mercoledì 9 novembre 2011

Umberto Galimberti: I miti del nostro tempo / 9


Il mito della tecnica

Il capovolgimento dei mezzi in fini

Due secoli dopo la nascita della scienza moderna, due riflessioni di Hegel si rivelano decisive per lo strutturarsi dell’età della tecnica. Nella Scienza della logica sostiene che nel futuro la ricchezza non sarà più determinata dai “beni”, ma dagli “strumenti” perché i beni si consumano, mentre gli strumenti sono in grado di costruire nuovi “beni”.
…La seconda, decisiva, considerazione di Hegel è la seguente: quando un fenomeno cresce da un punto di vista quantitativo non si ha solo un aumento in ordine alla quantità, ma si ha anche una variazione qualitativa radicale. Hegel fa un esempio molto semplice: se mi tolgo un capello sono uno che ha i capelli, se mi tolgo due capelli sono uno che ha i capelli, se mi tolgo tutti i capelli sono calvo. Vi è dunque un cambiamento qualitativo per il semplice incremento quantitativo di un gesto.
Marx cattura questo teorema di Hegel e lo applica all’economia. Tutti siamo abituati a considerare il denaro come un mezzo per realizzare determinati scopi, che sono la soddisfazione dei bisogni e la produzione di beni. Ma, dice Marx, se il denaro aumenta quantitativamente fino a diventare la condizione universale per soddisfare qualsiasi bisogno e per produrre qualsiasi bene, allora il denaro non è più un mezzo, ma il principale fine, e quelli che erano fini diventano strumenti per realizzare quel fine (il denaro) che tutti continuano a considerare un mezzo.
L’argomento marxiano può essere applicato anche alla tecnica. Se la tecnica, come osserva Emanuele Severino, è la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo, la tecnica non è più un mezzo, ma è il primo fine da raggiungere per poter poi perseguire tutti gli altri scopi che, in assenza del dispositivo tecnico, resterebbero dei sogni.
Noi abbiamo assistito al crollo dell’Unione Sovietica. Spesso, con grande ingenuità, si attribuisce tale crollo a ragioni “umanistiche”, come le condizioni materiali di vita delle persone o la mancanza di libertà civili e politiche. Ma non sono mai le ragioni umanistiche a determinare i collassi storici.
Nei primi anni sessanta l’Unione Sovietica aveva un dispositivo equipollente al suo antagonista, il mondo capitalistico americano. In quegli anni, quando gli americani ancora non erano riusciti a mandare in orbita un proprio satellite, l’Unione Sovietica aveva lanciato lo Sputnik. Allora il collasso dell’Unione Sovietica non era ipotizzabile. Negli anni ottanta, invece, la strumentazione tecnica americana tocca livelli irraggiungibili per i sovietici, come testimoniato da Gorbaciov che a Reykiavik, capitale dell’Islanda, implora Reagan di non procedere alla costruzione dello scudo stellare perché l’Unione Sovietica non avrebbe avuto nulla da contrapporre. A quel punto l’Unione Sovietica non può che crollare. Infatti, come ci ricorda Emanuele Severino, se lo scopo, il comunismo, può essere realizzato solo attraverso la disponibilità tecnica, venendo meno di quest’ultima anche il comunismo non dispone più di alcun sostegno.

[…] La tecnica sovverte anche la struttura del potere che, nell’età pre-tecnologica, poteva essere rappresentata dalla figura del triangolo, dove al vertice c’è il momento decisionale – l’arbitrio del sovrano, la legge, il potere – e, alla base l’ubbidienza o la trasgressione, la legittimità o illegittimità, i cittadini o i sudditi.
Oggi la tecnica non consente più una simile rappresentazione, perché la tecnica conferisce potere a tutti coloro che operano in un apparato. Per cui, ad esempio, bastano dieci controllori di volo per fermare tutto il complesso della navigazione aerea, quando un tempo uno sciopero tradizionale, per avere successo, doveva coinvolgere l’ottanta per cento dei lavoratori di un certo settore.
Siamo quindi di fronte a un potere nuovo, perché la tecnica prevede una coordinazione dei suoi sub-apparati, affinchè tutto possa funzionare con una regolarità e una coordinazione assolute. Basta infatti l’interruzione di un piccolo segmento perché si blocchi tutto l’apparato. In questo modo la tecnica conferisce potere a tutti coloro che operano nell’apparato, un potere che gli americani hanno ben identificato nella denominazione no making power, il potere di non fare.
A questo punto, invocare politici decisionisti, come spesso capita di sentire, nell’età tecnica è quanto di meno efficace possa esistere, perché se basta una piccola astensione per bloccare tutto l’apparato, il lavoro del politico dovrà essere di grande mediazione, più che di decisione. La decisione non è compatibile con la funzionalità tecnica.

[…] Inoltre la tecnica potrebbe determinare la fine della democrazia (il condizionale è motivato dal fatto che siamo tutti affezionati alla democrazia, ma in realtà si potrebbe anche dire che essa è già venuta meno). La tecnica, infatti, ci mette di fronte a problemi sui quali siamo chiamati a pronunciarci senza alcuna competenza. Basti pensare, a titolo esemplificativo, al referendum sulla fecondazione assistita, o al dibattito sulle centrali nucleari, o a quello sugli organismi geneticamente modificati. In tutti questi casi si possono giudicare con competenza i termini dei problemi solo se si è rispettivamente un biologo, un fisico nucleare o un genista. Le persone prive di queste specifiche qualifiche prenderanno posizione su basi “irrazionali”, quali sono l’appartenenza ideologica a un partito, la fascinazione per chi è maggiormente persuasivo in televisione, la simpatia per un politico.

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