domenica 23 febbraio 2020

Luca Ricolfi: La società signorile di massa / 13




3. Fenomenologia del consumo signorile
Ma quali sono le manifestazioni più significative del consumo signorile?
Di tre di esse abbiamo già parlato diffusamente, perché entrano nella definizione di società signorile di massa: casa di proprietà, automobile, vacanze riguardano più del 50% delle famiglie.
I viaggi e le vacanze, in particolare, nella duplice forma di vacanze estive lunghe, e ripetute vacanze brevi nei weekend, hanno avuto una progressione formidabile negli ultimi venti anni. Ancora nella seconda metà degli anni novanta riguardavano poco meno del 50% degli italiani, ora coinvolgono circa due italiani su tre.
Purtroppo una ricostruzione rigorosa dell’evoluzione delle vacanze degli italiani è resa impossibile dalle continue ridefinizioni dei concetti di vacanza breve e vacanza lunga, e dai numerosi cambiamenti intercorsi nelle tecniche di raccolta dei dati. Combinando fra loro le varie indagini ISTAT, e raccordando i vari spezzoni di serie storiche disponibili, possiamo tuttavia tentare un abbozzo.
Negli anni cinquanta e sessanta le vacanze, intese come periodi di almeno qualche giorno lontani da casa e dal lavoro, riguardavano una piccola minoranza della popolazione: meno del 20% negli anni del miracolo economico, meno del 30% alla fine degli anni sessanta. Tra gli anni settanta e gli anni novanta la popolazione che usufruisce delle vacanze aumenta progressivamente fino a sfiorare il 50%, senza tuttavia raggiungerlo. La vera impennata si ha nel primo decennio degli anni duemila, con l’aumento dei viaggi all’estero e l’esplosione delle vacanze brevi, come weekend lunghi e viaggi di pochi giorni al di fuori delle canoniche ferie estive. Nel decennio che va dal 1998 al 2008 le vacanze lunghe crescono del 22%,
portando finalmente oltre il 50% il numero di italiani che possono permettersi una vera vacanza, ma le vacanze brevi crescono ancora di più (+48.6%), dando luogo a un fenomeno sociale nuovo: la frequente interruzione della routine lavorativa mediante piccole vacanze, con due-tre pernottamenti fuori casa, anche durante le stagioni un tempo disertate dai vacanzieri, ovvero in periodi diversi da giugno-settembre (vacanze estive) e dicembre-gennaio (vacanze di Natale).
Dopo il 2008, in concomitanza con la crisi, inizia invece una stagione di ripiegamento, caratterizzata da un calo complessivo delle vacanze e da una drastica contrazione del peso delle vacanze brevi a favore di quelle lunghe. Questa fase di contrazione dura fino al 2014-2015, quando il trend delle vacanze torna a essere positivo sia per quelle lunghe sia per quelle brevi.
Stabilire oggi quanti siano gli italiani che vanno in vacanza almeno una volta l’anno risulta molto difficile, sia per il particolare impianto dell’indagine ISTAT, sia per le numerose discrepanze fra dati ISTAT e sondaggi, nonché dei sondaggi fra loro. Una valutazione prudente e di larga massima è che il numero di cittadini italiani che vanno in vacanza almeno una volta l’anno possa essere dell’ordine di due su tre (un valore molto elevato se si considera il peso altissimo degli anziani nella popolazione italiana), con una tendenza all’aumento fra il 2018 e il 2019.
La stessa formidabile progressione delle vacanze si accompagna ad altri fenomeni e tipi di consumo, che ora vedremo uno per uno.

Il food
Il food, termine che da pochi anni ha sostituito il più banale “cibo”, è ormai ubiquo nella nostra vita. Tutte le principali reti TV sono imbottite di programmi sulla preparazione di ogni genere di dolci e pietanze, con chef più o meno stellati, concorrenti più o meno sconosciuti, che ci insegnano a preparare piatti memorabili, nostrani ed etnici, con cui potremo stupire i nostri parenti, amici e conoscenti. Cuochi e master chef contendono la palma della celebrità a calciatori, cantanti e star del cinema.
