3.
Fenomenologia del consumo signorile
Ma quali sono le manifestazioni più
significative del consumo signorile?
Di tre di esse abbiamo già parlato
diffusamente, perché entrano nella definizione di società signorile di massa:
casa di proprietà, automobile, vacanze riguardano più del 50% delle famiglie.
I viaggi e le vacanze, in particolare,
nella duplice forma di vacanze estive lunghe, e ripetute vacanze brevi nei
weekend, hanno avuto una progressione formidabile negli ultimi venti anni.
Ancora nella seconda metà degli anni novanta riguardavano poco meno del 50%
degli italiani, ora coinvolgono circa due italiani su tre.
Purtroppo una ricostruzione rigorosa
dell’evoluzione delle vacanze degli italiani è resa impossibile dalle continue
ridefinizioni dei concetti di vacanza breve e vacanza lunga, e dai numerosi
cambiamenti intercorsi nelle tecniche di raccolta dei dati. Combinando fra loro
le varie indagini ISTAT, e raccordando i vari spezzoni di serie storiche
disponibili, possiamo tuttavia tentare un abbozzo.
Negli anni cinquanta e sessanta le vacanze,
intese come periodi di almeno qualche giorno lontani da casa e dal lavoro,
riguardavano una piccola minoranza della popolazione: meno del 20% negli anni
del miracolo economico, meno del 30% alla fine degli anni sessanta. Tra gli
anni settanta e gli anni novanta la popolazione che usufruisce delle vacanze
aumenta progressivamente fino a sfiorare il 50%, senza tuttavia raggiungerlo.
La vera impennata si ha nel primo decennio degli anni duemila, con l’aumento dei
viaggi all’estero e l’esplosione delle vacanze brevi, come weekend lunghi e
viaggi di pochi giorni al di fuori delle canoniche ferie estive. Nel decennio
che va dal 1998 al 2008 le vacanze lunghe crescono del 22%,
portando finalmente
oltre il 50% il numero di italiani che possono permettersi una vera vacanza, ma
le vacanze brevi crescono ancora di più (+48.6%), dando luogo a un
fenomeno sociale nuovo: la frequente interruzione della routine lavorativa
mediante piccole vacanze, con due-tre pernottamenti fuori casa, anche durante
le stagioni un tempo disertate dai vacanzieri, ovvero in periodi diversi da
giugno-settembre (vacanze estive) e dicembre-gennaio (vacanze di Natale).
Dopo il 2008, in concomitanza con la crisi,
inizia invece una stagione di ripiegamento, caratterizzata da un calo
complessivo delle vacanze e da una drastica contrazione del peso delle vacanze
brevi a favore di quelle lunghe. Questa fase di contrazione dura fino al
2014-2015, quando il trend delle vacanze torna a essere positivo sia per quelle
lunghe sia per quelle brevi.
Stabilire oggi quanti siano gli italiani
che vanno in vacanza almeno una volta l’anno risulta molto difficile, sia per
il particolare impianto dell’indagine ISTAT, sia per le numerose
discrepanze fra dati ISTAT e sondaggi, nonché dei sondaggi fra loro.
Una valutazione prudente e di larga massima è che il numero di cittadini
italiani che vanno in vacanza almeno una volta l’anno possa essere dell’ordine
di due su tre (un valore molto elevato se si considera il peso altissimo degli
anziani nella popolazione italiana), con una tendenza all’aumento fra il
2018 e il 2019.
La stessa formidabile progressione delle
vacanze si accompagna ad altri fenomeni e tipi di consumo, che ora vedremo uno
per uno.
Il
food
Il food, termine che da pochi anni ha
sostituito il più banale “cibo”, è ormai ubiquo nella nostra vita. Tutte le
principali reti TV sono imbottite di programmi sulla preparazione di
ogni genere di dolci e pietanze, con chef più o meno stellati, concorrenti più
o meno sconosciuti, che ci insegnano a preparare piatti memorabili, nostrani ed
etnici, con cui potremo stupire i nostri parenti, amici e conoscenti. Cuochi e
master chef contendono la palma della celebrità a calciatori, cantanti e star
del cinema.
