…Tutti sappiamo
che la scienza non conosce l’anima perché è una dimensione che
sfugge ai suoi metodi che sono di ordine quantitativo, ma non conosce neanche
il corpo perché, per le esigenze del
suo metodo, è costretta a ridurlo a organismo,
per cui ad esempio saprà dell’occhio tutto quello che un oculista sa, senza
però riuscire mai a spiegare che cosa è l’intensità di uno sguardo, o la
differenza tra il riso e il pianto, dal momento che le due manifestazioni
impegnano comunque la stessa muscolatura facciale.
Bene fa la scienza
a seguire il suo metodo, perché altrimenti ne andrebbe della sua scientificità
e quindi della sua efficacia, ma ciò non toglie che questo metodo, che anche
gli scienziati più accorti considerano “riduttivo”, possa spiegare la
complessità dell’esistenza umana, e soprattutto l’immensa gamma delle sue
manifestazioni affettive. Però la scienza ci prova, e allora l’affettività
diventa una pulsione, la pulsione un prodotto ormonale, e ora che la genetica
fa la sua prepotente comparsa nel sapere medico, perché non trovare il gene
dell’amore, così come si cerca di trovare quello della tristezza e quello della
felicità?
Attraverso queste
operazioni riduttive il legame
affettivo tra persone dello stesso sesso diventa pura e semplice “sessualità”
che, non essendo destinata alla riproduzione, non può che essere sessualità
deviata, disordine biologico di cui prima o poi si scoprirà la natura. Questa
logica aberrante della scienza viene accolta dagli eterosessuali che così si
sentono “normali”, dagli omosessuali che (se l’omosessualità è biologica) si
sentono innocenti, e dagli uomini di religione ai quali non par vero di poter
ripiantare l’albero della conoscenza del Bene e del Male sul solido terreno
della scienza.
…i legami
affettivi, che naturalmente si dirigono su un oggetto o su un altro, sono stati
ridotti dalla scienza a eventi sessuali,
quindi a errori genetici, senza uno straccio di prova, che, se anche ci fosse,
non giustificherebbe questo riduzionismo a sfondo materialistico, che risolve
la ricchezza dei moti dell’anima nella “semplicità” delle macchine genetiche,
abolendo d’un colpo la specificità dell’uomo.
…gay pride, coming out, outing.
Espressioni simili servono solo a offrire omosessuali
e lesbiche alla curiosità morbosa e a costringerli a scambiare una
pubblica manifestazione o una pubblica confessione come atto di sincerità,
mentre di fatto si tratta solo di una sottrazione di quanto in ciascuno di noi
c’è di più intimo, di più segreto, di più nostro: l’intimità. Cedere la propria intimità è spudoratezza che, offerta
sul piatto nobile della sincerità, è il prezzo che gli omosessuali devono
pagare per una semi-accettazione sociale, che poi serve solo a inchiodarli al
loro ruolo sessuale.
La libertà che gli
omosessuali rivendicano non è quella dell’accettazione delle loro pratiche
sessuali, bensì quella di non essere oggetto di quella violenza, a mio parere
la più micidiale, fatta all’intimità della loro persona, che rende difficile il
percorso che porta al riconoscimento di ciò che si è, e del senso esistenziale
che, a partire da ciò che si è, si può liberamente costruire, senza essere
obbligati a fare sogni non propri o adeguarsi a forme di vita che si sentono
estranee.
E dico questo
soprattutto oggi che si va inaugurando, in ambito cattolico, una tendenza che
promuove una psicoterapia per omosessuali, a partire da un presunto sapere
psicoanalitico e psichiatrico di fine Ottocento, che rispondeva non tanto al
rispetto della persona, quanto al compito di estirpare tendenze ritenute
“morbose”, semplicemente perché diverse dall’ordine costituito.
Alla base della
ripresa di simili pratiche terapeutiche io vedo solo una grande difficoltà ad
accettare l’altro nella sua alterità, che pertanto viene confinato, se non
proprio nell’ambito della riprovazione morale, senz’altro in quello della
“malattia”, da cui secondo terapeuti, ma senza alcun fondamento scientifico, si
può anche “guarire”.
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