Distruzione
della scuola e disoccupazione volontaria
Ma c’è un altro processo fondamentale che
negli anni sessanta ha inizio: la progressiva distruzione della scuola e
dell’università come luoghi di formazione che richiedono un duro impegno, e in
cambio promettono un incremento sostanziale delle conoscenze e delle abilità,
certificato da un titolo di studio credibile.
Non mi soffermerò qui sugli innumerevoli
studi che, negli ultimi cinquant’anni, hanno raccontato e documentano
l’abbassamento del livello effettivo di istruzione, sia in Italia sia negli
altri paesi avanzati.36 Perché l’abbassamento dell’asticella può essere
giudicato nei modi più diversi, e persino lodato come misura sacrosanta e
democratica, ma è difficile da negare. Avendo frequentato le aule scolastiche e
universitarie – prima come studente, poi come docente di sociologia e di
analisi dei dati – per oltre sessant’anni, dal 1956 a oggi, posso testimoniare
direttamente quel che è successo.
Lo riassumerei così: quello dell’istruzione
è l’unico settore della società italiana in cui la produttività è in costante
diminuzione da oltre mezzo secolo.
Che cos’è la produttività dell’istruzione?
Una definizione informale ma intuitivamente
chiara è la seguente: la produttività è l’inverso del numero di anni necessari
per raggiungere un determinato grado di organizzazione mentale. Supponiamo di
assumere, come metro, il livello di organizzazione mentale – conoscenze,
padronanza del linguaggio, capacità logiche – di un diplomato di terza media
del 1962, l’ultimo anno prima dell’introduzione della scuola media unica. A lui
erano occorsi otto anni di studio per raggiungere quel livello. Quanti ne
occorrono oggi per raggiungere un livello comparabile?
Qui la risposta si fa più complicata,
perché dipende da tante cose: quali tipi di liceo si sono frequentati, in quali
facoltà/dipartimenti ci si è laureati, in quale zona d’Italia si è studiato (il
livello medio effettivo di istruzione al Sud è molto più basso di quello del
Nord e del Centro). Ognuno avrà la sua risposta, la mia ad esempio è che per
ottenere quel livello di organizzazione mentale oggi siano necessari da un
minimo di cinque anni in più (se si è frequentato un buon liceo classico) a un
massimo di tredici anni in più (se occorre addirittura un dottorato di ricerca
per recuperare pessimi studi precedenti). E se proprio devo buttare lì un
numero, giusto per fissare le idee, direi che otto anni in più, rispetto agli
otto anni necessari a conseguire la licenza media, è già una stima piuttosto
benevola dell’abbassamento della produttività dell’istruzione intervenuto negli
ultimi cinquant’anni, dalla fine degli anni sessanta a oggi. Perché, se mi baso
sulla mia esperienza di docente universitario, non posso non constatare che la
padronanza della lingua italiana (tuttora richiesta dalla maggior parte dei
concorsi pubblici), che eviterebbe ai docenti di impegnarsi in defatiganti
correzioni ortografiche e sintattiche delle tesi di laurea, è presente in una
minoranza dei laureati, mentre ancora a metà degli anni sessanta era per così
dire “automaticamente incorporata” nel titolo di terza media inferiore.37
Insomma: in mezzo secolo la produttività dell’istruzione è, come minimo,
dimezzata.
Ma quali sono le conseguenze di questi
processi?
Sfortunatamente, di quelle meno importanti
molto si parla, su quelle importanti si preferisce sorvolare. Fra le
conseguenze meno importanti, una delle più citate è l’inflazione dei titoli di
studio, ovvero il fatto che per fare certi mestieri e professioni siano oggi
richiesti titoli di studio più elevati, quindi più anni di studio, con
conseguenti maggiori spese per le famiglie. Studiatissima dai sociologi,38
l’inflazione dei titoli di studio e la conseguente inflazione delle aspettative
indotte dalla scuola di massa vengono accusate soprattutto di non aver aumentato
la mobilità sociale e di avere creato un esercito di giovani frustrati e
disillusi.
Meno studiate e denunciate sono però altre
conseguenze. La prima è che la pressione a promuovere ha enormemente
infiacchito la capacità dei giovani di affrontare compiti difficili, di
concentrarsi, di memorizzare conoscenze. La seconda conseguenza è che sia la
lunghezza degli studi (con i suoi costi), sia l’abbassamento degli standard,
hanno finito per danneggiare i ceti popolari, riducendone anziché alzandone le
chances di mobilità sociale: la scuola lunga e di bassa qualità è infatti un
enorme regalo ai ceti alti, che grazie al loro denaro possono permettersi di
far studiare i figli fino a tarda età, e grazie al loro potere e alla loro rete
di conoscenze possono controbilanciare l’assenza di un’istruzione adeguata.