Parallelamente, le nostre città vedono una
espansione senza precedenti di ogni specie di locali che dispensano cibo. Non
solo i tradizionali e superati bar, ristoranti e pizzerie, ma yogurterie,
focaccerie, piadinerie, sushi bar, kebaberie. Per ogni esercizio storico che chiude,
sia esso un negozio di abbigliamento, di elettrodomestici o di cancelleria,
possiamo star certi che al suo posto sorgerà qualcosa che dispensa cibo. E se
per avventura davanti al nuovo locale vi sono posti auto, altrettanto
infallibilmente possiamo prevedere che nel giro di poco quegli spazi saranno
sostituiti da tavolini all’aperto, con grande beneficio delle casse del comune
e grande scorno di chi non sa più dove parcheggiare. Altrettanto inarrestabile
è l’espansione dei locali che, dalle 18 alle prime ore dell’alba, permettono ai
giovani di cenare (anzi apericenare), incontrarsi, consumare cibi e bevande.
Il dinamismo del settore è confermato
dall’ultimo rapporto FIPE (Federazione italiana dei pubblici esercizi) che
rivela che nel decennio della crisi sono saliti sia l’occupazione (+17%), sia
i consumi, a differenza di quanto accaduto in altri paesi europei. Secondo
il rapporto FIPE le famiglie italiane nel 2017 hanno speso ben 83
miliardi di euro per mangiare fuori casa, a fronte di una diminuzione della
spesa alimentare in casa. Gli italiani che abitualmente pranzano fuori casa
sono circa 13 milioni (un italiano su quattro).
Un fenomeno tanto più significativo se si
pensa che, fino a non molti anni fa, portarsi il cibo da casa era la modalità
principale di mangiar fuori, non solo fra i ceti popolari. Un costume di cui è
testimone anche la lingua, che abbonda di termini per designare i contenitori
del cibo, talora precucinato, portato da casa: “baracchino” era il termine
tipico degli operai in Piemonte, che diventa “schiscetta” in Lombardia,
“gavetta” o “marmitta” nell’esercito. Oggi potersi permettere di pranzare in un
locale pubblico, bar o ristorante che sia, sembra divenuto un piccolo simbolo
di status, tanto più appetibile perché reso economico da ticket-restaurant,
convenzioni, menu a prezzo fisso. Sul piano simbolico, mangiar fuori, o
“all’aperto” (nella bella stagione) significa anche adottare uno stile da
turista, con il corredo di libertà e spensieratezza che al turista è associato.
Mentre portarsi il cibo da casa, inevitabilmente, significa adottare uno stile
da lavoratore, in un’epoca in cui lo status dipende più dal consumo esibito che
dalla professione.
Fitness
e cura di sé
Altrettanto vivace, in questi anni, sembra
essere stata l’espansione del settore della cura di sé, o del ben-essere. Dico
“sembra” perché i confini di questo settore sono inevitabilmente mal definiti,
e i dati affidabili scarseggiano. A titolo indicativo e non esaustivo possiamo
farvi rientrare: palestre, saune, spa, terme, centri massaggi, centri di
bellezza, fitness club, centri yoga, gruppi di meditazione,
gruppi salutisti, “tribù alimentari”, personal trainer, chiropratici,
osteopati. Anche qui nella duplice veste di luoghi reali e persone fisiche, ma
anche di piattaforme Internet e dispensatori di ricette e consigli online.
Fra i pochi dati che possono darci un’idea
della dinamica del settore della cura di sé vi sono quelli del fitness. Da una
delle rare fonti di informazioni quantitative, la fiera Rimini Wellness,
apprendiamo che nel 2004 il pubblico dei centri fitness ammontava a circa 5
milioni di persone, nel 2012 era salito a quasi 8, mentre oggi si aggira sui 18
milioni, più del triplo di quindici anni fa. Il numero di palestre, in crescita
sia prima, sia dopo la recessione del 2008-2012, è il più alto d’Europa. Quanto
al fatturato, si aggira sui 10 miliardi, quasi metà della spesa totale
annualmente dedicata in Italia alle attività sportive.
