mercoledì 12 febbraio 2020

Luca Ricolfi: La società signorile di massa / 10



L’infrastruttura paraschiavistica
Risparmio dei padri e distruzione della scuola sono due pilastri fondamentali della società signorile di massa. Ma da soli non basterebbero. C’è un terzo pilastro che è altrettanto essenziale, perché in sua assenza essa non funzionerebbe, o meglio non potrebbe funzionare come società signorile.
Questo terzo pilastro è l’esistenza, al suo interno, di una vasta infrastruttura paraschiavistica.
Per infrastruttura paraschiavistica intendo una serie di situazioni nelle quali una parte della popolazione residente (spesso costituita da stranieri) si trova collocata in ruoli servili o di ipersfruttamento, perlopiù a beneficio di cittadini italiani. Una condizione che, nel caso degli immigrati, è aggravata dall’impossibilità di esercitare il diritto di voto, proprio come gli schiavi veri e propri nell’antica Grecia, culla e origine della democrazia.
Le dimensioni quantitative di questa infrastruttura paraschiavistica sono sconosciute, perché una parte considerevole del lavoro erogato dai “subordinati” o “sottomessi” (così, per brevità, ci riferiremo d’ora in poi ai soggetti nella condizione paraschiavistica) è in nero, o addirittura in condizioni di totale illegalità. Ma possiamo ugualmente farcene un’idea passandone in rassegna i principali segmenti, che si potrebbero classificare così.

Segmento I. Lavoratori stagionali, perlopiù di origine africana (ma talora anche italiani),  ipersfruttati nei campi – specie ma non solo nel Mezzogiorno – per la raccolta dei pomodori, delle olive, degli agrumi, di varie specie di frutti e ortaggi.
Qui, in molti casi, la condizione dei lavoratori è quasi letteralmente di tipo schiavistico, sia per le condizioni di vita estreme (tendopoli, baraccopoli, container), sia per le modalità di reclutamento (fondate sul caporalato), sia per le paghe, il cui livello è così basso da assicurare a malapena la sopravvivenza fisica dei lavoranti. Nessuno sa di quante persone stiamo parlando, anche perché l’attenzione degli studiosi è scarsa e quella dei media è concentrata sui casi singoli e sugli aspetti più tragicamente spettacolari del fenomeno, come incidenti mortali, incendi delle baracche, sparatorie, storie di vita drammatiche e commoventi.
Alcune stime parlano di 100.000 lavoratori ipersfruttati nei campi, ma temo che una valutazione realistica dovrebbe andare decisamente oltre. A questa convinzione sono approdato passando in rassegna le numerose stime che sono circolate su specifiche realtà locali, ad esempio: oltre 3000 immigrati nella sola piana di Gioia Tauro; ben 21.000 immigrati nella sola provincia di Foggia; circa 10.000 sikh, spesso reclutati direttamente in India, nella sola provincia di Latina. Se teniamo conto del fatto che molte di queste stime, oltre a essere relative a un territorio ristretto, si riferiscono a segmenti particolari del mercato agricolo (i pomodori; le arance ecc.), e che forme di ipesfruttamento della manodopera immigrata sono diffuse in quasi tutte le regioni italiane, una stima di 200.000 ipersfruttati mi sembra più verosimile che una di 100.000.
Segmento II. Prostitute, in maggioranza straniere, tenute in regime di totale sottomissione da parte di organizzazioni criminali.
Il fenomeno si è sviluppato in varie ondate, ma ha subito alcune accelerazioni in corrispondenza della dissoluzione dell’Unione Sovietica (1989-1991), della disgregazione della Jugoslavia (1991-2003), dell’intensificazione dei flussi migratori dall’Africa (2011-2017). Secondo un’indagine del CODACONS,48 sia il fatturato, sia il numero delle operatrici sono notevolmente aumentati (di quasi il 30%) nei primi anni della crisi, anche per effetto della diffusione della prostituzione via web.
In questo segmento la condizione di subordinazione è duplice. Le ragazze in condizione di totale subordinazione, spesso approdate in Italia con la promessa di un lavoro normale, sono tali sia verso gli aguzzini-protettori, sia verso i “signori”, in maggioranza italiani, che ne comprano i servizi.
Quante sono? E quanti sono i “signori” che usufruiscono delle loro prestazioni?
Tenuto conto che le stime sul numero totale di prostitute oscillano fra le 75.000 e le 120.000 unità, che il 65% si prostituisce per strada, che oltre la metà sono straniere (specie nigeriane e dell’Europa dell’Est), sembra ragionevole ipotizzare che l’ordine di grandezza della componente più vulnerabile, che non esercita alcun controllo sulle proprie condizioni di lavoro, si aggiri sulle 50.000 unità, più o meno la metà del totale delle prostitute.
A fronte di esse, diversi milioni di clienti,49 prevalentemente italiani, in misura non trascurabile appartenenti agli strati medio-alti della popolazione.
Segmento III. Persone di servizio, in larga maggioranza donne, che svolgono varie mansioni domestiche presso le famiglie.
Si tratta di persone che, prima dell’avvento del politicamente corretto, erano denominate con espressioni che oggi ci appaiono crude: donna delle pulizie, domestica, cameriera, serva. Ora preferiamo usare termini più rispettosi della dignità di qualsiasi lavoro, come collaboratrice familiare (colf) o badante, ma non posso non notare, come sociologo, che questa terminologia svolge anche un’importantissima funzione latente: quella di occultare l’ampiezza che, nelle nostre ricche società moderne, ha assunto il settore delle persone che sono “al servizio” di qualcun altro. Un’ipocrisia che, già una quarantina di anni fa, non era sfuggita alla scrittrice Natalia Ginzburg, che dalle pagine del quotidiano comunista l’Unità aveva la franchezza di scrivere:
Sempre per la stessa motivazione ipocrita, le donne di servizio vengono chiamate colf, collaboratrici domestiche, con un’abbreviazione che si reputa graziosa. Però noi tendiamo abitualmente a non collaborare affatto alle faccende domestiche o a collaborare molto poco e le cosiddette colf nelle nostre case fanno tutto loro.