Ma la conseguenza di gran lunga più
importante dell’abbassamento dell’asticella è ancora un’altra. La scuola senza
qualità39 ha generato un fenomeno nuovo, che è anche il secondo pilastro della
società signorile di massa: la disoccupazione volontaria. Vediamo come,
attraverso quale concatenazione di cause e di conseguenze, ci si arriva. Il
primo passo (1962) è la riforma dell’istruzione postelementare, un tempo
suddivisa fra “avviamento professionale” e scuola media. Con l’istituzione
della scuola media unica, imponendo a tutti un corso di studi non
professionalizzante (qual era invece il vecchio avviamento), si instaura un
primo importantissimo meccanismo: a quattordici anni, nessuno è in grado di
fare un lavoro minimamente qualificato, ma in compenso chiunque può accedere a
qualsiasi tipo di scuola secondaria: licei classici e scientifici, istituti
tecnici e professionali, scuola magistrale e liceo artistico. Si affievolisce
così l’idea che, per fare certi tipi di studio, sussistano dei prerequisiti,
come aver avuto una istruzione scientifico-umanistica per frequentare un liceo,
e una istruzione tecnico-professionale di base per proseguire lungo un percorso
di quel tipo. Il colpo di grazia all’idea dei prerequisiti, comunque, arriva
sette anni dopo (1969), con la liberalizzazione degli accessi universitari. Ora
chiunque può aspirare a qualsiasi tipo di studi universitari, quale che sia il
diploma di scuola secondaria conseguito e quale che sia la votazione con cui lo
ha conseguito.
Ma siamo solo all’inizio. Di fronte alle
riforme del 1962 e del 1969, le istituzioni scolastiche non stanno certo a
guardare. Investite da masse di nuovi studenti, bombardate dal donmilanismo
dilagante (Lettera a una professoressa è del 1967), secondo cui la scuola
dell’obbligo non può bocciare, investite dalla contestazione studentesca, che
nelle università esige il diciotto politico (ma talora anche il ventisette o il
trenta), le istituzioni si adattano. La maggior parte dei docenti, nelle scuole
e ancor più nelle università, comincia ad abbassare gli standard,40 e continua
a farlo per decenni. Io stesso devo ammettere: se oggi pretendessi dai miei
studenti, non dico quel che i miei docenti pretendevano da me, ma quello che io
stesso pretendevo anche solo venticinque anni fa, non riuscirei a promuoverne
più di uno su dieci.
Di qui una conseguenza cruciale: poiché i
percorsi di studio sono divenuti molto più facili, e i pezzi di carta fioccano,
si estingue poco per volta sia l’idea che lo studio comporti impegno e
sacrificio, sia l’idea che la scelta di una scuola o di un’università debba
anche essere oculata, ovvero commisurata alle proprie forze e alla propria
determinazione. Del resto è la semplice osservazione della realtà che sospinge
in questa direzione: se bene o male la maggioranza degli iscritti ce la fa a
diplomarsi e a laurearsi, non sembra esservi motivo per chiedersi se si è
adatti a un certo percorso. E se il certificato alla fine lo si ottiene, non
sembra esservi motivo per pensare di non essere all’altezza di svolgere il
mestiere o professione cui quel certificato rimanda.
Qui però interviene il passaggio cruciale.
Mentre le istituzioni educative si sono adattate, né le imprese né il mercato
hanno fatto altrettanto. Anche oggi, e nonostante qualche inquietante
eccezione, per svolgere determinati mestieri (in proprio o alle dipendenze), il
fatto di averne la capacità ancora un po’ conta. Per fare il magistrato,
l’avvocato, il funzionario, il vigile, ci sono prerequisiti minimi, che i
pubblici concorsi si premurano di verificare. Può così accadere che, con una
laurea in giurisprudenza in tasca, nessuno dei concorrenti arrivi all’orale di
un concorso da funzionario di settimo livello perché, ahimè, l’esito degli
scritti non lascia scampo. Lasciamo la parola al presidente della commissione
esaminatrice:
Purtroppo
errori e inesattezze erano così evidenti che non è stato possibile ammettere
nessun candidato. Siamo stati sorpresi non solo dall’impreparazione dei
candidati su alcuni argomenti, ma dagli errori di ortografia e sintassi, cose
che si dovrebbero imparare alle elementari, e invece, dopo una laurea, non sono
ancora state assimilate.