Ma forse l’indicatore più interessante
delle tendenze del settore è quello della chirurgia estetica e dei prodotti
antiaging, come l’acido ialuronico. Secondo l’Istituto internazionale di
medicina estetica, fra il 2010 e il 2017 (primo e ultimo anno per cui si hanno
dati) gli interventi in Italia sono triplicati, passando da 320.000 a 953.000,
con un tasso di crescita medio annuo del 16.8%.
Quanto all’acido ialuronico non esistono
dati sulla sua penetrazione nel mercato della cura di sé e delle terapie antinvecchiamento,
ma possiamo farcene un’idea a partire dalla dinamica del fatturato delle
aziende leader del settore, come la IBSAfarmaceutici Italia (con due
stabilimenti nel milanese) e il Fidia
Pharma Group, multinazionale della ricerca
con sede principale ad Abano Terme. La prima, fra il 2001 e il 2018 è cresciuta
al ritmo medio del 17.4%, la seconda si è rafforzata attraverso una serie di
acquisizioni e un’intensa attività di ricerca (oltre mille brevetti depositati,
di cui seicento proprio a copertura dell’acido ialuronico).
Al
servizio delle famiglie
Vacanze, cibo, cura di sé non sono certo
gli unici segnali della deriva signorile dell’Italia. Altrettanto importante è
la rapida crescita dei servizi cui le famiglie ricorrono negli ambiti più
diversi, per alleggerire il lavoro domestico ma talora semplicemente per svago:
l’ordinazione di articoli vari su Amazon sta diventando anche un modo di
rilassarsi e occupare il tempo.
Gli acquisti online e l’ordinazione di
cibo, consegnato a domicilio dai rider, hanno avuto una crescita molto
significativa. Secondo l’ultimo rapporto FIPE, fra il 2017 e il 2018 il
mercato del cosiddetto online food delivery ha aumentato il fatturato
del 69% (in un solo anno!), ed è destinato a crescere ulteriormente nel 2019.
La crescita della domanda di cibo fresco consegnato a domicilio si traduce in
nuovi occupati, in gran parte giovani o studenti, sempre meno disponibili a
lavorare con orari rigidi, e particolarmente attratti dalla possibilità –
offerta dai contratti di food delivery – di scegliere il momento in cui
lavorare. Un recente servizio su Delivery Food, rivela che in meno di tre mesi,
fra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, l’occupazione è aumentata del 15%.
La spesa e la preparazione del cibo non
sono certo le uniche attività da cui le famiglie, e specialmente i loro membri
adulti, cercano di alleggerirsi. Accanto alla consegna di cibo e prodotti vari,
in questi anni hanno conosciuto un notevole sviluppo vari tipi di professioni
di servizio diretto alle famiglie.
Alcune sono difficilmente quantificabili,
anche perché svolte quasi completamente in nero: baby-sitter, che permettono ai
genitori di aumentare la loro libertà, sia nella vita ordinaria, sia nei
periodi di vacanza; dog-sitter e cat-sitter, senza i quali certi viaggi e
vacanze sarebbero impossibili, o molto meno rilassanti; ripetizioni per i figli
non-studianti, che una generazione di genitori indulgenti preferisce affidare
alle cure di specialisti del recupero.
Quest’ultimo tipo di servigi pagati dalle
famiglie meriterebbe una speciale riflessione. Le poche indagini disponibili
indicano che il giro di affari delle lezioni private si aggira sugli 800
milioni l’anno (quasi interamente invisibili al fisco), e che a usufruirne sono
circa metà degli studenti delle scuole secondarie superiori. Come non vedere in
questa differenza, fra le famiglie che possono permettersi ripetizioni private
e tutte le altre, una gravissima fonte di diseguaglianza? Come non vedere che
il ricorso alle lezioni private, con la rinuncia dei genitori a seguire i figli
negli studi, e la rassegnazione degli insegnanti di fronte alla ferma volontà
di non studiare di tanti allievi, sono un doppio fallimento degli adulti?