Parallelamente, le nostre città vedono una espansione senza precedenti di ogni specie di locali che dispensano cibo. Non solo i tradizionali e superati bar, ristoranti e pizzerie, ma yogurterie, focaccerie, piadinerie, sushi bar, kebaberie. Per ogni esercizio storico che chiude, sia esso un negozio di abbigliamento, di elettrodomestici o di cancelleria, possiamo star certi che al suo posto sorgerà qualcosa che dispensa cibo. E se per avventura davanti al nuovo locale vi sono posti auto, altrettanto infallibilmente possiamo prevedere che nel giro di poco quegli spazi saranno sostituiti da tavolini all’aperto, con grande beneficio delle casse del comune e grande scorno di chi non sa più dove parcheggiare. Altrettanto inarrestabile è l’espansione dei locali che, dalle 18 alle prime ore dell’alba, permettono ai giovani di cenare (anzi apericenare), incontrarsi, consumare cibi e bevande.
Il dinamismo del settore è confermato dall’ultimo rapporto FIPE (Federazione italiana dei pubblici esercizi) che rivela che nel decennio della crisi sono saliti sia l’occupazione (+17%), sia i consumi, a differenza di quanto accaduto in altri paesi europei. Secondo il rapporto FIPE le famiglie italiane nel 2017 hanno speso ben 83 miliardi di euro per mangiare fuori casa, a fronte di una diminuzione della spesa alimentare in casa. Gli italiani che abitualmente pranzano fuori casa sono circa 13 milioni (un italiano su quattro).
Un fenomeno tanto più significativo se si pensa che, fino a non molti anni fa, portarsi il cibo da casa era la modalità principale di mangiar fuori, non solo fra i ceti popolari. Un costume di cui è testimone anche la lingua, che abbonda di termini per designare i contenitori del cibo, talora precucinato, portato da casa: “baracchino” era il termine tipico degli operai in Piemonte, che diventa “schiscetta” in Lombardia, “gavetta” o “marmitta” nell’esercito. Oggi potersi permettere di pranzare in un locale pubblico, bar o ristorante che sia, sembra divenuto un piccolo simbolo di status, tanto più appetibile perché reso economico da ticket-restaurant, convenzioni, menu a prezzo fisso. Sul piano simbolico, mangiar fuori, o “all’aperto” (nella bella stagione) significa anche adottare uno stile da turista, con il corredo di libertà e spensieratezza che al turista è associato. Mentre portarsi il cibo da casa, inevitabilmente, significa adottare uno stile da lavoratore, in un’epoca in cui lo status dipende più dal consumo esibito che dalla professione.

Fitness e cura di sé
Altrettanto vivace, in questi anni, sembra essere stata l’espansione del settore della cura di sé, o del ben-essere. Dico “sembra” perché i confini di questo settore sono inevitabilmente mal definiti, e i dati affidabili scarseggiano. A titolo indicativo e non esaustivo possiamo farvi rientrare: palestre, saune, spa, terme, centri massaggi, centri di bellezza, fitness club, centri yoga, gruppi di meditazione, gruppi salutisti, “tribù alimentari”, personal trainer, chiropratici, osteopati. Anche qui nella duplice veste di luoghi reali e persone fisiche, ma anche di piattaforme Internet e dispensatori di ricette e consigli online.
Fra i pochi dati che possono darci un’idea della dinamica del settore della cura di sé vi sono quelli del fitness. Da una delle rare fonti di informazioni quantitative, la fiera Rimini Wellness, apprendiamo che nel 2004 il pubblico dei centri fitness ammontava a circa 5 milioni di persone, nel 2012 era salito a quasi 8, mentre oggi si aggira sui 18 milioni, più del triplo di quindici anni fa. Il numero di palestre, in crescita sia prima, sia dopo la recessione del 2008-2012, è il più alto d’Europa. Quanto al fatturato, si aggira sui 10 miliardi, quasi metà della spesa totale annualmente dedicata in Italia alle attività sportive.
