lunedì 27 aprile 2015

Raid Usa, morte di Lo Porto: “Che avevano da ridire quei due alla Casa Bianca”



da: Il Fatto Quotidiano

Lo Porto e i due presidenti: I “Buchi” dei rapporti Italia-Usa
I Servizi Segreti hanno collaborato? Cosa sapevano gli americani delle attività per localizzare l’ostaggio poi ucciso dal drone? Silenzi e strategia del male minore
di Enrico Fierro e Valeria Pacelli 


La verità sulla morte del cooperante italiano Giovanni Lo Porto è lontana. Forse, col tempo riusciremo ad acchiapparne pezzi sparsi, ma solo se riusciremo a orientarci nel tourbillon di informazioni che saranno fatte filtrare dagli Stati Uniti e dall’Italia. Sapendo, però, che si tratta di informazioni che alla base hanno una serie di interessi da soddisfare. Quelle made in Usa andranno tutte decriptate. Se a farle circolare sarà la Cia, la centrale investigativa responsabile dell’operazione in Pakistan con l’uso di un drone, avranno l’obiettivo di difendere pezzi e settori dell’organizzazione dalle ingerenze della Casa Bianca e dalle mire del Pentagono. Le veline e le soffiate di ambienti vicini ai nostri servizi saranno invece funzionali a dimostrare che il governo italiano, e Matteo Renzi in primo luogo, non sapevano del blitz di gennaio e meno che mai della morte del nostro cooperante.


È la strategia del male minore, accettare che l’intelligence americana ha fatto tutta da sola passando sulla testa degli 007 italiani, mettere nel conto critiche e giudizi sul peso dell’Italia nel rapporto con gli Usa, ma salvare la faccia del presidente del Consiglio. Sperare nell’efficacia degli strumenti parlamentari per arrivare a una verità accettabile, è pura utopia dopo lo squallore di un ministro degli Esteri che parla davanti ai banchi vuoti di Montecitorio. Con una opposizione presente e soprattutto degna del nome e della funzione, si sarebbero potute porre una serie di domande al ministro Paolo Gentiloni probabilmente utili per iniziare a ricostruire un percorso di verità. Così non è stato.



Aspettiamo martedì, quando il sottosegretario di governo con delega ai servizi segreti, Marco Minniti, dovrà riferire al Copasir, il Comitato parlamentare di controllo della nostra intelligence. Nell’attesa, proviamo noi a ragionare e a mettere insieme le tessere del mosaico.



Ricostruzione di una morte

Il blitz del drone targato Cia è del 14 gennaio di quest’anno, l’obiettivo da colpire è nella Shawal Valley, nel nord del Waziristan, un’area di montagna sul confine tra Pakistan e Afghanistan. Il Predator centra il target e ammazza i due cooperanti, Lo Porto e l’americano Weinstein. A quella data, quindi, Lo Porto è vivo.

La sua è una prigionia lunga, che dura dal 19 gennaio 2012. Questo è un primo dato che dimostra l’esistenza di contatti tra i rapitori e l’intelligence italiana. Non si tiene un ostaggio così a lungo in vita, con tutti i rischi e i “costi” che la sua gestione comporta, se non si vuole arrivare ad incassare un riscatto. Fonti dell’intelligence italiana fanno filtrare la notizia che già nel 2013 ci sarebbero stati contatti con la banda dei sequestratori, e parlano anche di una “pista” molto credibile per individuare l’area del covo dove Lo Porto era prigioniero attiva fino a dicembre scorso, quindi un mese prima dell’attacco americano. Informazioni arrivate all’intelligence italiana tramite confidenti e contatti locali.

Alleati che viaggiano su binari paralleli

E allora, una prima domanda da porre all’onorevole Minniti è la seguente: i servizi italiani hanno informato i colleghi americani sugli sviluppi della situazione, visto che sapevano che in quei mesi gli americani avevano scatenato in quell’area una vera e propria offensiva contro i covi qaedisti (si parla di almeno 30 operazioni con i Predator)?

Hanno “socializzato” le fonti informative sul campo, come si dovrebbe fare tra alleati?
Oppure, sapendo che gli americani sono contrari ad ogni forma di trattativa con i terroristi, hanno deciso di fare tutto da soli? Sono domande semplici, ma essenziali per capire lo sviluppo degli avvenimenti.
La Cia afferma di non aver saputo della presenza degli ostaggi nel covo bombardato. E c’è poco da credergli, perché non è necessario essere un esperto di strategie di intelligence per sapere che il monitoraggio di quelle aree attraverso i satelliti spia è continuo, soprattutto quando si devono preparare operazioni di attacco. La certezza che Lo Porto fosse vivo era tale almeno fino al 3 febbraio, quando nel suo discorso di insediamento il capo dello Stato, Sergio Mattarella, rivolge un pensiero accorato e denso di speranza alla liberazione dell’ostaggio.



Quirinale a sua insaputa
Delle due l’una, o i servizi italiani non sapevano della morte di Lo Porto, oppure, pur avendo se non la certezza, almeno dei sospetti, non hanno informato il Quirinale.
Punto finale da chiarire. Il 17 aprile, Renzi e Obama si incontrano riservatamente alla Casa Bianca. Il premier italiano mette sul piatto addirittura la possibilità di prolungare la presenza dei militari italiani in Afghanistan oltre la data stabilita e contravvenendo a quanto detto invece il 17 dicembre scorso dal ministro della Difesa Roberta Pinotti: ossia che il contingente di 750 militari nell’area di Herat si sarebbe pian piano ridimensionati in modo che a fine 2015 rimarranno solo 75 italiani, concentrati a Kabul.
L’Italia, quindi, dà il proprio sostegno agli americani, cedendo anche stavolta alla politica degli slogan, puntualmente dimenticati.
Ma in quell’incontro si sarebbe parlato anche di altro. Secondo indiscrezioni circolate e mai nettamente smentite, il presidente Usa avrebbe informato il capo del governo italiano della eventualità che un ostaggio italiano fosse una vittima collaterale del raid con il drone.
È questo un passaggio importante, che però non annulla un dato fin qui emerso: l’assoluta subalternità dell’Italia alle strategia Usa in materia di lotta al terrorismo qaedista su un campo difficile come quello pachistano-afghano. Mancanza di coordinamento tra servizi, informazioni tenute gelosamente nascoste agli alleati, tutto questo sarà certamente ammesso nei vari passaggi parlamentari.
L’importante, per il momento, è salvare la faccia del governo, del suo presidente e del ministro degli Esteri. La verità può attendere.

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