Ma andiamo oltre. Fra i servizi alle
famiglie non ci sono solo le consegne a domicilio e i servizi specializzati o
settoriali di “accuditori” vari e pedagoghi. Fra i servizi ci sono anche
quelli prestati da persone il cui mestiere consiste precisamente nel
servire una o più famiglie con compiti perlopiù sgradevoli, faticosi o
stressanti, e che in quanto tali abbiamo a suo tempo incluso
nell’infrastruttura paraschiavistica della società signorile di massa.
Mi riferisco ovviamente al personale
domestico nell’accezione tradizionale, in larga prevalenza femminile, ma anche
a una categoria relativamente nuova di addetti alla cura dei membri della
famiglia: le badanti, perlopiù straniere dei paesi dell’Est. Abbiamo già
visto che l’ordine di grandezza di questi due segmenti della popolazione (colf
+ badanti) è valutato intorno a 2 milioni di persone, e che il numero di
famiglie che hanno una colf o una badante è presumibilmente compreso fra il 15
e il 25%.
Ma la cosa più interessante è l’andamento
del settore nel tempo. Il peso complessivo del lavoro domestico regolare (o
comunque registrato dai censimenti) negli anni cinquanta era di circa 80
domestici ogni 10.000 abitanti. Nel trentennio successivo, dal 1961 al 1991, si
era dimezzato, portandosi intorno a 40. Dal 1991, però, anche grazie alle prime
ondate migratorie, non fa che crescere fino al 2012, dove raggiunge la vetta,
intorno a quota 170 ogni 10.000 abitanti: più del quadruplo rispetto al 1991, e
più del doppio rispetto agli anni cinquanta.
Dopo il 2012, però, le cose cambiano
sensibilmente. Aumenta il peso della componente italiana del lavoro domestico,
ma soprattutto cambia drasticamente la composizione fra colf e badanti. Nel
giro di pochissimi anni, le badanti – che prima della recessione del
2009 coprivano una piccola quota del lavoro domestico (circa il 17%) –
sono arrivate a sfiorare il 50% del totale.
Quel che sembra emergere, dal complesso di
queste tendenze, è un drastico mutamento del modo in cui i membri delle
famiglie massimizzano il benessere familiare o, per dirla con Gary Becker, un cambiamento
tecnologico nella funzione di produzione famigliare, probabilmente anche in
vista di un contenimento dei costi. I cardini di questo cambiamento paiono
essere soprattutto tre.
Il primo è un utilizzo senza precedenti di
sconti, promozioni, saldi, supersaldi, svendite, ora anglicizzate in “outlet” e
“black Friday”. Il secondo è la esternalizzazione di funzioni come gli acquisti
(sempre più effettuati online) e la preparazione del cibo (sempre più
consegnato a domicilio), con conseguente minore ricorso al lavoro delle colf.
Il terzo, forse il più importante, è la delega del lavoro di cura degli anziani
alle badanti, in gran parte straniere. Una vera e propria scelta, visto che la
crescita del numero di badanti è enormemente superiore alla crescita del numero
di anziani: +30% l’incremento delle badanti negli ultimi cinque anni, +10%
quello degli ultra sessantacinquenni.
Internet
e dispositivi tecnologici
Secondo i dati ISTAT, nel 2018 il
livello di diffusione dei beni tecnologici presso le famiglie italiane vede al
primo posto la TV(96.8%), seguita da cellulare (95.6%), personal computer
(65.9%), modem (49.2%), lettore DVD (41.2%). La maggior parte
dei cellulari (circa il 76%) sono smartphone.
Il numero di famiglie che posseggono una
connessione Internet a banda larga da casa è ancora sotto il 75%, un dato
inferiore alla media europea. Soprattutto, diverso è quel che facciamo sul web:
poco usato per gestire conti correnti, informarsi e generare contenuti,
Internet è usatissimo per giocare, condividere video e partecipare alle
discussioni sui social.
