Il mito della tecnica
Il capovolgimento
dei mezzi in fini
Due secoli dopo la
nascita della scienza moderna, due riflessioni di Hegel si rivelano decisive
per lo strutturarsi dell’età della tecnica. Nella Scienza della logica sostiene che nel futuro la ricchezza non sarà
più determinata dai “beni”, ma dagli “strumenti” perché i beni si consumano,
mentre gli strumenti sono in grado di costruire nuovi “beni”.
…La seconda,
decisiva, considerazione di Hegel è la seguente: quando un fenomeno cresce da
un punto di vista quantitativo non si
ha solo un aumento in ordine alla quantità, ma si ha anche una variazione qualitativa radicale. Hegel fa un
esempio molto semplice: se mi tolgo un capello sono uno che ha i capelli, se mi
tolgo due capelli sono uno che ha i capelli, se mi tolgo tutti i capelli sono
calvo. Vi è dunque un cambiamento qualitativo per il semplice incremento
quantitativo di un gesto.
Marx cattura questo teorema di Hegel e lo applica
all’economia. Tutti siamo abituati a considerare il denaro come un
mezzo per realizzare determinati scopi, che sono la soddisfazione dei bisogni e
la produzione di beni. Ma, dice Marx, se
il denaro aumenta quantitativamente fino a diventare la condizione universale per soddisfare qualsiasi bisogno e per
produrre qualsiasi bene, allora il denaro non è più un mezzo, ma il principale fine,
e quelli che erano fini diventano strumenti per realizzare quel fine (il
denaro) che tutti continuano a considerare un mezzo.
L’argomento
marxiano può essere applicato anche alla tecnica. Se la tecnica, come osserva
Emanuele Severino, è la condizione
universale per realizzare qualsiasi scopo, la tecnica non è più un mezzo, ma è il primo fine da raggiungere per poter poi
perseguire tutti gli altri scopi che, in assenza del dispositivo tecnico,
resterebbero dei sogni.
Noi abbiamo
assistito al crollo dell’Unione Sovietica. Spesso, con grande ingenuità, si
attribuisce tale crollo a ragioni “umanistiche”, come le condizioni materiali
di vita delle persone o la mancanza di libertà civili e politiche. Ma non sono
mai le ragioni umanistiche a determinare i collassi storici.
Nei primi anni
sessanta l’Unione Sovietica aveva un dispositivo equipollente al suo
antagonista, il mondo capitalistico americano. In quegli anni, quando gli
americani ancora non erano riusciti a mandare in orbita un proprio satellite, l’Unione
Sovietica aveva lanciato lo Sputnik. Allora il collasso dell’Unione Sovietica
non era ipotizzabile. Negli anni ottanta, invece, la strumentazione tecnica
americana tocca livelli irraggiungibili per i sovietici, come testimoniato da
Gorbaciov che a Reykiavik, capitale dell’Islanda, implora Reagan di non
procedere alla costruzione dello scudo stellare perché l’Unione Sovietica non
avrebbe avuto nulla da contrapporre. A quel punto l’Unione Sovietica non può
che crollare. Infatti, come ci ricorda Emanuele Severino, se lo scopo, il
comunismo, può essere realizzato solo attraverso la disponibilità tecnica,
venendo meno di quest’ultima anche il comunismo non dispone più di alcun
sostegno.
[…] La tecnica
sovverte anche la struttura del potere
che, nell’età pre-tecnologica, poteva essere rappresentata dalla figura del
triangolo, dove al vertice c’è il momento decisionale – l’arbitrio del sovrano,
la legge, il potere – e, alla base l’ubbidienza o la trasgressione, la
legittimità o illegittimità, i cittadini o i sudditi.
Oggi la tecnica
non consente più una simile rappresentazione, perché la tecnica conferisce potere a tutti coloro che operano in un apparato.
Per cui, ad esempio, bastano dieci
controllori di volo per fermare tutto il complesso della navigazione aerea,
quando un tempo uno sciopero tradizionale, per avere successo, doveva
coinvolgere l’ottanta per cento dei lavoratori di un certo settore.
Siamo quindi di
fronte a un potere nuovo, perché la tecnica prevede una coordinazione dei suoi
sub-apparati, affinchè tutto possa funzionare con una regolarità e una
coordinazione assolute. Basta infatti
l’interruzione di un piccolo segmento perché si blocchi tutto l’apparato. In
questo modo la tecnica conferisce potere a tutti coloro che operano
nell’apparato, un potere che gli americani hanno ben identificato nella
denominazione no making power, il
potere di non fare.
A questo punto, invocare politici decisionisti, come
spesso capita di sentire, nell’età
tecnica è quanto di meno efficace possa esistere, perché se basta una
piccola astensione per bloccare tutto l’apparato, il lavoro del politico dovrà
essere di grande mediazione, più che
di decisione. La decisione non è
compatibile con la funzionalità tecnica.
[…] Inoltre la tecnica potrebbe determinare la fine
della democrazia (il condizionale è motivato dal fatto che siamo tutti
affezionati alla democrazia, ma in realtà si potrebbe anche dire che essa è già
venuta meno). La tecnica, infatti, ci
mette di fronte a problemi sui quali siamo chiamati a pronunciarci senza alcuna
competenza. Basti pensare, a titolo esemplificativo, al referendum sulla
fecondazione assistita, o al dibattito sulle centrali nucleari, o a quello
sugli organismi geneticamente modificati. In tutti questi casi si possono
giudicare con competenza i termini dei problemi solo se si è rispettivamente un
biologo, un fisico nucleare o un genista. Le persone prive di queste specifiche qualifiche prenderanno posizione su
basi “irrazionali”, quali sono l’appartenenza ideologica a un partito, la
fascinazione per chi è maggiormente persuasivo in televisione, la simpatia per
un politico.
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