Ma forse l’indicatore più interessante delle tendenze del settore è quello della chirurgia estetica e dei prodotti antiaging, come l’acido ialuronico. Secondo l’Istituto internazionale di medicina estetica, fra il 2010 e il 2017 (primo e ultimo anno per cui si hanno dati) gli interventi in Italia sono triplicati, passando da 320.000 a 953.000, con un tasso di crescita medio annuo del 16.8%.
Quanto all’acido ialuronico non esistono dati sulla sua penetrazione nel mercato della cura di sé e delle terapie antinvecchiamento, ma possiamo farcene un’idea a partire dalla dinamica del fatturato delle aziende leader del settore, come la IBSAfarmaceutici Italia (con due stabilimenti nel milanese) e il Fidia 
Pharma Group, multinazionale della ricerca con sede principale ad Abano Terme. La prima, fra il 2001 e il 2018 è cresciuta al ritmo medio del 17.4%, la seconda si è rafforzata attraverso una serie di acquisizioni e un’intensa attività di ricerca (oltre mille brevetti depositati, di cui seicento proprio a copertura dell’acido ialuronico).

Al servizio delle famiglie
Vacanze, cibo, cura di sé non sono certo gli unici segnali della deriva signorile dell’Italia. Altrettanto importante è la rapida crescita dei servizi cui le famiglie ricorrono negli ambiti più diversi, per alleggerire il lavoro domestico ma talora semplicemente per svago: l’ordinazione di articoli vari su Amazon sta diventando anche un modo di rilassarsi e occupare il tempo.
Gli acquisti online e l’ordinazione di cibo, consegnato a domicilio dai rider, hanno avuto una crescita molto significativa. Secondo l’ultimo rapporto FIPE, fra il 2017 e il 2018 il mercato del cosiddetto online food delivery ha aumentato il fatturato del 69% (in un solo anno!), ed è destinato a crescere ulteriormente nel 2019. La crescita della domanda di cibo fresco consegnato a domicilio si traduce in nuovi occupati, in gran parte giovani o studenti, sempre meno disponibili a lavorare con orari rigidi, e particolarmente attratti dalla possibilità – offerta dai contratti di food delivery – di scegliere il momento in cui lavorare. Un recente servizio su Delivery Food, rivela che in meno di tre mesi, fra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, l’occupazione è aumentata del 15%.
La spesa e la preparazione del cibo non sono certo le uniche attività da cui le famiglie, e specialmente i loro membri adulti, cercano di alleggerirsi. Accanto alla consegna di cibo e prodotti vari, in questi anni hanno conosciuto un notevole sviluppo vari tipi di professioni di servizio diretto alle famiglie.
Alcune sono difficilmente quantificabili, anche perché svolte quasi completamente in nero: baby-sitter, che permettono ai genitori di aumentare la loro libertà, sia nella vita ordinaria, sia nei periodi di vacanza; dog-sitter e cat-sitter, senza i quali certi viaggi e vacanze sarebbero impossibili, o molto meno rilassanti; ripetizioni per i figli non-studianti, che una generazione di genitori indulgenti preferisce affidare alle cure di specialisti del recupero.
Quest’ultimo tipo di servigi pagati dalle famiglie meriterebbe una speciale riflessione. Le poche indagini disponibili indicano che il giro di affari delle lezioni private si aggira sugli 800 milioni l’anno (quasi interamente invisibili al fisco), e che a usufruirne sono circa metà degli studenti delle scuole secondarie superiori. Come non vedere in questa differenza, fra le famiglie che possono permettersi ripetizioni private e tutte le altre, una gravissima fonte di diseguaglianza? Come non vedere che il ricorso alle lezioni private, con la rinuncia dei genitori a seguire i figli negli studi, e la rassegnazione degli insegnanti di fronte alla ferma volontà di non studiare di tanti allievi, sono un doppio fallimento degli adulti?
