da: https://www.internazionale.it/ - di Annalisa Camilli
Grandi
centri di accoglienza nelle mani di pochi enti gestori che
in alcuni territori esercitano un vero e proprio monopolio: è quanto emerge
dall’ultima parte del rapporto di Action Aid e di Openpolis, pubblicato il 16
febbraio, sugli effetti del primo decreto
sicurezza entrato in vigore nell’ottobre del 2018, fortemente voluto dall’ex
ministro dell’interno Matteo Salvini. Il decreto, seguito da un nuovo
capitolato di gara di appalto per la gestione dei centri di accoglienza, ha
previsto un taglio considerevole
della spesa e si è passati dai famosi 35
euro al giorno per persona a 19/21 euro al giorno per persona, un taglio
che ha determinato un boicottaggio delle
gare d’appalto da parte di molti enti gestori, che hanno denunciato
l’insostenibilità del sistema.
Mentre a palazzo Chigi il 17 febbraio si
discute di come cambiare i due decreti che portano il nome dell’ex ministro
dell’interno, continuano a uscire rapporti sugli effetti nefasti delle due
norme sull’immigrazione approvate dallo scorso esecutivo. La riforma, proposta al governo dalla ministra
Luciana Lamorgese, dovrebbe riguardare il ripristino di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, che si
dovrebbe chiamare permesso speciale, le norme
sulla cittadinanza e l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, ma
sembrerebbe che non ci siano invece
riforme in vista per quanto riguarda il sistema di accoglienza ex
Sprar/Siproimi, fortemente attaccato dallo scorso governo.
Il sistema
di accoglienza dei richiedenti asilo, nato intorno al duemila, è sempre
stato caratterizzato da un doppio
binario: da una parte il sistema di accoglienza ordinario gestito dai comuni (ex Sprar, ora Siproimi),
dall’altra il sistema straordinario (i
centri di accoglienza straordinaria, Cas) gestito dalle prefetture, che è sempre
stato preponderante: in Italia il 73 per cento dei richiedenti asilo vive in un
Cas. Le differenze
fondamentali sono due: il tipo di servizi offerti a fronte
della spesa che è identica e le regole che i due sistemi seguono.
Il sistema
ex Sprar/Siproimi (che dal 2019 accoglie solo chi ha già ottenuto la
protezione e i minori) è sottoposto a una rendicontazione
più rigida, standard di qualità più alti, offre servizi più articolati ed è
gestito dagli enti locali che sono obbligati a spendere tutti i fondi ricevuti
nel progetto, senza poter fare profitti. I Cas
invece sono centri gestiti da privati,
che ricevono i finanziamenti direttamente dal ministero dell’interno, di
solito concentrano i richiedenti asilo
in grandi strutture, con bassi
standard di accoglienza e senza alcun obbligo di rendicontazione delle spese.
Dal 2014 si era deciso d’investire sul
sistema ex Sprar sia perché sembrava quello più efficace dal punto di vista
dell’integrazione dei richiedenti asilo sia perché dotato di un meccanismo di
controllo e coordinamento nazionale che evitava anomalie e la penetrazione
della criminalità. Dal 2019,
tuttavia, con l’entrata in vigore del primo
decreto Salvini che prevede il ridimensionamento del sistema ex Sprar, la
tendenza si è invertita e il sistema straordinario è diventato ancora più
preponderante rispetto a quello ordinario, soprattutto in alcuni territori.
Esclusi
gli enti non profit
“Il nuovo
modello di accoglienza, per come emerge dalle regole e dal taglio dei costi
previsti dal nuovo capitolato, penalizza
l’accoglienza diffusa e privilegia i centri di grandi dimensioni e i grandi
gestori”, afferma il rapporto di
Action Aid e di Openpolis. Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi
(Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e presidente del
Consorzio italiano di solidarietà di Trieste, spiega che le regioni italiane
hanno reagito in maniera molto disomogenea alle nuove regole: “Ci sono molte
differenze tra i territori perché per fortuna in Italia c’è stato per
tantissimi anni un percorso di consolidamento dell’approccio dell’accoglienza
diffusa”.