Dove l’Italia pare primeggiare è nel
numero di utenti unici di un telefono cellulare. Secondo il rapporto Digital
2018 in nessun paese del mondo, eccetto Hong Kong e la Corea del Sud, la
diffusione dei cellulari raggiunge il livello dell’Italia. Anche qui, al
di là della diffusione, il dato importante è che cosa ne facciamo.
Secondo il report Digital 2019, giunto alla
sua ottava edizione, gli italiani connessi a Internet (in massima parte via
smartphone) sono quasi 55 milioni, ossia
nove su dieci, di cui ben 35 milioni attivi sui social. Nella fascia
sedici-sessantaquattro anni il tempo totale di connessione medio è di sei ore
al giorno, così suddiviso:
Come si vede dalla tabella, più del 90% del
tempo è usato in attività ludiche. Un punto che il report non manca di
sottolineare:
È evidente come l’Italia sia un paese i cui
utenti Internet e in particolare social
cerchino svago e divertimento, su molte piattaforme diverse (7.4
in media) e per molto tempo (6 ore online, quasi 2 sui social, ogni giorno).
Una particolarità, questa dell’Italia che
usa Internet essenzialmente come strumento di evasione, che gli operatori
economici conoscono perfettamente e sono ben felici di poter sfruttare.
Prosegue infatti il report:
Per le marche sarà (e sarà sempre più)
fondamentale in primis conoscere queste persone al fine di apprenderne i
pattern comportamentali in continua evoluzione, e quindi raggiungerle con un
approccio strategico alla distribuzione che sia in grado di soddisfare le
esigenze degli utenti stessi: contenuti ed esperienze che stimolino
conversazione e non vengano percepiti come interruzione.
Difficile immaginare un più pertinente e
accurato aggiornamento del concetto di leisure class e
di conspicuous leisure, i due concetti (“classe agiata” e “tempo libero
opulento”) introdotti da Veblen nella sua celebre opera del 1899 – Theory
of The Leisure Class – per descrivere la “classe agiata” (allora
certamente non di massa) e il dispendio di tempo libero come meccanismo di
ostentazione di status. Con la sola, fondamentale, differenza che ora la
sovrabbondanza di tempo libero dal lavoro non è più il privilegio dei pochi –
la classe agiata che consuma senza lavorare – ma è penetrato nella vita
quotidiana della maggioranza degli italiani.
Un esito che diventa ancora più tangibile
se le cifre precedenti vengono messe a confronto con il tempo di lavoro: in una
giornata-tipo, a fronte di circa sei ore su Internet e quasi tre davanti
alla TV, il tempo di lavoro medio non raggiunge le tre ore.
Il
consumo di droghe
I dati sul consumo di droghe e sostanze
psicoattive, legali e non, sono ovviamente incerti, stante la difficoltà di
monitorare un fenomeno che è tuttora stigmatizzato. Su un punto, tuttavia, non
vi sono dubbi: l’accesso a tali sostanze non è più riservato all’élite, come è
stato fino a circa mezzo secolo fa, ma ha ormai assunto caratteri di massa
(Nencini 2017).
Le due fonti principali di informazione
sono la Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze
in Italia e, a livello comunitario, i report dell’agenzia europea per il
monitoraggio delle droghe e delle tossicodipendenze (EMCDDA).
Qual è il quadro che risulta da queste
indagini?
Il primo elemento che emerge è che a fronte
di un trend discendente del consumo di sigarette e di alcol durante i pasti,
negli ultimi anni appaiono in sensibile aumento:
– il consumo di alcol fuori dei pasti,
compresi gli usi abnormi (binge drinking);
– il consumo di cannabis e affini;
– il consumo di cocaina e affini;
– il consumo di eroina, più o meno tagliata
con altre sostanze;
– il consumo di droghe sintetiche, sia
illegali, sia legali (le cosiddette NPS).