Ma andiamo oltre. Fra i servizi alle famiglie non ci sono solo le consegne a domicilio e i servizi specializzati o settoriali di “accuditori” vari e pedagoghi. Fra i servizi ci sono anche quelli prestati da persone il cui mestiere consiste precisamente nel servire una o più famiglie con compiti perlopiù sgradevoli, faticosi o stressanti, e che in quanto tali abbiamo a suo tempo incluso nell’infrastruttura paraschiavistica della società signorile di massa.
Mi riferisco ovviamente al personale domestico nell’accezione tradizionale, in larga prevalenza femminile, ma anche a una categoria relativamente nuova di addetti alla cura dei membri della famiglia: le badanti, perlopiù straniere dei paesi dell’Est. Abbiamo già visto che l’ordine di grandezza di questi due segmenti della popolazione (colf + badanti) è valutato intorno a 2 milioni di persone, e che il numero di famiglie che hanno una colf o una badante è presumibilmente compreso fra il 15 e il 25%.
Ma la cosa più interessante è l’andamento del settore nel tempo. Il peso complessivo del lavoro domestico regolare (o comunque registrato dai censimenti) negli anni cinquanta era di circa 80 domestici ogni 10.000 abitanti. Nel trentennio successivo, dal 1961 al 1991, si era dimezzato, portandosi intorno a 40. Dal 1991, però, anche grazie alle prime ondate migratorie, non fa che crescere fino al 2012, dove raggiunge la vetta, intorno a quota 170 ogni 10.000 abitanti: più del quadruplo rispetto al 1991, e più del doppio rispetto agli anni cinquanta.
Dopo il 2012, però, le cose cambiano sensibilmente. Aumenta il peso della componente italiana del lavoro domestico, ma soprattutto cambia drasticamente la composizione fra colf e badanti. Nel giro di pochissimi anni, le badanti – che prima della recessione del 2009 coprivano una piccola quota del lavoro domestico (circa il 17%) – sono arrivate a sfiorare il 50% del totale.
Quel che sembra emergere, dal complesso di queste tendenze, è un drastico mutamento del modo in cui i membri delle famiglie massimizzano il benessere familiare o, per dirla con Gary Becker, un cambiamento tecnologico nella funzione di produzione famigliare, probabilmente anche in vista di un contenimento dei costi. I cardini di questo cambiamento paiono essere soprattutto tre.
Il primo è un utilizzo senza precedenti di sconti, promozioni, saldi, supersaldi, svendite, ora anglicizzate in “outlet” e “black Friday”. Il secondo è la esternalizzazione di funzioni come gli acquisti (sempre più effettuati online) e la preparazione del cibo (sempre più consegnato a domicilio), con conseguente minore ricorso al lavoro delle colf. Il terzo, forse il più importante, è la delega del lavoro di cura degli anziani alle badanti, in gran parte straniere. Una vera e propria scelta, visto che la crescita del numero di badanti è enormemente superiore alla crescita del numero di anziani: +30% l’incremento delle badanti negli ultimi cinque anni, +10% quello degli ultra sessantacinquenni.

Internet e dispositivi tecnologici
Secondo i dati ISTAT, nel 2018 il livello di diffusione dei beni tecnologici presso le famiglie italiane vede al primo posto la TV(96.8%), seguita da cellulare (95.6%), personal computer (65.9%), modem (49.2%), lettore DVD (41.2%). La maggior parte dei cellulari (circa il 76%) sono smartphone.
Il numero di famiglie che posseggono una connessione Internet a banda larga da casa è ancora sotto il 75%, un dato inferiore alla media europea. Soprattutto, diverso è quel che facciamo sul web: poco usato per gestire conti correnti, informarsi e generare contenuti, Internet è usatissimo per giocare, condividere video e partecipare alle discussioni sui social.