Quante sono le persone di servizio in Italia? E quante sono le famiglie che hanno una “donna di servizio” o un domestico?
I dati ufficiali, che si basano sulle dichiarazioni all’INPS, indicano – per il 2017 – 865.000 soggetti, con tendenza all’aumento nonostante la crisi51 (+26% fra il 2008 e il 2017). A questo insieme, in cui le donne (88%) prevalgono nettamente sugli uomini, e gli stranieri (73%) sugli italiani, bisogna naturalmente aggiungere il vasto esercito del personale domestico che lavora in nero, talora presso una sola famiglia, più spesso presso una pluralità di famiglie. Una recente ricerca condotta da Domina52 in collaborazione con la Fondazione Leone Moressa, stima in circa 2 milioni la consistenza totale del lavoro domestico in Italia, di cui oltre 1.1 milioni in nero. Altre ricerche,53 precedenti, forniscono dati un po’ diversi, ma la percentuale di lavoratori parzialmente o totalmente in nero del settore viene concordemente valutata intorno al 60%.
Quanto alle famiglie che ricorrono a personale domestico, una quantificazione è davvero ardua, perché la maggior parte dei lavoratori domestici non è convivente e molto spesso è al servizio di più di una famiglia, alle volte anche di sei-sette famiglie, ovviamente con orari ridotti. Tenuto conto che il personale domestico convivente è pari al 35% del segmento regolare, e che la quota dei conviventi dovrebbe abbassarsi drasticamente fra il personale irregolare, possiamo stimare in circa 450.000 persone54 il numero di domestici conviventi. Assumendo che per il restante personale le famiglie servite da ogni domestico siano mediamente due, si perviene a un totale di circa 3 milioni e mezzo di famiglie che utilizzano lavoro domestico, su un totale di 26 milioni di famiglie (più o meno una famiglia ogni sette). Ma questa cifra potrebbe anche essere largamente sottostimata: è infatti possibile che il numero di colf e badanti in nero sia sensibilmente maggiore di 1 milione, ed è possibile che il numero medio di famiglie su cui una singola colf si divide sia più alto. Una stima basata su altre ipotesi55 porta a circa 7 milioni (una su quattro) il numero di famiglie che ricorrono a personale domestico.
Nella nostra ricostruzione dell’infrastruttura paraschiavistica abbiamo incluso l’intero settore del lavoro domestico, a prescindere dal fatto che i relativi addetti lavorino in nero o siano assunti regolarmente con tanto di contributi, tredicesima, ferie, malattia, liquidazione. Lo scopo dell’analisi, infatti, non è di denunciare situazioni estreme o chiaramente illegali, cosa che lasciamo volentieri ai cronisti e alla sociologia d’assalto, ma solo di far rilevare quanto, nella società signorile di massa, sia esteso il settore nel quale si instaurano rapporti di servaggio o di dipendenza personale, a prescindere dal fatto che siano regolari o totalmente in nero.
Per lo stesso ordine di considerazioni nel conteggio non abbiamo incluso il vastissimo settore delle baby-sitter, dei fornitori di ripetizioni (insegnanti e studenti), dei dog e cat-sitter, che ci sembra più logico far rientrare nell’erogazione di servizi alle famiglie, un campo di attività spesso non spiacevoli (si pensi alle baby-sitter al seguito delle famiglie in vacanza), e quasi completamente svolte nella cosiddetta economia informale, al di fuori di ogni rigido “comando” sul lavoro.