Il grado di diffusione di questi
comportamenti di consumo, tuttavia, è estremamente differenziato fra i vari
segmenti della popolazione. Binge drinking e cannabis sono più
diffusi fra i giovani che fra gli adulti. Cocaina ed eroina prevalgono fra gli
adulti e i cosiddetti “giovani adulti” (fascia quindici-trentaquattro anni).
Inoltre, in generale, esiste una radicale differenza fra maschi e femmine: le
donne sono sistematicamente sottorappresentate in tutti i consumi rischiosi, e
il loro coinvolgimento è tanto minore quanto più alto è il rischio.
Ma di quante persone stiamo parlando?
Secondo l’ISTAT i comportamenti a
rischio legati all’alcol nel 2018 coinvolgono quasi 8.7 milioni di persone,
pari al 15.9% della popolazione dagli undici anni in su. Il binge
drinking coinvolge 4.1 milioni di persone (7.5%).
Quanto all’uso di stupefacenti, i valori
che spesso vengono citati dalle fonti più disparate vanno presi con grande
cautela, per varie ragioni. Innanzitutto, le stime basate su
autodichiarazioni in questionari anonimi sono ovviamente errate per difetto. In
secondo luogo occorre prestare attenzione alla definizione di utente: un conto
è aver fatto uso di una sostanza almeno una volta nella vita; un conto è averlo
fatto nell’ultimo anno, o nell’ultimo mese; un conto infine è essere un
consumatore abituale o addirittura quotidiano. C’è infine da considerare che il
numero di consumatori dei vari tipi di sostanze non sono direttamente
sommabili, perché sono molti a consumare più di una sostanza.
Se ci chiediamo quante persone hanno
sperimentato una sostanza illegale almeno una volta nella vita, la risposta
(basata sulle autodichiarazioni) è una su tre. Se invece stiamo alla
definizione più comune di consumatore (almeno una volta nell’ultimo anno), dal
33% si scende all’11%, con grandi differenze legate all’età (nella fascia dei
quindici-ventiquattro anni l’uso di sostanze illegali coinvolge un giovane su
quattro).
Secondo l’ISTAT, il numero totale di utenti
si può stimare in almeno 6 milioni di persone per i derivati della canapa
(cannabis e simili), e almeno 2 milioni per le sostanze più pericolose: cocaina
e simili, eroina, sostanze chimiche varie come LSD,
Spice, MDMA(ecstasy) e più in generale le nuove sostanze psicoattive,
immesse sul mercato al ritmo di una alla settimana, e sempre più spesso
acquistate via Internet. È il caso di aggiungere che la cocaina è più diffusa
fra gli adulti che fra i giovani, e che non di rado – specie fra dirigenti,
professionisti, colletti bianchi in genere – il suo consumo
è “controllato”, per non compromettere la normalità quotidiana (Zuffa,
Ronconi 2017).
Il fatturato globale delle sostanze
illegali è dell’ordine di 15 miliardi, un po’ meno di 1 punto
di PIL (il triplo di quel che spendiamo in istruzione). Tenuto conto
che i consumatori di sostanze sono circa 8 milioni, significa che il
consumatore medio spende quasi 2000 euro l’anno in sostanze psicoattive.
Un
popolo di giocatori
In una rassegna del consumo signorile non
può mancare il gioco, tipico attributo e privilegio dei “signori”, da sempre
amanti dei giochi d’azzardo e protagonisti di memorabili certami e battute di
caccia.
Ma quali forme assume il gioco nella realtà
italiana di oggi?
Una prima risposta ce la fornisce il citato
report Digital 2019 parlando del “mondo gaming”: circa il 16% degli utenti
Internet gioca in modalità streaming live (in diretta), l’11% guarda
altri gamersgiocare online, il 5.4% guarda campionati di e-sport.