Dove l’Italia pare primeggiare è nel numero di utenti unici di un telefono cellulare. Secondo il rapporto Digital 2018 in nessun paese del mondo, eccetto Hong Kong e la Corea del Sud, la diffusione dei cellulari raggiunge il livello dell’Italia. Anche qui, al di là della diffusione, il dato importante è che cosa ne facciamo.
Secondo il report Digital 2019, giunto alla sua ottava edizione, gli italiani connessi a Internet (in massima parte via smartphone) sono quasi 55 milioni,  ossia nove su dieci, di cui ben 35 milioni attivi sui social. Nella fascia sedici-sessantaquattro anni il tempo totale di connessione medio è di sei ore al giorno, così suddiviso:

Come si vede dalla tabella, più del 90% del tempo è usato in attività ludiche. Un punto che il report non manca di sottolineare:
È evidente come l’Italia sia un paese i cui utenti Internet e in particolare social cerchino svago e divertimento, su molte piattaforme diverse (7.4 in media) e per molto tempo (6 ore online, quasi 2 sui social, ogni giorno).
Una particolarità, questa dell’Italia che usa Internet essenzialmente come strumento di evasione, che gli operatori economici conoscono perfettamente e sono ben felici di poter sfruttare. Prosegue infatti il report:
Per le marche sarà (e sarà sempre più) fondamentale in primis conoscere queste persone al fine di apprenderne i pattern comportamentali in continua evoluzione, e quindi raggiungerle con un approccio strategico alla distribuzione che sia in grado di soddisfare le esigenze degli utenti stessi: contenuti ed esperienze che stimolino conversazione e non vengano percepiti come interruzione.
Difficile immaginare un più pertinente e accurato aggiornamento del concetto di leisure class e di conspicuous leisure, i due concetti (“classe agiata” e “tempo libero opulento”) introdotti da Veblen nella sua celebre opera del 1899 – Theory of The Leisure Class – per descrivere la “classe agiata” (allora certamente non di massa) e il dispendio di tempo libero come meccanismo di ostentazione di status. Con la sola, fondamentale, differenza che ora la sovrabbondanza di tempo libero dal lavoro non è più il privilegio dei pochi – la classe agiata che consuma senza lavorare – ma è penetrato nella vita quotidiana della maggioranza degli italiani.
Un esito che diventa ancora più tangibile se le cifre precedenti vengono messe a confronto con il tempo di lavoro: in una giornata-tipo, a fronte di circa sei ore su Internet e quasi tre davanti alla TV, il tempo di lavoro medio non raggiunge le tre ore.

Il consumo di droghe
I dati sul consumo di droghe e sostanze psicoattive, legali e non, sono ovviamente incerti, stante la difficoltà di monitorare un fenomeno che è tuttora stigmatizzato. Su un punto, tuttavia, non vi sono dubbi: l’accesso a tali sostanze non è più riservato all’élite, come è stato fino a circa mezzo secolo fa, ma ha ormai assunto caratteri di massa (Nencini 2017).
Le due fonti principali di informazione sono la Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia e, a livello comunitario, i report dell’agenzia europea per il monitoraggio delle droghe e delle tossicodipendenze (EMCDDA).
Qual è il quadro che risulta da queste indagini?
Il primo elemento che emerge è che a fronte di un trend discendente del consumo di sigarette e di alcol durante i pasti, negli ultimi anni appaiono in sensibile aumento:
– il consumo di alcol fuori dei pasti, compresi gli usi abnormi (binge drinking);
– il consumo di cannabis e affini;
– il consumo di cocaina e affini;
– il consumo di eroina, più o meno tagliata con altre sostanze;
– il consumo di droghe sintetiche, sia illegali, sia legali (le cosiddette NPS).