Segmento IV. Dipendenti in nero, addetti a mansioni pesanti, usuranti o sgradevoli, sottopagati, licenziabili in ogni momento.
In questo segmento l’appartenenza a quella che abbiamo chiamato l’infrastruttura paraschiavistica non dipende, come nel caso precedente, dalla natura “servile” del lavoro, ma dal concorrere di tre circostanze: la pesantezza o sgradevolezza dei compiti, il livello della retribuzione, la più o meno completa assenza di tutele giuridiche o sindacali (dalla mancanza di contratto ai contratti-capestro).
In concreto, ho in mente situazioni come:
i braccianti che, senza rientrare nel segmento I (lavoratori stagionali ammassati in grandi accampamenti-ghetto), lavorano senza contratto, con ritmi e paghe ampiamente inferiori a quelle sancite dai contratti nazionali;
– i lavoratori dell’edilizia, quasi sempre provenienti dall’Est e molto spesso privi di contratto;
– gli addetti alle consegne di mobili, elettrodomestici e beni pesanti per conto di grandi catene, in maggioranza stranieri, spesso sottopagati, e quasi sempre operanti in condizioni di lavoro estreme, sotto il comando di datori di lavoro e padroncini che operano ai limiti della legalità, quando non decisamente al di fuori di essa.
Quanti sono questi lavoratori?
Difficile dirlo, non solo perché mancano i dati, ma perché la definizione del segmento IV qui proposta è puramente indicativa. Serve a ricordare che queste situazioni esistono, e non toccano una infima minoranza degli occupati.
Per avere un’idea, sia pure rozza e approssimativa, delle dimensioni di questo segmento, si potrebbe ipotizzare che vi rientrino almeno tutti i lavoratori dipendenti che l’ISTAT classifica come irregolari nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia, e del sottosettore del “trasporto e magazzinaggio”, tutti settori con un tasso altissimo di presenza di stranieri, con e senza contratto. Se facciamo questo calcolo, estremamente prudente perché ignora tutta l’industria in senso stretto, tutto il commercio, e tutto il settore dei servizi diversi dal trasporto e magazzinaggio, perveniamo a una stima di circa 450.000 lavoratori ipersfruttati.
Sommando i quattro segmenti si arriva a un totale di quasi 3 milioni di persone, in maggioranza straniere,57 e presumibilmente quasi tutte collocate al di sotto o in prossimità della soglia di povertà assoluta.

Situazioni di confine
È il caso di osservare che, dal calcolo condotto fin qui, sono escluse tutte quelle situazioni in cui la condizione di sottomissione dipende solo dal basso livello dei salari e/o dalla mancanza di inquadramento contrattuale, come spesso accade per commesse, camerieri, pizzaioli, lavapiatti, portieri di albergo, segretarie, giusto per citare alcuni lavori in cui è drammaticamente frequente (e drammaticamente non sanzionato) il fatto che il datore di lavoro approfitti della debolezza del dipendente. Nel nostro calcolo, in altre parole, rientrano solo i lavori per cui è possibile rintracciare tracce e segni del classico rapporto di signoria, o perché è la natura del lavoro stesso a essere servile (segmento III: persone di servizio), o perché l’asimmetria di potere fra chi dà il lavoro e chi lo presta è estrema (segmenti I e IV: stagionali dei ghetti e dipendenti in nero), o perché la sottomissione è duplice, a un padrone-sfruttatore e a un cliente-signore (segmento II: prostitute). Ma è doveroso avvertire che una valutazione meno cauta della nostra potrebbe condurre ad allargare la platea paraschiavistica considerando alcuni mestieri che, in determinati contesti, e in presenza di datori di lavoro senza scrupoli, possono risultare assai duri, stressanti, usuranti o pericolosi, oltreché quasi sempre malissimo pagati e privi di adeguate tutele contrattuali.
Insomma noi abbiamo indicato quattro segmenti, ma se vi fossero più informazioni e più dati dovremmo aggiungere almeno altri tre segmenti (li chiameremo segmenti V, VI, VII), in cui far confluire una serie di casi che non rientrano nei tipi precedenti, ma configurano ugualmente condizioni di fragilità e subordinazione estreme.