Nelle zone in cui invece non si era ancora imposta l’accoglienza
diffusa, il decreto sicurezza ha
avuto un effetto rapido e dirompente:
“Dove il sistema (ex Sprar) era fragile, dove convivevano nello stesso
territorio una maggioranza di grandi centri a bassi standard e una minoranza di
programmi di accoglienza diffusa con elevati standard di qualità, questi ultimi
sono molto velocemente diminuiti, perché fagocitati e assorbiti dal modello
dominante che ha rapidamente preso il sopravvento”.
Il nuovo
capitolato ha previsto tagli importanti alla spesa per i centri straordinari e
questo ha favorito gli enti gestori che hanno una maggiore capacità economica,
le aziende e più in generale gli enti profit. Molti gestori hanno deciso di
non partecipare ai bandi di gara per protesta, mandandoli deserti, ma in molti
casi i più grandi e quelli profit hanno invece partecipato, accettando
condizioni peggiorative, a scapito dei servizi offerti. L’attuale governo,
attraverso una circolare del 4 febbraio, ha annunciato un’interpretazione
migliorativa del nuovo capitolato, annunciando di portare la cifra stanziata
dai 19/21 euro per persona ai 24 euro per persona al giorno. Per le
organizzazioni dell’accoglienza che hanno boicottato i bandi di gara dopo il
nuovo capitolato, l’interpretazione della circolare di Lamorgese non è
sufficiente perché non incide sulla qualità dei servizi offerti e si pone in
continuità con le regole del capitolato voluto da Salvini.
“Il meccanismo del grande centro e quello
del grande ente tendono assolutamente ad andare di pari passo e con questo
meccanismo viene favorito l’ente profit. Anche se i margini di guadagno sono
irrisori l’ente profit, in alcune circostanze, può essere comunque interessato.
Perché abbassando al massimo i costi e quindi fornendo un servizio pessimo può
calcolare un utile anche piccolissimo ma che risulta poi significativo tenuto
conto del numero elevato di ospiti. Inoltre in questo modo tiene un piede
dentro al sistema in vista di un momento migliore in cui magari i margini di
guadagno possono essere maggiori”, conclude Schiavone.
Nelle
grandi città
A Milano
il 64 per cento dei posti disponibili nell’accoglienza è dentro i grandi centri
con più di cinquanta posti, a Roma
addirittura l’83,5 per cento. A Milano già in passato erano ampiamente presenti
grandi centri e grandi gestori e le nuove regole hanno contribuito a mettere
ulteriormente in difficoltà l’accoglienza diffusa. Con la pubblicazione dei nuovi bandi molte associazioni e realtà del terzo
settore hanno deciso di non
partecipare alle gare ma, rispetto a quanto accaduto altrove, altre
organizzazioni hanno colmato il vuoto. Undici organizzazioni si sono ritirate
dalle gare di appalto, ma altre nove, che negli anni precedenti non facevano
parte del sistema di accoglienza, si sono presentate alle gare per la gestione
di due grandi centri: la Caserma Mancini (300 posti) e il Cas Aquila (270
posti).
Tra queste due enti gestori di grandi
dimensioni: il Medihospes, che
gestisce altri centri di accoglienza a Roma, e il Versoprobo, che si è aggiudicata la gestione del Centro di
permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli di Milano. Altri quattro enti
sono organizzazioni a scopo di lucro e senza una chiara missione sociale:
Ospita Srl, Engel Italia Srl, Nova Facility e Ors Italia srl, una società
svizzera attiva in Italia da pochi mesi e controllata da un fondo speculativo
inglese. L’effetto di queste politiche è la restrizione dei servizi offerti e l’abbassamento
degli standard: “I Cas sono diventati
dei dormitori, gli operatori hanno una funzione di controllo molto rigida
che limita fortemente la capacità degli ospiti di trovare un lavoro o svolgere
qualsiasi altra attività all’esterno del centro”, spiega Emilia Bitossi
dell’associazione Naga di Milano.