Né si tratta solo di capacità e conoscenze,
ma anche di consapevolezza che un lavoro è – appunto – un lavoro, qualcosa che
comporta di sacrificare una parte del proprio tempo e, in alcuni casi, richiede
un’elevata dose di flessibilità negli orari. È noto, ad esempio, che in molte
città italiane del Nord, orari, ferie e weekend liberi sono le prime richieste
che gli aspiranti a un posto di lavoro formulano a chi li dovrebbe assumere.
L’aneddotica in proposito è impressionante, specie nel settore della
ristorazione, in cui ovviamente sono richiesti orari e giorni particolari (un
ristorante lavora prevalentemente la sera, e non può certo chiudere il venerdì
e il sabato). Giusto per dare un’idea, riporto alcuni passaggi di una
intervista rilasciata a Repubblica42 da Patrick Ricci, pizzaiolo tra i migliori
d’Italia, che ha un locale a San Mauro Torinese e in otto mesi non è riuscito a
coprire un posto da cameriere, per cui cercava diplomati con meno di
trent’anni. Dopo aver rivelato, con sorpresa che spesso a chiamare al telefono
per informazioni non sono i giovani direttamente interessati bensì le mamme,
continua così:
Ce
ne sono alcune [mamme] che mi hanno fatto delle richieste assurde. Una mi ha
chiesto se il figlio fosse obbligato a venire tutti i giorni lavorativi, o se
invece potesse lavorare saltuariamente o fare giornate più corte perché non era
abituato a così tante ore di lavoro. Un’altra mi ha detto stizzita che non
aveva messo al mondo un figlio per farlo lavorare di sera. Ma parliamo di sei
giorni alla settimana per un totale di quaranta ore.
E
così prosegue:
C’è
chi chiede eccezioni sull’orario, di arrivare un po’ più tardi ad esempio. O
prima. O anche di non lavorare nel weekend o nei festivi, giorni in cui in
un’attività di ristorazione c’è più affluenza. Un giovane voleva stare a casa
il sabato perché la sua ragazza altrimenti si incazza. Una ragazza mi ha
chiesto di poter portare con sé il figlio e di lasciarlo in sala durante il
servizio perché non si fida di una baby-sitter, un’altra che il venerdì sarebbe
dovuta arrivare più tardi perché ogni settimana quel giorno va dal
parrucchiere.
Per
poi concludere amaramente:
Sto
capendo come si consideri ormai il lavoro nel settore della ristorazione come
un ripiego, una possibilità di arrotondare o di opportunità stagionali e non
una professione [...]. Abbiamo bisogno di una persona fissa e non la troviamo.
Ma siamo così sicuri che manchi proprio tanto il lavoro e che ci sia tutta
questa volontà di lavorare?
Non
si potrebbe spiegare meglio di così, credo, perché tanti posti di lavoro, per
quanto ben remunerati, restano scoperti o vengono occupati da immigrati.
Ed eccoci al punto. L’abbassamento degli
standard non si è limitato a ridurre la produttività delle istituzioni
educative, a danneggiare i ceti popolari, a mettere in difficoltà i datori di
lavoro, ma ha creato un gigantesco fenomeno sociale nuovo: la disoccupazione
volontaria, specie giovanile.
Per disoccupazione volontaria si intende la
condizione di chi non lavora non già perché non trova alcun lavoro, bensì
perché non è disposto ad accettare i lavori che trova, o che potrebbe trovare.
Per dirla con Elsa Fornero, già a suo tempo massacrata per averlo notato: i
giovani italiani non trovano lavoro anche perché sono un po’ troppo choosy.
È subito il caso, a questo punto, di
sgombrare il campo da un possibile equivoco. Il fenomeno della disoccupazione
volontaria non è interessante nei casi estremi (o meglio banali in quanto
estremi), come il laureato in architettura che non accetta di spaccarsi la
schiena sotto il sole di agosto per raccogliere pomodori a 3 euro l’ora. O la
commessa che rifiuta un lavoro in nero, o con un salario sensibilmente inferiore
ai minimi contrattuali. O il giovane che non intende firmare un
contratto-capestro nel settore del delivery, il vasto mondo in espansione delle
consegne a domicilio.