Segmento V. Per mettere a fuoco questo segmento, dobbiamo partire da un dato di fondo, di cui parleremo più ampiamente nel prossimo capitolo: il consumo di sostanze illegali da parte della popolazione. Le poche stime disponibili indicano che il consumo di sostanze illegali (almeno una volta nella vita) ha toccato circa una persona su tre, mentre i consumatori abituali sono circa 8 milioni, di cui 2 per droghe pesanti come cocaina, eroina e droghe “chimiche” varie (Spice, NPS, LSD, Amfetamine ecc.).
Dal momento che la vendita è illegale, il rifornimento dei consumatori avviene in misura rilevante, anche se non esclusiva,59 attraverso la criminalità organizzata, che provvede ad acquisire la merce (prevalentemente dall’estero) e a distribuirla. La rete di distribuzione ha ovviamente una struttura gerarchica, con guadagni enormi al vertice (capi e trafficanti), guadagni elevati negli anelli intermedi della catena di comando (fornitori e caporali), guadagni da moderati a modestissimi, al limite della sopravvivenza, negli ultimi anelli della catena, dove vari tipi di pusher o spacciatori entrano in contatto con gli utilizzatori finali (perlopiù costituiti da persone normalissime) e un’ultimissima fila di “pali” – i meno pagati di tutta la catena – ha il compito di presidiare strade, piazze e giardinetti per dare l’allarme quando arriva la polizia.
Ebbene, il penultimo strato della piramide della droga, non di rado costituito da individui tossicodipendenti che spacciano per potersi pagare la propria dose quotidiana, è ovviamente il più numeroso, e certamente include un elevato numero di immigrati (talora nella condizione di “richiedenti asilo”). Grazie ai suoi servigi, talora ben pagati ma nella maggior parte pagati assai male (e comunque sempre ad alto rischio), milioni di consumatori, prevalentemente italiani, possono approvvigionarsi di ogni sorta di sostanze illegali.

Di quante persone si tratta?
Impossibile saperlo con precisione, ma qualche numero può dare un’idea dell’ordine di grandezza. In Italia i consumatori sono circa 8 milioni, i detenuti per reati connessi alla droga sono circa 20.000 (di cui 8000 stranieri), gli immigrati clandestini sono dell’ordine di mezzo milione. Queste cifre non consentono di effettuare una stima vera e propria, ma mettono alcuni paletti a qualsiasi stima. Se, ad esempio, si ipotizzasse che gli spacciatori totali siano 50.000 (di cui circa 20.000 stranieri),60 si dovrebbe concludere che:
(a) ben quattro spacciatori su dieci sono in carcere;
(b) meno di un clandestino su venticinque spaccia;
(c) ogni spacciatore serve, in media, più di duecentocinquanta clienti.
Ma è realistico pensare che gli spacciatori in carcere siano quasi la metà del totale? È realistico pensare che, con mezzo milione di irregolari, solo il 4% sia coinvolto nello spaccio?
Forse no. È verosimile che gli spacciatori non in carcere siano molti di più che quelli in carcere, e che la percentuale di clandestini che spaccia sia sensibilmente superiore al 4%. Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, che gli spacciatori in carcere siano uno su cinque, e la percentuale di clandestini che spacciano sia prossima al 10%. Accettando queste (peraltro ancora assai prudenti) ipotesi, il numero totale di spacciatori (in carcere e fuori, italiani e stranieri) sale ad almeno 100.000.

