da: La Stampa
Un paranoide condannato per bancarotta
fraudolenta compie una strage a palazzo di Giustizia, ammazzando tra gli altri
anche un giudice, e immancabilmente salta su qualcuno a denunciare il clima
ostile creatosi intorno alla magistratura. Come se ad armare la mano omicida
fosse stata la polemica politica sulla responsabilità civile e le ferie dei
giudici. Come se quel magistrato fosse stato ucciso in quanto simbolo
dell’indipendenza delle toghe e non in quanto bersaglio di una resa dei conti
maturata nella testa di un uomo ossessivamente ripiegato sui fattacci suoi. (A
cui nessuno aveva pensato di togliere il porto d’armi dopo la condanna: è
questo, oltre alle difese colabrodo del tribunale, il vero mistero e il vero
scandalo).
Poiché la lista dei morti è completata da
un avvocato e da un socio dell’assassino, se ne deve forse dedurre che anche le
categorie degli avvocati e dei soci avrebbero diritto di lamentare un
atteggiamento persecutorio nei loro confronti? Gherardo Colombo ha sicuramente
parlato sotto l’impulso del dolore personale: quel giudice era un ex collega e
un amico. E prima di svalutare il lavoro dei magistrati bisogna sempre
ricordarsi, come ha fatto Mattarella, che operano in prima linea sulla carne
viva del Paese. Ma certe manipolazioni
emotive della realtà alimentano il
mostro nazionale del vittimismo. Mentre Colombo commentava un fatto di cronaca
nera per sottolineare il disagio della magistratura, altri trasformavano il
truffatore omicida in un prodotto della crisi economica. E così si perdeva di
vista che a uccidere e a morire non erano stati dei simboli, ma degli esseri
umani.
Nessun commento:
Posta un commento