La
condizione signorile
1.
Si è avverata la profezia di Keynes?
Nel 1928, in una celebre conferenza tenuta
a Cambridge e intitolata Prospettive economiche per i nostri nipoti, John
Maynard Keynes formulava due ipotesi decisamente audaci su come sarebbe stato
il mondo cento anni dopo, ovvero più o meno ai giorni nostri.
La prima ipotesi era che, grazie al
progresso tecnologico, la produttività del lavoro sarebbe potuta crescere anche
di otto volte. La seconda era che questo aumento avrebbe condotto a una
drastica riduzione degli orari di lavoro: tre-quattro ore al giorno, per un
totale di una quindicina di ore la settimana.
A quel punto, ipotizzava Keynes, l’uomo si
sarebbe trovato a un passo dall’aver risolto il suo “problema economico”
(benessere materiale), e avrebbe semmai dovuto fronteggiare un problema del
tutto nuovo: “Come sfruttare la libertà dalle pressioni economiche Come
occupare il tempo che la tecnica e gli interessi composti gli avranno
regalato, come vivere in modo saggio, piacevole e salutare”.
Per Keynes la liberazione dal lavoro non
sarebbe stata né semplice, né indolore. E questo sia perché per molti sarebbe
stato difficile rinunciare al lavoro stesso, dopo millenni di abitudini
costruite intorno a esso, sia perché l’uomo comune liberato dal lavoro avrebbe
potuto non essere capace di usare proficuamente il tempo libero. Una
preoccupazione che, pochi anni prima, era stata espressa in modo ancora più
esplicito da Bertrand Russell nel suo saggio Elogio dell’ozio (che è
del 1915):
Mentre un po’ di tempo libero è piacevole,
gli uomini non saprebbero come riempire le loro giornate se lavorassero
soltanto quattro ore su ventiquattro.
Secondo Russell, sarebbe precisamente
questo il compito dell’istruzione. L’istruzione dovrebbe innalzarsi di livello
in modo da educare e raffinare il gusto di tutti, così che ognuno possa
“sfruttare con intelligenza il proprio tempo”.
A quasi un secolo di distanza, ci
chiediamo: si è avverata la duplice profezia di Keynes?
La società signorile di massa, con i suoi
consumi opulenti e la sua scarsa propensione al lavoro, non è appunto il modo
in cui la profezia di Keynes si è realizzata?
Per certi versi la risposta è sì. In un
secolo la produttività del lavoro è aumentata in una misura prossima a quella
ipotizzata da Keynes. Il “problema economico”, inteso come soddisfazione dei
bisogni fondamentali, effettivamente è stato risolto, almeno per la maggior
parte degli abitanti delle società avanzate. La quota di consumi destinata a
beni non necessari è enormemente aumentata. Quanto al tempo di lavoro, almeno
in Italia, è più che dimezzato rispetto alla fine degli anni venti del
secolo scorso. Questo, in concreto, significa che lo spettacolare aumento della
produttività lo abbiamo usato in parte per aumentare i consumi ma, in parte,
anche per ridurre il lavoro, e tutto ciò è avvenuto precisamente nella
proporzione immaginata da Keynes, ovvero dimezzando il nostro tempo di lavoro.
Ma le corrispondenze si fermano qua. Su due
punti – almeno in Italia – le cose sono andate in modo del tutto diverso dalle
previsioni di Keynes e dagli auspici di Russell.
