poi così diversi e,
soprattutto, i media non sono certo esenti da difetti, in buona e mala fede.
1. Le intercettazioni sono uno degli
strumenti d’indagine che magistrati e forze dell’ordine dispongono per
individuare e combattere la criminalità. In ogni sua forma ed “etichettatura”.
Non possono essere
l’unico mezzo d’indagine, ma, non è
pensabile e accettabile che si possono utilizzare per tempi limitati e solo se
già presenti sufficienti indizi come stabilirebbe il testo normativo.
Il perché è presto detto: sono le
intercettazioni spesso a fornire i sufficienti indizi per proseguire nelle
indagini. Qualsiasi norma o cavillo normativo con relative interpretazioni di
vario genere che impedisca l’avvio e la prosecuzione di intercettazioni, con le
assunzioni di responsabilità da parte dei giudici, s’intende, limita se non
addirittura impedisce la lotta alla criminalità.
2. Il rispetto della privacy è un diritto.
Fondamentale. Non è accettabile che i media pubblichino conversazioni
telefoniche che sono inequivocabilmente fatti privati. Non è accettabile né
personalmente mi interessa sapere, per fare un esempio, che il figlio di
Luciano Moggi voglia fare sesso con Ilaria D’Amico. Questa conversazione
privata non è rilevante dal punto di vista penale e neppure rientra nel
rapporto di delega tra me e il giornalista.
E qui arrivo al terzo punto.
3. Nel mestiere di giornalista è implicita una
forma di delega. Siamo noi opinione pubblica che deleghiamo i media nella
scelta degli argomenti e nel modo di porli. Qualcosa sta cambiando dall’avvento
del web; il giornalismo lo tiene d’occhio e non è raro che lo segua nella
scelta degli argomenti. Ma il giornalismo è essenzialmente e storicamente
questo: qualcuno decide cosa e come dobbiamo essere informati. O
disinformati.
La massima
espressione di delega è il giornalismo televisivo. Tra l’altro, l’unico che si
diffonde in milione di case. Mentre la stampa cartacea continua ad essere
referenziale e autoreferenziale; conseguentemente: se le cantano e se le
suonano tra quattro gatti.
Il compito del giornalista è quello di informare. Per farlo è indispensabile
avere senso critico, essere oggettivi. Manipolare miscelando fatti e opinioni è
disonesto, seppure, la distinzione netta – totale - tra fatti e opinione non
esiste. Chi sostiene il contrario, truffa. Diffidate di questa gente. E coloro
che sostengono questo purismo inesistente si leggano “Sei lezioni di storia” di
Edward Carr. I loro neuroni ne trarranno giovamento.
Perché scegliere
un argomento piuttosto che un altro, il modo di presentarlo, è già uno
“schieramento” mentale. La correttezza e
professionalità sta nel senso critico, nel racconto di più voci,
nell’esposizione di elementi oggettivi, nel controbattere con argomenti a
tesi ed affermazioni, così da consentire ad ognuno di noi di formare un
pensiero che ha un fondamento logico.
Il principio
basilare, non contrattabile, è la correttezza, il rispetto della persona, il
senso del dovere d’informazione. Le leggi danno le regole. I controlli servono
per verificarne il rispetto. Ma pur in presenza di leggi e controlli –
quest’ultimi in realtà pressoché sconosciuti in ogni campo nella vita sociale
italiana – vi sono inevitabilmente margini di autonomia, necessità di delegare
e assunzioni di responsabilità che non si possono evitare. Perché sono
logicamente, naturalmente, negli aspetti delle notizie e nel modo di trattarle.
Si deve accettare e si deve fare i conti con il fatto che la stampa ha e deve
continuare ad avere autonomia su certi aspetti inerenti la raccolta e
pubblicazione delle informazioni.
Cercherò di spiegarmi con un esempio.
Abbiamo letto
della conversazione
telefonica avvenuta la sera del terremoto in Abruzzo tra due “imprenditori”.
Abbiamo sentito la loro sghignazzata. C’era trippa per gatti: cioè c’erano
appalti a iosa con i quali fare business.
Quella
conversazione non era penalmente rilevante. Quel ridacchiare mostrava solo la
“sensibilità” di due mammiferi a due zampe. Era una conversazione privata.
Per il rispetto
della privacy, quell’intercettazione doveva o no essere pubblicata? Se
stessimo ai “puristi” della tutela della vita privata: no.
Dal punto di vista
professionale, nel rispetto della correttezza nei confronti di chi legge ma
anche dei soggetti intercettati che ancora non stati condannati da un
tribunale, per dovere di informazione, quella conversazione doveva essere
pubblicata o no? Io ritengo: sì. Perché se anche non penalmente rilevante, se
anche privata, quella conversazione dimostrava lo squallore mentale di due
“persone” che lavorano con una controparte pubblica e che traggono reddito
proprio da quella controparte. Che siamo noi. I cittadini italiani non evasori.
