Il mito della psicoterapia
…A cosa mira
questa invasione della psicopatologia nella vita quotidiana, se non a creare in
noi tutti un senso di vulnerabilità….
Dà una risposta
Frank Furedi, secondo il quale la patologizzazione di esperienze umane, fino a
ieri ritenute normali, risponde all’esigenza di omologare gli individui non
solo nel loro modo di “pensare” (a questo ha già provveduto il “pensiero unico”
per cui, come già ammoniva Nietzsche, “chi pensa diversamente va spontaneamente
in manicomio”), ma soprattutto nel loro modo di “sentire”.
Allo scopo vengono
solitamente impiegati di mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai
giornali, con sempre maggiore insistenza irrompono con indiscrezione nella
parte discreta dell’individuo per ottenere non solo attraverso test,
questionari, campionature, statistiche, sondaggi d’opinione, indagini di
mercato, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta,
storie d’amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a
consegnare la sua interiorità, la sua parte discreta, rendendo pubblici i suoi
sentimenti, le sue emozioni, le sue sensazioni, secondo quei tracciati di
spudoratezza che vengono acclamati come espressioni di sincerità, perché in
fondo: “Non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi”.
Comportandoci in
questo modo ognuno di noi dà un ottimo esempio di quell’omologazione
dell’intimo cui tendono le società conformiste che, interessate a che
l’individuo non abbi più segreti e al limite neppure più un’interiorità,
alimentano il proliferare incontrollato di interviste, pubbliche confessioni,
rivelazioni dell’intimità, come è facile vedere in numerose trasmissioni
televisive particolarmente seguite, dove l’invito è quello di collaborare
attivamente e con gioia alla pubblicizzazione dei propri sentimenti e della
propria interiorità, perché il non farlo sarebbe un sintomo di “insincerità”,
se non addirittura – e qui anche gli psicologi danno una mano – di
“introversione”, di “chiusura in se stessi”, quindi di “inibizione” se non di
“repressione”. E inibizione e repressione, recitano i manuali di psicologia,
sono sintomi di un “adattamento sociale frustrato”, quindi di una
socializzazione fallita.
2. Il rimedio farmacologico
Nulla da dire
contro la somministrazione dei farmaci quando la vita si carica di troppa
sofferenza, ma somministrare Prozac ai bambini per evitare agli adulti
l’angoscia della loro tristezza o Ritalin quando si ribellano o appaiono
iperattivi penso risponda più all’esigenza dei genitori di vedere i bambini
sorridere quando a loro va a genio, o tranquilli quando tornano a casa dal
lavoro e altro non desiderano se non quell’azzeramento dei problemi, e al
limite delle altrui esistenze, che siamo soliti chiamare “quiete”.
Abbandonati
davanti alla televisione a inghiottire scene truculente (si calcola che in tre
ore di esposizione al video si può assistere in media a dieci omicidi) i
bambini, privi come sono dei mezzi emotivi necessari per elaborare la
solitudine in cui sono lasciati e l’invasività televisiva a cui sono esposti,
per forza diventano tristi, e allora una bella pastiglia di Prozac per tirarli
su, farli apparire vivaci, e quindi, chissà per quale equazione, anche
intelligenti. Ma il fondo della loro anima resta insicuro. La condizione
d’abbandono che per intero li percorre, senza la speranza emotivamente fondata
di una comunicazione credibile, non consente in loro la formazione di quel
nucleo caldo che, ben consolidato nell’infanzia, è la miglior difesa contro
l’insidia della depressione.
Nessun commento:
Posta un commento