Il grado di diffusione di questi comportamenti di consumo, tuttavia, è estremamente differenziato fra i vari segmenti della popolazione. Binge drinking e cannabis sono più diffusi fra i giovani che fra gli adulti. Cocaina ed eroina prevalgono fra gli adulti e i cosiddetti “giovani adulti” (fascia quindici-trentaquattro anni). Inoltre, in generale, esiste una radicale differenza fra maschi e femmine: le donne sono sistematicamente sottorappresentate in tutti i consumi rischiosi, e il loro coinvolgimento è tanto minore quanto più alto è il rischio.
Ma di quante persone stiamo parlando?
Secondo l’ISTAT i comportamenti a rischio legati all’alcol nel 2018 coinvolgono quasi 8.7 milioni di persone, pari al 15.9% della popolazione dagli undici anni in su. Il binge drinking coinvolge 4.1 milioni di persone (7.5%).
Quanto all’uso di stupefacenti, i valori che spesso vengono citati dalle fonti più disparate vanno presi con grande cautela, per varie ragioni. Innanzitutto, le stime basate su autodichiarazioni in questionari anonimi sono ovviamente errate per difetto. In secondo luogo occorre prestare attenzione alla definizione di utente: un conto è aver fatto uso di una sostanza almeno una volta nella vita; un conto è averlo fatto nell’ultimo anno, o nell’ultimo mese; un conto infine è essere un consumatore abituale o addirittura quotidiano. C’è infine da considerare che il numero di consumatori dei vari tipi di sostanze non sono direttamente sommabili, perché sono molti a consumare più di una sostanza.
Se ci chiediamo quante persone hanno sperimentato una sostanza illegale almeno una volta nella vita, la risposta (basata sulle autodichiarazioni) è una su tre. Se invece stiamo alla definizione più comune di consumatore (almeno una volta nell’ultimo anno), dal 33% si scende all’11%, con grandi differenze legate all’età (nella fascia dei quindici-ventiquattro anni l’uso di sostanze illegali coinvolge un giovane su quattro).
Secondo l’ISTAT, il numero totale di utenti si può stimare in almeno 6 milioni di persone per i derivati della canapa (cannabis e simili), e almeno 2 milioni per le sostanze più pericolose: cocaina e simili, eroina, sostanze chimiche varie come LSD, Spice, MDMA(ecstasy) e più in generale le nuove sostanze psicoattive, immesse sul mercato al ritmo di una alla settimana, e sempre più spesso acquistate via Internet. È il caso di aggiungere che la cocaina è più diffusa fra gli adulti che fra i giovani, e che non di rado – specie fra dirigenti, professionisti, colletti bianchi in genere – il suo consumo è “controllato”, per non compromettere la normalità quotidiana (Zuffa, Ronconi 2017).
Il fatturato globale delle sostanze illegali è dell’ordine di 15 miliardi, un po’ meno di 1 punto di PIL (il triplo di quel che spendiamo in istruzione). Tenuto conto che i consumatori di sostanze sono circa 8 milioni, significa che il consumatore medio spende quasi 2000 euro l’anno in sostanze psicoattive.

Un popolo di giocatori
In una rassegna del consumo signorile non può mancare il gioco, tipico attributo e privilegio dei “signori”, da sempre amanti dei giochi d’azzardo e protagonisti di memorabili certami e battute di caccia.
Ma quali forme assume il gioco nella realtà italiana di oggi?
Una prima risposta ce la fornisce il citato report Digital 2019 parlando del “mondo gaming”: circa il 16% degli utenti Internet gioca in modalità streaming live (in diretta), l’11% guarda altri gamersgiocare online, il 5.4% guarda campionati di e-sport.
