Tra politici, nazionali e regionali, virologi,
esperti vari e giornalisti, parole razionali e di buon senso, sull’ospedale di
Codogno arrivano da una persona all’interno dell’ospedale: “è sbagliato dire che quella notte è andato
tutto bene perché non è la verità. Ma era un’emergenza mai vista e non vale
accusare con il senno del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse
la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo anche che non era
facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E cerchiamo di imparare
dagli errori».
da: https://www.corriere.it/ - di Giusi Fasano e Simona Ravizza
La
decisione di fargli il test dopo un giorno e mezzo, infermieri a rischio
contagio richiamati in servizio. «Ci sono stati errori, ma tutti hanno dato il
massimo»
Il «paziente
1» entra in Pronto Soccorso, per la seconda volta, alle 3.12 di notte del 19
febbraio. Davanti ai dati che parlano di oltre la metà dei casi di contagio
negli 11 Comuni intorno a Codogno, s’impone la domanda: qualcosa non ha funzionato in quell’ospedale? Il dubbio l’ha instillato anche il premier Giuseppe Conte facendo infuriare il
governatore Attilio Fontana.
Trentasei
ore. È il tempo trascorso tra il ritorno di Mattia in Pronto soccorso (dov’era
già stato il giorno prima) e
il tampone per il coronavirus. Il test viene fatto intorno alle 16 del 20
febbraio. Dopo che il 38enne, maratoneta e calciatore per diletto, passa un
giorno e mezzo nel reparto di medicina. Lo vanno a trovare parenti e amici ed
entra in contatto con medici, infermieri e altri pazienti. Il test gli viene
fatto solo intorno alle 16 del 20 febbraio. Il motivo: «Non è di ritorno dalla Cina». In realtà, le linee guida del ministero della Salute
del 22 gennaio su chi va sottoposto al tampone, dicono che è da trattare come
caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un
deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato».
E una
polmonite per un 38enne sano e sportivo, in realtà, lo può essere. Ma la nuova
versione delle linee guida ministeriali
del 27 gennaio cancella quella frase e prevede controlli solo per chi ha
legami con la Cina. Così l’assessore alla Sanità Giulio Gallera ieri può andare
in Consiglio regionale a dire che l’ospedale di Codogno ha rispettato i
protocolli. Vero.
Eppure Mattia
per 36 ore resta in ospedale infetto senza che nessuno lo sappia e quindi
senza nessuna misura di contenimento. La conferma
che è davvero contagiato dal virus
arriva formalmente alle 21, sempre del 20. Ma per gli operatori di turno l’allerta rossa scatta che è quasi
mezzanotte. È soltanto a quell’ora che all’interno dell’ospedale vengono
informati tutti. E da quel momento in poi la situazione si fa complicata, per
non dire caotica. Dalle chat di familiari che hanno a che fare con medici,
infermieri e pazienti ricoverati, si riescono a ricostruire i passaggi di una
notte nella quale, per ore, si decide tutto e il contrario di tutto. È un frenetico consultarsi fra medici,
infermieri, direzione sanitaria, Regione, ministero della Salute.
Il «paziente
1» viene spostato in Rianimazione e contagia i due anestesisti che si
occupano di intubarlo, benché a questo punto siano protetti secondo il
protocollo. La prima ipotesi è chiudere
il Pronto soccorso e l’ospedale tenendo dentro chi c’è in quel momento. Poi
viene presa in considerazione l’idea di trasferire i pazienti in altri
ospedali. Medici e infermieri del turno di notte tornano a casa convinti di
cominciare un autoisolamento. E invece no: vengono richiamati più tardi, quando
ci sono anche gli altri colleghi del nuovo turno.
Nel corso
della giornata si decide chi di loro resta e chi torna a casa. Solo a
mattina inoltrata il Pronto soccorso si svuota e le porte dell’ospedale,
formalmente chiuso già da mezzanotte, vengono davvero rese inaccessibili: non
si esce e non si entra più. Ad oggi ci sono lavoratori che aspettano ancora
l’esito del tampone. In uno dei messaggi
scambiati via WhatsApp, un uomo dall’interno dell’ospedale (che non vuole
essere identificato) racconta a un amico che «è sbagliato dire che quella
notte è andato tutto bene perché
non è la verità. Ma era un’emergenza mai vista e non vale accusare con il senno
del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo
anche che non era facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E
cerchiamo di imparare dagli errori».
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