Il dimezzamento del tempo di lavoro, innanzitutto,
non è avvenuto attraverso il dimezzamento dell’orario giornaliero o
settimanale, come immaginava Keynes, bensì attraverso la netta suddivisione
della popolazione – che un tempo era attiva per buona parte della vita – in una
minoranza di lavoratori, spesso iperlavoratori (a causa di straordinari e
doppio lavoro), e una maggioranza di non-lavoratori. Un processo cui,
indubbiamente, hanno contribuito fattori per così dire naturali, fisiologici in
una società che si modernizza: declino dell’agricoltura (che ha reso inoccupata
una parte della forza lavoro femminile), scolarizzazione di massa (che ha
ritardato l’ingresso dei giovani sul mercato del lavoro), aumento della
speranza di vita (che ha accresciuto la quota di inabili al lavoro in quanto
troppo anziani). Ma un processo nel quale hanno avuto un ruolo anche le
preferenze e le libere scelte dei cittadini, prime fra tutte la tendenza degli
adulti ad andare in pensione anticipatamente (talora anche prima dei
cinquant’anni) e quella dei giovani a presentarsi sul mercato del lavoro molto
tardi (spesso dopo i trent’anni).
Il risultato è che, oggi in Italia, il
lavoro è molto più concentrato, cioè iniquamente ripartito, di quanto lo fosse
un tempo.
Mentre la distribuzione del reddito, a
dispetto di quanto invariabilmente si sente affermare, è sostanzialmente
stabile, e complessivamente più egualitaria di com’era durante i gloriosi anni
sessanta, la distribuzione del lavoro da oltre mezzo secolo (dal 1963) tende a
diventare più inegualitaria, ossia polarizzata fra chi non ha alcun lavoro e
chi ne ha uno a tempo pieno o addirittura ne ha due. È curioso che quasi tutti,
specie nel mondo progressista, denuncino senza tregua spaventosi e
generalizzati aumenti delle diseguaglianze di reddito, nonostante l’assenza di
riscontri univoci nelle statistiche; e d’altra parte non si accorgano che
le statistiche stesse rivelano senza ambiguità una crescente diseguaglianza
nell’accesso al lavoro.
Si potrebbe supporre che la concentrazione
del lavoro su una minoranza sia una tendenza di tutte le economie avanzate
piuttosto che un’anomalia italiana. Ma, di nuovo, i dati ci riservano un bagno
di realtà.
Nessuna fra le società avanzate (eccetto la
Grecia) raggiunge un grado di diseguaglianza nella distribuzione del lavoro
come quello dell’Italia. Nemmeno la Turchia, paese islamico che scoraggia la
partecipazione delle donne al mercato del lavoro, ha un livello di
diseguaglianza alto come quello italiano.
Ma c’è un secondo, cruciale, scostamento da
segnalare rispetto al futuro immaginato da Keynes.
L’ingente massa di tempo libero regalata
dall’aumento della produttività del lavoro non è stata usata per innalzare il
livello culturale delle persone, la loro sensibilità artistica, la loro
capacità di vivere in modo saggio, piacevole e salutare. Specie in Italia, dove
anche i livelli di istruzione formale sono rimasti bassissimi, il maggiore
tempo a disposizione è stato impiegato essenzialmente per ampliare lo spettro
dei consumi. Anziché usare la cultura per riempire il tempo libero, si è scelto
di usare i consumi per “attrezzarlo”.
Che cosa significa “attrezzare” il tempo
libero?
Essenzialmente, significa che non si è
capaci di riempire da sé – con la lettura, l’arte, lo sport, la convivialità,
il gioco, gli hobby – il vuoto e la noia del tempo libero, e si ha bisogno
invece di animarlo con una miriade di consumi che aiutano a usufruirne, e di
norma costano.
Di qui l’impressionante sviluppo di beni,
servizi e attività il cui scopo primario è di aiutarci a “consumare tempo
libero”: iPod per la musica, iPad per Internet, smartphone un po’ per tutto,
dai messaggi alle foto agli acquisti online; ristoranti, bar, pub, piadinerie,
focaccerie, bistrot, paninoteche, gelaterie, tavole calde più o meno etniche,
wine store, cocktail bar, sushi bar; spa, palestre, massaggi, centri yoga;
corsi di meditazione, cucina, ballo afroamericano, break dance; acquisti
online, mercatini dell’usato, mercatini dell’artigianato; maghi alle feste dei
bambini, animatori nei villaggi turistici; fiere del formaggio, del risotto,
del tartufo, del cioccolato; concerti in piazza, festival di ogni genere e
specie, spettacoli all’aperto, megaschermi per gli eventi sportivi e musicali;
senza dimenticare l’ampio mondo delle discoteche e dei locali in cui si beve,
si ascolta musica, si balla (e qualche volta si sballa).