“Il rientro
in ritardo nel centro può portare alla revoca anche immediata
dell’accoglienza. E infatti le revoche sono aumentate in modo vertiginoso”,
continua Bitossi. Inoltre alcuni servizi volti all’integrazione sono stati del
tutto smantellati: “La figura dello psicologo
è scomparsa del tutto. Il servizio medico è stato fortemente ridimensionato, la scuola
d’italiano abolita così come le attività ricreative e la possibilità di
fare corsi di formazione”.
Anche a Roma questo fenomeno è stato ancora
più estremo, con la nascita di veri e propri monopoli nella gestione
dell’accoglienza. A dicembre 2018 erano 17 i gestori dell’accoglienza a Roma,
sette mesi dopo ne sono rimasti dieci, la maggior parte dei quali di grandi
dimensioni, in termini di fatturato e presenza nel settore dell’accoglienza.
“Il caso più eclatante è sicuramente quello
di Medihospes (già nota come Senis Hospes), uno dei maggiori operatori
nazionali del settore che nel 2017 disponeva di 2.067 posti in accoglienza
distribuiti in 15 province italiane, per i quali ha ottenuto pagamenti dalle
prefetture per oltre venti milioni di euro. La crescita di questo gruppo è
stata esponenziale negli ultimi anni e, secondo i dati della camera di
commercio, il fatturato è passato da 42 milioni nel 2016 a 114 nel 2018”,
spiega il rapporto.
Nel 2018 Medihospes (in collaborazione con
Tre Fontane, altro grande gestore nazionale, dapprima considerata cooperativa
ausiliaria e poi incorporata da Medihospes nel corso del 2018) amministrava già
sedici centri nel territorio metropolitano di Roma. Queste strutture avevano
una capienza variabile, tra i 50 e i 250 posti, e complessivamente offrivano il
37 per cento dei posti in accoglienza nel territorio. “Questa posizione, già
dominante, si è rafforzata in maniera sostanziale nel 2019, portando Medihospes
in una condizione di quasi monopolio sul territorio della capitale. A luglio
infatti questa società deteneva quasi due terzi di tutti i posti in
accoglienza”.
Per Fabrizio Coresi, esperto di
immigrazione e relatore del rapporto per Action Aid, “monopoli e oligopoli
nella gestione dell’accoglienza rischiano, in assenza di reale concorrenza, di
indebolire la capacità di controllo e l’autonomia di scelta delle
amministrazioni”. La situazione romana è emblematica delle distorsioni che sono
state generate dal nuovo capitolato: “Ci chiediamo come sia stato possibile che
la prefettura di Roma abbia permesso a un solo gestore di controllare più di
due terzi dell’accoglienza, rischiando così di subirne condizionamenti, di
indebolire la capacità di controllo e l’autonomia della prefettura stessa”, in
un territorio che è già stato coinvolto in grossi scandali sull’accoglienza
come quelli svelati dall’inchiesta Mondo di mezzo nel 2014.
Uno dei problemi inoltre è che non esiste un sistema di monitoraggio delle
gare di appalto e dei fondi destinati all’accoglienza: “Manca una
pubblicità dei dati che riguardano l’accoglienza, abbiamo dovuto fare degli
accessi agli atti per avere contezza di quello che sta succedendo sul
territorio romano, il sistema è molto opaco, sembra in certi casi
impenetrabile”, spiega Coresi.
Parlando al telefono, secondo quanto
registrato da un’intercettazione, Salvatore Buzzi, numero uno della cooperativa
29 giugno e braccio operativo dell’organizzazione Mafia capitale, chiedeva: “Tu
c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende
meno”. A sei anni da quell’inchiesta sembrerebbe che Roma non si sia dotata di
nessuno strumento per evitare di alimentare distorsioni e fenomeni di
corruzione nella gestione dell’accoglienza, a scapito della stessa
amministrazione, ma soprattutto dei richiedenti asilo che si trovano sempre più
spesso a vivere in condizioni di difficoltà, senza servizi e con alte
probabilità di finire per strada.
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