Segmento VI. Il cuore di questo segmento è costituito dalle forme meno tutelate della cosiddetta gig economy, o economia dei lavoretti, soprattutto nell’ampio (e in espansione) settore delle consegne a domicilio di cibo, libri, oggetti vari. Qui il problema centrale non è la fatica fisica (come succedeva nella consegna di mobili), ma lo stress delle condizioni di lavoro e la diffusione di contratti-capestro. Lo stress può essere legato ai ritmi richiesti e/o al fatto di essere gestiti da un algoritmo, un fenomeno che negli Stati Uniti è stato battezzato “algocrazia”, ovvero potere degli algoritmi.62 I contratti-capestro possono essere tali per una pluralità di motivi: non solo mancanza di tutele (maternità, malattia ecc.), ma retribuzioni orarie molto basse o pagamenti a cottimo, in funzione del numero di consegne e della distanza.

Segmento VII. Anch’esso in espansione, riguarda essenzialmente la esternalizzazione di servizi, in particolare pulizia, sorveglianza e assistenza, da parte di imprese, esercizi commerciali, e settori importanti della pubblica amministrazione, come i trasporti, la sanità, l’istruzione, l’assistenza. Destinatarie delle esternalizzazioni sono tipicamente imprese multiservizi e cooperative, che prestano manodopera per mansioni quasi sempre di basso livello: pulizie di uffici e treni, raccolta rifiuti, portierato.
Concretamente significa che le Ferrovie dello Stato, le università, le scuole, gli ospedali, i ministeri, certe mansioni non le assegnano a dipendenti propri, regolarmente inquadrati e troppo costosi, ma le scaricano su personale esterno, oggi soprattutto aziende private e cooperative, ma in passato63 anche lavoratori singoli, ingaggiati come co.co.co., o “collaboratori coordinati e continuativi”. E poiché lo scopo delle esternalizzazioni è quasi sempre abbattere i costi, i lavoratori inquadrati in questo modo spesso si trovano a operare non solo con contratti sfavorevoli, ma con salari estremamente bassi. Una situazione di “dumping salariale” divenuta così grave da indurre la Corte di Cassazione a emettere, all’inizio del 2019, una sentenza64 per garantire i minimi salariali dei lavoratori delle cooperative.
Quanto pesano questi due segmenti, che per brevità possiamo chiamare “gig economy” ed “esternalizzazioni”?
Difficilissimo dirlo, ma possiamo farcene un’idea misurando le dimensioni dei due serbatoi in cui prevalentemente si annidano.
Il primo serbatoio è il settore che le statistiche ufficiali classificano come “trasporti e magazzinaggio”. Al netto dei dipendenti irregolari, che abbiamo già conteggiato nel IV segmento, si tratta di circa 1 milione di dipendenti.
Il secondo serbatoio è costituito dal mondo cooperativo, in cui lavorano circa 1.2 milioni di addetti, altamente concentrati in alcuni settori, che non a caso sono i medesimi in cui sono più frequenti le esternalizzazioni: secondo un recente rapporto ISTAT65 tre settori produttivi, ossia trasporti, servizi alle imprese, sanità e assistenza sociale, assorbono da soli il 62% degli addetti delle cooperative. Al netto del settore della logistica, già conteggiato nella costruzione dei segmenti IV e V, si tratta di circa 1 milione di persone.
Sommando l’entità del primo serbatoio con quella del secondo (depurato del settore della logistica) si arriva a un totale di circa 2 milioni di lavoratori. Anche assumendo, ottimisticamente, che i lavoratori in condizioni di fragilità estreme siano solo uno su tre, si arriva a conteggiare circa 350.000 persone per il segmento VI della gig economy, e altre 350.000 per il segmento VII delle esternalizzazioni (al netto della logistica).
Se aggiungessimo i tre nuovi segmenti (V-VI-VII) ai primi quattro, la nostra stima dell’ampiezza dell’infrastruttura paraschiavistica passerebbe da 2 milioni e 700.000 unità a 3 milioni e 500.000, circa un occupato su sette. Con un’importante qualificazione: i nuovi segmenti, ossia spaccio, gig economy ed esternalizzazioni, sono tutti in forte espansione.
Con questo la descrizione del terzo e ultimo pilastro della società signorile di massa è conclusa, e possiamo intraprendere un nuovo viaggio: l’esplorazione della condizione signorile.

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