Se poi si pensa al drammatico abbassamento
della qualità dell’istruzione nella scuola e nell’università, allo sdoganamento
della volgarità sui media, all’aggressività che circola in rete, la distanza
con le visioni di Keynes e di Russell non potrebbe risultare più grande. Il
tempo libero che il progresso tecnologico ci ha regalato non solo non è di
tutti, ma è inestricabilmente intrecciato al consumo. E come tale ha un costo
di produzione, che dipende dai prezzi degli input che occorre combinare fra
loro per ottenere un certo risultato.
Se ne sono accorti economisti e sociologi,
che da tempo – almeno da quando, negli anni sessanta, Gary Becker rivoluzionò
la teoria del comportamento trattando le famiglie come unità di
produzione – hanno compreso che determinati beni e servizi non si
acquistano sul mercato perfettamente finiti, pronti per essere consumati, ma
richiedono un lavoro, una partecipazione diretta. Una partecipazione che, vista
con gli occhi dell’economista, assume la forma di un vero e proprio processo
produttivo interno alla famiglia, con impiego congiunto di input acquisiti dal
mercato e di segmenti di tempo libero dei suoi membri. Mentre per altri,
soprattutto per i sociologi, assume la più semplice forma di un contributo del
consumatore al perfezionamento del bene o del servizio che consumerà, e di cui
così diventa coproduttore. È questo il significato del
termine prosumer(producer & consumer), inventato da Alvin Toffler
mezzo secolo fa, ma divenuto pienamente attuale solo ai giorni nostri.
Di questi beni e servizi che, come i mobili
Ikea in scatola di montaggio, richiedono la cooperazione di chi ne usufruirà,
il più importante è l’evasione, o svago, o divertimento, intesi come risultati
complessi di processi produttivi che – proprio come quelli di fabbrica –
richiedono macchinari, dispositivi, beni intermedi, lavoro (cioè tempo
libero!), organizzazione, pianificazione ma – a differenza dei processi
produttivi veri e propri – hanno per protagonisti i membri di una famiglia,
spesso con la madre nel ruolo di capofficina.
Provate a immaginare un weekend al mare di
una famiglia odierna, alla complessità della sua preparazione, al nugolo di
attrezzi che lo renderanno pienamente fruibile: consultazione di un sito
di previsioni meteo, prenotazioni alberghiere via Internet, automobile,
attrezzatura da spiaggia per tutta la famiglia, maschere, boccagli e bombole
per le immersioni, tavola da windsurf sul tetto auto, tablet per tenere
tranquilli i bambini durante la cena al ristorante, smartphone del capofamiglia
collegato con l’ufficio, iPod per l’adolescente, iPad per la madre che desidera
svagarsi.
Un discorso analogo si potrebbe ripetere
per un atto, un tempo elementare, come “andare a ballare”. Che oggi, in diversi
casi, può comportare: scoprire il locale in cui si esibiscono i propri artisti
preferiti; disporre di un’auto (meglio se di grossa cilindrata) con cui
raggiungere la meta (meglio se lontana) oppure trovare un passaggio con
BlaBlaCar; disporre di uno smartphone, per immortalare la serata, e magari pure
per condividere in diretta Facebook le proprie gesta; disporre di denaro per
l’ingresso e per le bevande alcoliche; avere contatti e notizie per
approvvigionarsi delle sostanze (non necessariamente illegali) più adatte
a modificare nella direzione desiderata i propri stati mentali e la propria
sensibilità emotiva.
In breve, di tempo libero ce n’è molto ma,
proprio perché è molto, da solo non ci basta più: nella società signorile di
massa il tempo libero richiede di essere attrezzato per essere usufruito.
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