No, la disoccupazione volontaria comincia a
essere un fenomeno sociologicamente interessante quando un lavoro viene
rifiutato non perché la proposta è palesemente irricevibile (come nei tre
esempi precedenti), ma in quanto ritenuto non all’altezza delle proprie
capacità, del proprio talento, o semplicemente degli standard di reddito e di prestigio
che si ritengono adeguati ai propri studi. Credo sia stato Pierre Bourdieu il
primo, negli anni settanta, ad attirare l’attenzione sul curioso fenomeno per
cui nella società del benessere, caratterizzata dall’istruzione di massa,
all’individuo diventa possibile, per non dire naturale, sdoppiarsi fra un finto
sé – che accetta compromessi e si accontenta di sbarcare il lunario con il
lavoro che trova – e il proprio vero sé, che si pensa addirittura protagonista
di un’altra vita, in cui fa un’altra professione, anzi la vera professione che
gli compete, l’unica all’altezza dei suoi meriti e dei suoi sogni.
[…] Proprio perché, per decenni e decenni,
hanno continuato a rilasciare certificati che nulla garantiscono, la scuola e
l’università hanno reso possibile, a milioni di giovani e meno giovani,
credersi in possesso di abilità e talenti che il mondo del lavoro, meno
idealista e superficiale di quello della cultura, non sempre scorgeva, e meno
che mai si sognava di riconoscere.
Ma tutto questo, da solo, non avrebbe
portato a quello cui assistiamo, ossia alla formazione di un esercito di
disoccupati volontari, se accanto alla demolizione della scuola non avesse
agito l’altra potentissima forza che ha cambiato la condizione e le preferenze
dei cittadini italiani: l’aumento del benessere e della ricchezza, di cui
abbiamo parlato più sopra. Un aumento che non è avvenuto attraverso una
crescita corrispondente della capacità produttiva, della produttività e del
prodotto, bensì attraverso la dilatazione del debito pubblico che dal 1965 in
poi, ma specialmente nel ventennio 1975-1995, ha regalato agli italiani più
reddito di quanto ne veniva prodotto.
Questa anomalia, tempestivamente segnalata
dagli osservatori della realtà italiana più coraggiosi,44 assume dimensioni
sempre più abnormi nel corso degli anni settanta e ottanta, ed è per molti
versi all’origine delle difficoltà odierne dei giovani. È in quegli anni,
infatti, che si producono i tre macigni contro cui cozza la gioventù attuale:
(a) i redditi concessi dalle imprese e
dalla pubblica amministrazione sono in linea con gli standard europei, ma
eccessivi rispetto alle capacità produttive dell’Italia;
(b) i titoli di studio rilasciati dalla
scuola e dall’università sono eccessivi rispetto alle capacità e alle conoscenze
effettivamente trasmesse;
(c) la scolarizzazione di massa moltiplica
il numero di aspiranti a posizioni sociali medio-alte, ma il numero di tali
posizioni resta sostanzialmente invariato.
È da questi processi che deriva la speciale
condizione della “classe disagiata”. Che può aspirare a redditi elevati e a
posizioni di prestigio perché i titoli rilasciati da scuola e università
certificano la legittimità delle sue aspirazioni. E può permettersi di
rifiutare le offerte di lavoro che percepisce come inadeguate perché la
generazione dei padri ha accumulato una quantità di ricchezza senza precedenti.
Senza quella riserva di valore, fatta di
case, depositi bancari, strumenti finanziari, la scelta di non lavorare
poggiando sul reddito di chi lavora sarebbe stata semplicemente inconcepibile.
Senza decenni di risparmio dei padri l’Italia non avrebbe il record europeo del
numero di NEET, ossia di giovani che non lavorano, non studiano, non sono
impegnati in alcun percorso di formazione (NEET sta per: Not in employment,
education or training). in Italia i NEET sono oltre il 30% dei giovani fra
venticinque e ventinove anni (quasi uno su tre), contro il 18.7% della Francia,
il 13.7% del Regno Unito, l’11.2% della Germania, il 7.4% della Svizzera.
Persino la Grecia e la Spagna, due paesi afflitti
da tassi di disoccupazione giovanile
altissimi, stanno meno peggio di noi, con il 29.5% (Grecia) e il 20.6% (Spagna)
di NEET.
Difficile non collegare questo triste
primato ai due primi pilastri su cui poggia la società signorile di massa:
decenni di sacrifici e di risparmi dei padri, che hanno di molto accresciuto la
ricchezza accumulata, decenni di smantellamento delle istituzioni educative,
che hanno consentito alle aspirazioni giovanili di crescere a dispetto del declino
delle capacità effettive.45 La disoccupazione volontaria, di cui i NEET sono la
manifestazione più evidente, è il prodotto naturale di questi processi.
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