mercoledì 9 novembre 2011

Umberto Galimberti: I miti del nostro tempo / 8


Il mito della psicoterapia

…A cosa mira questa invasione della psicopatologia nella vita quotidiana, se non a creare in noi tutti un senso di vulnerabilità….

Dà una risposta Frank Furedi, secondo il quale la patologizzazione di esperienze umane, fino a ieri ritenute normali, risponde all’esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di “pensare” (a questo ha già provveduto il “pensiero unico” per cui, come già ammoniva Nietzsche, “chi pensa diversamente va spontaneamente in manicomio”), ma soprattutto nel loro modo di “sentire”.
Allo scopo vengono solitamente impiegati di mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, con sempre maggiore insistenza irrompono con indiscrezione nella parte discreta dell’individuo per ottenere non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, sondaggi d’opinione, indagini di mercato, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte discreta, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue sensazioni, secondo quei tracciati di spudoratezza che vengono acclamati come espressioni di sincerità, perché in fondo: “Non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi”.
Comportandoci in questo modo ognuno di noi dà un ottimo esempio di quell’omologazione dell’intimo cui tendono le società conformiste che, interessate a che l’individuo non abbi più segreti e al limite neppure più un’interiorità, alimentano il proliferare incontrollato di interviste, pubbliche confessioni, rivelazioni dell’intimità, come è facile vedere in numerose trasmissioni televisive particolarmente seguite, dove l’invito è quello di collaborare attivamente e con gioia alla pubblicizzazione dei propri sentimenti e della propria interiorità, perché il non farlo sarebbe un sintomo di “insincerità”, se non addirittura – e qui anche gli psicologi danno una mano – di “introversione”, di “chiusura in se stessi”, quindi di “inibizione” se non di “repressione”. E inibizione e repressione, recitano i manuali di psicologia, sono sintomi di un “adattamento sociale frustrato”, quindi di una socializzazione fallita.

2. Il rimedio farmacologico

Nulla da dire contro la somministrazione dei farmaci quando la vita si carica di troppa sofferenza, ma somministrare Prozac ai bambini per evitare agli adulti l’angoscia della loro tristezza o Ritalin quando si ribellano o appaiono iperattivi penso risponda più all’esigenza dei genitori di vedere i bambini sorridere quando a loro va a genio, o tranquilli quando tornano a casa dal lavoro e altro non desiderano se non quell’azzeramento dei problemi, e al limite delle altrui esistenze, che siamo soliti chiamare “quiete”.
Abbandonati davanti alla televisione a inghiottire scene truculente (si calcola che in tre ore di esposizione al video si può assistere in media a dieci omicidi) i bambini, privi come sono dei mezzi emotivi necessari per elaborare la solitudine in cui sono lasciati e l’invasività televisiva a cui sono esposti, per forza diventano tristi, e allora una bella pastiglia di Prozac per tirarli su, farli apparire vivaci, e quindi, chissà per quale equazione, anche intelligenti. Ma il fondo della loro anima resta insicuro. La condizione d’abbandono che per intero li percorre, senza la speranza emotivamente fondata di una comunicazione credibile, non consente in loro la formazione di quel nucleo caldo che, ben consolidato nell’infanzia, è la miglior difesa contro l’insidia della depressione.

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