Un altro aspetto, strettamente connesso, è dato dall’industria dei videogiochi, fatta di aziende che vendono software e dispositivi (tipo console, joystick ecc.), ma anche da tutto un mondo, in spettacolare espansione, fatto di video-sviluppatori indipendenti, spesso supportati dalle aziende e dai giganti del web (è il caso del programma ID@Xbox 2019 della Microsoft). I rapporti pubblicati negli ultimi anni dalla AESVI (Associazione editori sviluppatori videogiochi italiani) tracciano i contorni di un mercato in rapido sviluppo, con un tasso di crescita del fatturato che sfiora il 20% all’anno. Secondo l’ultimo rapporto AESVI, nella fascia da sedici a sessantaquattro anni i videogiocatori sono più del 50% sia fra i maschi, sia fra le femmine.
La crescita impetuosa di una selva di giochi, perlopiù elettronici o guardati sul web, non deve farci pensare che il mondo tradizionale, quello del gioco d’azzardo, con scommesse e vincite in denaro, sia in regresso.
È vero il contrario. Il gioco d’azzardo, nelle sue due forme, legale e illegale (entrambe particolarmente diffuse al Sud), non solo non è diminuito, ma negli ultimi quindici anni è letteralmente esploso. I dati mostrano in modo chiarissimo che il punto di svolta è stato il 2003-2004 (fig. 12).
Quando si studia l’evoluzione dei comportamenti di consumo è rarissimo trovare svolte così improvvise e così radicali. Fra il 1990 e il 2003 la quota dei consumi privati spesa nel gioco d’azzardo era passata da meno dell’1.5% a poco più del 2%, con una dinamica lentissima: in tutto meno di 1 punto percentuale in tredici anni. Poi, improvvisamente, in un solo anno, fra il 2003 e il 2004, un balzo di 1.3 punti, molto di più della crescita dell’intero tredicennio 1990-2003 (+0.9). Da quel momento sarà un’escalation, con un’ulteriore accelerazione nel biennio 2011-2012, in piena crisi. Dopo la crisi, salvo una modestissima battuta d’arresto nel 2013-2014, l’espansione continua, più o meno al ritmo del decennio anteriore alla crisi. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, oggi gioca d’azzardo almeno una volta all’anno più di un italiano su tre, e il peso del gioco d’azzardo sui consumi privati totali è cinque volte quello del 2003.
A che cosa si deve la svolta del 2003-2004?
Probabilmente a un mutamento intervenuto proprio in quegli anni in un altro settore del gioco, quello dei telequiz e dei concorsi a premi, che costituiscono una sorta di gioco d’azzardo a costo zero (si può solo guadagnare).
Nel 2000, su Canale 5, con la conduzione di Gerry Scotti, decolla il programma Chi vuol essere miliardario?, collocato in fascia preserale, a ridosso del TG5. Di lì a poco, con il passaggio all’euro, il programma cambia nome, e diventa Chi vuol essere milionario? Il successo è immediato e lo share altissimo.
Ma la RAI non sta a guardare. Fra il 2002 e il 2003, sulla rete ammiraglia della TV pubblica, e sempre in fascia preserale, decollano due programmi di grandissimo successo, L’eredità e Affari tuoi, entrambi collocati a ridosso del TG1, il telegiornale più seguito.
È la miccia che fa esplodere il gioco d’azzardo pagante. La vista quotidiana di persone comuni, spesso clamorosamente ignoranti, e comunque quasi sempre del tutto prive di conoscenze approfondite in qualsiasi campo del sapere, che in pochi minuti – solo in virtù di fortuna e intuito – possono cambiare la loro vita grazie a vincite milionarie (siamo appena entrati nell’euro, e le decine di migliaia di euro vengono istantaneamente convertite in decine di milioni di lire) deve aver convinto molti che tentare la fortuna sia la strada migliore, forse l’unica, per fare un passo avanti nella scala sociale.
Un vero paradosso, se si pensa che il gioco d’azzardo è un fondamentale fattore di aumento delle diseguaglianze economiche. Per valutarne l’impatto occorrerebbe uno studio approfondito, condotto con l’ausilio di un modello di microsimulazione, ma un esercizio con poche cifre basta a illustrare il problema.





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