Un altro aspetto, strettamente connesso, è
dato dall’industria dei videogiochi, fatta di aziende che vendono software e
dispositivi (tipo console, joystick ecc.), ma anche da tutto un mondo, in spettacolare
espansione, fatto di video-sviluppatori indipendenti, spesso supportati dalle
aziende e dai giganti del web (è il caso del programma ID@Xbox 2019 della
Microsoft). I rapporti pubblicati negli ultimi anni
dalla AESVI (Associazione editori sviluppatori videogiochi italiani)
tracciano i contorni di un mercato in rapido sviluppo, con un tasso di crescita
del fatturato che sfiora il 20% all’anno. Secondo l’ultimo rapporto AESVI,
nella fascia da sedici a sessantaquattro anni i videogiocatori sono più del 50%
sia fra i maschi, sia fra le femmine.
La crescita impetuosa di una selva di
giochi, perlopiù elettronici o guardati sul web, non deve farci pensare che il
mondo tradizionale, quello del gioco d’azzardo, con scommesse e vincite in
denaro, sia in regresso.
È vero il contrario. Il gioco d’azzardo,
nelle sue due forme, legale e illegale (entrambe particolarmente diffuse al
Sud), non solo non è diminuito, ma negli ultimi quindici anni è letteralmente
esploso. I dati mostrano in modo chiarissimo che il punto di svolta è stato il
2003-2004 (fig. 12).
Quando si studia l’evoluzione dei
comportamenti di consumo è rarissimo trovare svolte così improvvise e così
radicali. Fra il 1990 e il 2003 la quota dei consumi privati spesa nel gioco
d’azzardo era passata da meno dell’1.5% a poco più del 2%, con una dinamica
lentissima: in tutto meno di 1 punto percentuale in tredici anni. Poi,
improvvisamente, in un solo anno, fra il 2003 e il 2004, un balzo di 1.3 punti,
molto di più della crescita dell’intero tredicennio 1990-2003 (+0.9). Da quel
momento sarà un’escalation, con un’ulteriore accelerazione nel biennio
2011-2012, in piena crisi. Dopo la crisi, salvo una modestissima battuta
d’arresto nel 2013-2014, l’espansione continua, più o meno al ritmo del
decennio anteriore alla crisi. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, oggi gioca d’azzardo
almeno una volta all’anno più di un italiano su tre, e il peso del gioco
d’azzardo sui consumi privati totali è cinque volte quello del 2003.
A che cosa si deve la svolta del 2003-2004?
Probabilmente a un mutamento intervenuto
proprio in quegli anni in un altro settore del gioco, quello dei telequiz e dei
concorsi a premi, che costituiscono una sorta di gioco d’azzardo a costo zero
(si può solo guadagnare).
Nel 2000, su Canale 5, con la conduzione di
Gerry Scotti, decolla il programma Chi vuol essere miliardario?, collocato
in fascia preserale, a ridosso del TG5. Di lì a poco, con il passaggio
all’euro, il programma cambia nome, e diventa Chi vuol essere
milionario? Il successo è immediato e lo share altissimo.
Ma la RAI non sta a guardare. Fra
il 2002 e il 2003, sulla rete ammiraglia della TV pubblica, e sempre
in fascia preserale, decollano due programmi di grandissimo
successo, L’eredità e Affari tuoi, entrambi collocati a ridosso
del TG1, il telegiornale più seguito.
È la miccia che fa esplodere il gioco
d’azzardo pagante. La vista quotidiana di persone comuni, spesso clamorosamente
ignoranti, e comunque quasi sempre del tutto prive di conoscenze approfondite
in qualsiasi campo del sapere, che in pochi minuti – solo in virtù di fortuna e
intuito – possono cambiare la loro vita grazie a vincite milionarie (siamo
appena entrati nell’euro, e le decine di migliaia di euro vengono
istantaneamente convertite in decine di milioni di lire) deve aver convinto
molti che tentare la fortuna sia la strada migliore, forse l’unica, per fare un
passo avanti nella scala sociale.
Un vero paradosso, se si pensa che il gioco
d’azzardo è un fondamentale fattore di aumento delle diseguaglianze economiche.
Per valutarne l’impatto occorrerebbe uno studio approfondito, condotto con
l’ausilio di un modello di microsimulazione, ma un esercizio con poche cifre
basta a illustrare il problema.
Nessun commento:
Posta un commento