Il mito della psicoterapia
L’imperativo
terapeutico che si va diffondendo promuove non tanto l’autorealizzazione, quanto l’autolimitazione.
Infatti, postulando un sé fragile e debole, implica che per la gestione
dell’esistenza sia necessario il continuo ricorso alle conoscenze terapeutiche.
[…] E’ allarmante che tanti cerchino sollievo e conforto in una diagnosi.
Si può
individuare, nell’istituzionalizzazione di un’etica terapeutica, l’avvio di un
regime di controllo sociale. […] La terapia, infatti, come la cultura più vasta
di cui fa parte, insegna a stare al proprio posto. In cambio offre i dubbi
benefici della conferma e del riconoscimento.
F.Furedi, Il
nuovo conformismo
1. La medicalizzazione della condizione umana
Ma davvero siamo
così vulnerabili che di fronte a ogni incertezza della nostra vita abbiamo
bisogno di un’assistenza psicologica? Non è che si va diffondendo anche da noi,
come è già diffusa in America, un’etica terapeutica per cui basta che un
bambino sia un po’ vivace e turbolento che subito viene etichettato come
affetto da un “disturbo” da deficit di attenzione con iperattività”?
Che dire poi degli
studenti che, apprestandosi a fare l’esame di maturità, si definiscono
“stressati” per aver studiato durante l’anno con una media di un’ora al giorno,
e intorno ai quali si affollano i consigli degli psicologi, quando non
addirittura quella dei dietologi e dei medici? Che significa mettere in guardia
le donne in procinto di partorire dalla “depressione postpartum”, inscrivendo
preventivamente quel fenomeno naturale che è la generazione di un figlio in uno
scenario al confine con la patologia? Davvero i cassaintegrati e i licenziati
hanno bisogno di un’assistenza psicologica per evitare drammi familiari, e non
invece, più semplicemente, di un nuovo posto di lavoro?
Che cosa significa
questo continuo ricorso ai termini “sindrome da ansia generalizzata” per dire
che uno è preoccupato, “ansia sociale” per dire che uno è timido, “fobia
sociale” per dire che uno è riservato, “libera ansia fluttuante” per chi non sa
di che cosa si preoccupa?
Dai risultati di
una ricerca condotta da Frank Furedi, sociologo ungherese che insegna
all’Università del Kent, a Canterbury, risulta che, negli anni settanta, la
parola “sindrome” non compariva né sui giornali né nelle aule dei tribunali.
Nel 1985 faceva la sua comparsa in novanta articoli, nel 1993 in mille e nel 2003 in ottomila articoli
di riviste e periodici.
Per non parlare
poi della parola “autostima”, sconosciuta negli anni settanta e oggi
diffusissima nei media, a scuola, nei servizi sanitari, sul posto di lavoro e
nel linguaggio quotidiano. Dalla mancanza di autostima oggi si fanno dipendere
insuccessi scolastici, demotivazioni in campo professionale, depressione in
ambiente familiare, devianza giovanile nei tortuosi percorsi dell’alcol e della
droga, condotte suicidali.
Infine, il
“trauma” non viene più considerato una giusta e fisiologica reazione emotiva a
un evento doloroso o sconcertante, ma il generatore di un progressivo
disadattamento alla vita, tale da condizionarla per tutto il suo corso, e
quindi bisognoso di assistenza terapeutica.
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