mercoledì 30 novembre 2011

George Harrison rivive a dieci anni dalla scomparsa


George Harrison rivive nel «mondo materiale» a dieci anni dalla scomparsa

Quando i Beatles esplosero dall'una all'altra parte del pianeta come fenomeno musicale e di costume, la stampa ci mise poco a etichettarlo come «the quiet one», ossia «quello tranquillo», così da distinguerlo dai più maturi ed esuberanti compagni di strada. Più avanti sarebbe stato chiamato mistico, intellettuale, sperimentatore, terzomondista, precursore della world music e persino «plagiaro».
Sul conto di George Harrison ciascuno – appassionato di musica o beatlesiano che sia – ha la sua versione della storia. Pochi invece metterebbero in discussione un fatto: tra i Fab Four è stato di sicuro quello con la carriera solista caratterizzata da maggiore costanza.
Elemento che oggi, a ormai dieci anni dalla scomparsa avvenuta per cancro il 29 novembre del 2001, ci mette al riparo da agiografie troppo facili e scontate. Tanto più che «facile» e «scontato» non sono per niente aggettivi che si attagliano all'autore di un brano come «Only a Northern song».
La vita secondo Scorsese. La vita di un personaggio del genere non poteva certo essere raccontata da un regista qualsiasi. Ci ha pensato allora nientemeno che Martin Scorsese,
cineasta legato a filo doppio con l'epopea del rock, a raccogliere le confidenze della vedova Olivia e del figlio Dhani e a infilarle in «Living in the material world», film che il pubblico inglese e quello americano hanno già avuto la possibilità di vedere mentre qui in Italia è attesissimo per le anteprime che si terranno il 25 novembre alla Cineteca di Bologna e al Torino Film Festival.
In tutto il resto del Paese, toccherà attendere un po' di tempo in più e consolarsi con il preziosissimo libro omonimo, firmato dalla stessa Olivia Harrison, che la Rizzoli ha appena spedito in libreria (euro 45, pp. 400).
Dal vivo o in libreria. Proprio Rizzoli nel 2002 tradusse per la prima volta in italiano (a 22 anni dall'edizione originale) «I, me, mine», autobiografia del chitarrista di Liverpool realizzata in collaborazione con l'ex addetto stampa dei Beatles Derek Taylor. Chi è affezionato soprattutto alle «indianate» di zio George propenderà per «Raga Mala», autobiografia del di lui celebratissimo maestro di sitar (oltre che papà di una certa Norah Jones) Ravi Shankar pubblicata da Arcana (euro 24, pp. 320) e impreziosita da una introduzione d'annata dell'illustre discepolo.
La stessa casa editrice romana in questi giorni getta del resto in pasto al popolo beatlesiano «Hey! Hey! Hey!», secondo capitolo del commentario ai testi dei Fab Four a cura di Massimo Padalino, e il volume fotografico sul loro apprendistato tedesco «Beatles ad Amburgo».
Se in ogni caso ritenete che il migliore modo per celebrare una rock star sia un concerto, il consiglio per il prossimo 29 novembre è quello di recarsi a Liverpool dove il Cavern club - cioè il luogo in cui tutto ebbe inizio – ospiterà una serata speciale che coinvolgerà, tra gli altri, l'amico d'infanzia Arthur Kelly e The Rebels, la prima band in cui il Nostro militò. Molteplici anche gli appuntamenti a tema organizzati qui da noi.
La terza forza. Per gli storici, Harrison ha rappresentato la «terza forza» in quell'esplosivo calderone di creatività - musicale e non - che furono i Beatles, subito dietro i «geniacci» John Lennon e Paul McCartney. Più giovane (addirittura minorenne ai tempi dei primi tour), più bravo tecnicamente dei due alla chitarra, raggiungerà la piena maturazione artistica quando per i quattro di Liverpool cominceranno a rompersi gli equilibri.
Tutti quegli anni fa. «Harri» ironizza sulla sorte dei milionari tartassati in «Taxman», importa il sitar nella musica occidentale (vedi alla voce «Within you without you»), confeziona ballad memorabili come «Something» e «Here comes the sun». Dopo lo scioglimento dei Beatles dilaga con il triplo album «All things must pass», viene accusato di plagio perché la hit «My Sweet Lord» ricorda troppo «He's so fine» delle Chiffons, fa affari con i Monty Python e, con il Concert for Bangladesh, di fatto organizza il primo live aid della storia. Quando volge lo sguardo al passato lo fa con garbo e s'inventa brani quali «All those years ago» e «When we was Fab». E via avanti fino all'album postumo «Brainwashed», con la scanzonata «Any road» e la struggente «Stuck inside a cloud». Dodici dischi solisti in studio, tre live e mai una caduta di stile, una canzone furba, una che sembra messa lì per caso. Almeno in questo, i grandissimi John e Paul non gli staranno mai davanti.

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