Quella conversazione, che mostra un approccio ad una vicenda umana, un modo di
reagire di fronte alla disgrazia di molti italiani, non può che creare un
sospetto in chi ascolta.
Il sospetto è
facilmente intuibile: chi reagisce verbalmente in questo modo, è probabilmente
portato ad agire nella pratica giornaliera, con altrettanto disprezzo della
persona umana e delle sue dolorose vicende. Un potenziale soggetto che
non si farebbe scrupoli. Probabilmente. Potenzialmente. Da appurare.
E come si può
appurarlo?
Un magistrato che ascolta questo genere di conversazioni ha
il dovere – non il diritto – di procedere velocemente, senza
ostacoli, senza impedimenti legislativi, nel disporre altre intercettazioni per
appurare che non si tratti solo di squallore verbale. Un giornalista che
conosca la legge, che non la eluda, onesto mentalmente, indipendente, ha
il dovere di rendere pubblica questa conversazione.
Se
fossi una giornalista, la mia correttezza, il mio senso
dell’informazione, m’impedirebbe di pubblicare la
conversazione telefonica di un maschio che vuole trombarsi una donna, salvo
che, questo suo “desiderio” non sia indicativo di condizionamenti
psicologici e fisici nei confronti dell’altra persona, di possibili di abuso
del ruolo che riveste.
Se fossi una giornalista, pubblicherei intercettazioni che manifestano
indizi di reato, posto che, la pubblicazione avvenga in tempi e modi da non
intralciare le indagini.
Se fossi una giornalista, pubblicherei la conversazione di due pezzi di
merda che se la ridono per un terremoto che sta devastando migliaia e migliaia
di persone e andrei a cercare altre intercettazioni per capire se dietro a
quell’esplosione di gioia non si stiano configurando reati o se, comunque,
questo non sia che uno dei segnali del degrado morale di una parte del paese,
nella fattispecie di chi maneggia soldi pubblici, di che trae ricchezza dal
bene collettivo.
La legge in approvazione in Parlamento non è mirata a tutelare la privacy.
E’ mirata ad
impedire che gli sfoghi personali di Berlusconi, le sue manifestazioni su cosa
e chi eliminare siano rese pubbliche. Perché Silvio Berlusconi ritiene di
essere l’unico in grado di sapere e agire per il bene pubblico.
Ergo: nessuno può
mettere in discussione ciò che pensa, ciò che dice, ciò che fa.
La legge in approvazione al Parlamento è un favore fatto
alla criminalità proprio da quel governo che vuole gli sia riconosciuta
un’incisività nella lotta al crimine. Perché ogni norma, ogni comma che
stabilisce limiti nella tipologia di reati per i quali sono ammessi le
intercettazioni e/o limiti temporali e/o macchinosità nell’avere
l’autorizzazione e usare lo strumento, costituisce un regalo alla criminalità.
E chi approva queste norme è complice di criminali.
Con tutto ciò, il livello professionale medio della stampa italiana è
proporzionato alla classe politica che ci governa. Assenza di rispetto della
persona, uso delle intercettazioni per scannamenti verso l’uno o l’altro,
faziosità di un gruppo di potere contro altro gruppo di potere. Privare questa
stampa della pubblicazione di intercettazioni significa privarli anche di
un’arma. Ma privare i magistrati delle intercettazioni significa privarli di
un’arma efficace per contrastare i reati.
La stampa
professionista è responsabile di questa legge vergognosa come Silvio Berlusconi
che la brama da tempo per raggiungere il suo obiettivo: sistemare le faccende
private, le sue voglie, le sue rabbie, le sue presunzioni, i suoi conti
personali.
Sivio Berlusconi,
è vittima di se stesso. Ma la stampa italiana, tranne rare eccezioni, non sta
cercando di limitare i danni della sua malattia. La sta coltivando.
Solo
con correttezza, professionalità, senso della giustizia, e schiena dritta nei
confronti di tutti i gruppi di potere – non solo quello di Berlusconi – si
possono ridurre i danni della malattia del berlusconismo. Che non riguarda solo
Silvio Berlusconi. E proprio perché non riguarda solo lui, ma parte del paese,
ai media professionisti non resta che recuperare autonomia, senso critico,
assunzione di responsabilità nel fare il proprio mestiere. Nell’essere delegati
all’informazione.
Ho tralasciato, per quanto non marginale, anche se di facile battuta, il fatto
che in
assenza di pubblicazioni di intercettazioni telefoniche Claudio
Scaiola non saprebbe che gli hanno regalato una casa. E sarebbe
ancora ministro.
Questo fatto, è semplicemente la dimostrazione del lato
grottesco di un regime putrefatto. Che strapuzza.
E non è solo “merito” del berlusconismo se strapuzza. La stampa si assuma le
sue responsabilità. Non solo quella al servizio di Berlusconi. Anche l’altra.
Al servizio di chi? Degli italiani onesti e indipendenti o al servizio di
gruppi di potere economico avversi a Silvio Berlusconi?
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