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di Alfiero Grandi
Il 25 aprile è una data fondamentale per
l’Italia. La Liberazione dal fascismo e dall’occupazione nazista ne motivano
l’importanza, ma c’è anche qualcosa che arriva ad oggi.
E’ dalla spinta di libertà e di
rinnovamento della Liberazione che è iniziata una fase storica che è chiamata
da molti 2° risorgimento. Il parallelismo tra epoche diverse può essere
discutibile, quasi che la storia avesse una continuità, un fine, ma il
raccordo tra unità nazionale e liberazione è in buona parte giustificato. Dopo
l’unità d’Italia il carattere dello stato è rimasto oligarchico e l'evoluzione
economica e sociale, come sappiamo, ha creato le premesse di un divario tra
Nord e Sud ancora oggi non risolto.
Lo stato unitario è nato per iniziativa di
un’élite, non a caso il voto è stato limitato ad un’area ristretta di
cittadini, contribuendo così a mantenere una struttura sociale fortemente
gerarchizzata.
Gli sconvolgimenti seguiti alla prima e alla
seconda guerra mondiale hanno sovvertito le gerarchie dominanti, ma dopo la
prima guerra mondiale è arrivato il fascismo.
La Resistenza invece ha contribuito in modo
determinante ad affermare come soggetti della costruzione istituzionale e
politica dell’Italia masse popolari, prima subalterne, escluse dal potere. Con
la Resistenza sono entrate in campo idee nuove e rivoluzionarie per l’Italia,
che non ha avuto rivoluzioni precedenti, come la Francia.
Dopo la Liberazione il voto è stato esteso
a tutti i cittadini, uomini e donne. La Costituzione, dopo l’anticipo nel
referendum sulla forma istituzionale, ha sancito il voto per tutti e tutte.
Questo oggi appare scontato, sottovalutato.
La Costituzione ha sancito che la forma
repubblicana non può essere cambiata. Nessuno può farsi re, o imperatore.
Qualche commentatore, certo malevolo, ha accostato al nome Matteo il cognome
Bonaparte, per sottolineare alcune caratteristiche del modo di governare
attuale. Tuttavia i padri costituenti avevano già provveduto ad evitare derive
bonapartiste.
La Costituzione è largamente conseguenza
dell’ondata di cambiamenti e di speranze avviata dalla Resistenza e ne è la
sanzione più alta. Non a caso la difesa e l’affermazione dei valori della
Costituzione sono stati comuni per lungo tempo alle forze politiche
fondamentali della liberazione. Certo ci sono stati contrasti, anche molto
aspri, nel dopoguerra italiano, ma i valori costituzionali per lungo tempo sono
stati un faro che indicava un limite non valicabile. Una sorta di comune logica
repubblicana direbbe Pittit, studioso di questa tematica.
Tra la prima parte della Costituzione che
racchiude i valori fondamentali, ad esempio l’Italia è una repubblica fondata
sul lavoro, e la parte restante c’è sempre stato un equilibrio instabile.
Dall’inizio la realizzazione dei principi costituzionali è stato un impegno
politico non scontato. Basta pensare alla rimozione degli ostacoli
all’uguaglianza dei cittadini o alla concretizzazione dei diritti
all’istruzione, alla salute, alla tutela dell’infanzia e degli anziani o
all’introduzione dei diritti nei luoghi di lavoro. Le diversità economiche,
sociali, politiche hanno pesato, eppure l’assetto istituzionale ha consentito
che si svolgesse un cammino progressivo.
Oggi, al contrario, ci troviamo in una fase
regressiva e l’attacco all’articolo 18, quindi ai diritti dei lavoratori, è
stato condotto da un Presidente del Consiglio che è il segretario del Pd,
invertendo un lungo percorso di allargamento dei diritti dei lavoratori.
Le regole previste dalla Costituzione hanno
garantito per decenni che il confronto e lo scontro politico si svolgessero non
solo senza distruggere il terreno democratico, ma hanno consentito una
dialettica politica e sociale che ha visto fare passi avanti sia sul piano
sociale che nei diritti civili. A volte si è arrivati molto vicini a svolte
pericolose, ma è sempre scattato qualcosa che ha impedito di andare oltre il
segno. Questo ha consentito che malgrado una lotta politica serrata, a volte
tesa, la Costituzione restasse il riferimento per la convivenza nel nostro
paese e quindi andava salvaguardata.
Far saltare il banco non conveniva ad
alcuno e avrebbe aumentato le sofferenze delle parti più deboli. Errori
politici e comportamenti inadeguati all’esigenza di affidare le cariche
pubbliche a cittadini di specchiata moralità hanno in certe fasi innescato
spirali pericolose. Il travaglio è stato in certi momenti fortissimi, con
rischi di colpi di stato o di derive sovversive. Sottovalutare questi momenti,
anche per i dimostrati legami internazionali, sarebbe un errore, ma se l’Italia
ha retto è anche per il quadro delineato dalla Costituzione, erede della
Resistenza, che ha tracciato un quadro di una democrazia in costruzione,
consentendo avanzamenti nelle condizioni delle classi subalterne.
Oggi è bene essere preoccupati che
l’eredità della Resistenza possa essere smarrita, dissolta in logiche di
convenienze immediate. Le modifiche della Costituzione in discussione oggi
insieme alla legge elettorale possono portare l’Italia proprio in questa non
auspicabile direzione.
I cambiamenti vengono giustificati con il
bisogno di governabilità. E’ un aspetto da esaminare, ma c’è anche il bisogno
di non spingere parti crescenti del corpo sociale ed elettorale fuori dalla
dialettica democratica. In altre parole l’inclusione non è meno importante
della decisione. Se per decidere più in fretta si tagliano fuori parti del
paese si finisce con il caricare la molla dell’allontanamento di una parte
importante del corpo sociale ed elettorale. Quando questo accade la democrazia
non sta bene di salute. Come definire altrimenti il crollo al 37 % di votanti
per le regionali in Emilia Romagna, una delle regioni storicamente più
politicizzate d’Italia ?
Oggi prevale l’unilateralità del punto di
vista dominante.
Nell’impresa è la pretesa dell’imprenditore
di avere mano libera sul lavoro, quindi il lavoro è subalterno e quello che lo
tutela è un inutile impaccio.
Nella politica è la pretesa di una potestà
decisionale che riduce i cittadini ad elettori chiamati a votare ogni 5 anni
per assegnare il mandato a governare e l’opposizione non può avere altro
compito che prepararsi alle nuove elezioni, perché tutto verrà deciso dalla
maggioranza senza nessun impegno al confronto. La vocazione proporzionalista
che si legge in controluce nella Costituzione doveva evitare che ci fosse
incomunicabilità tra maggioranza e opposizione e tra Governo e cittadini, sia
nelle espressioni politiche che sociali. Infatti democrazia non è solo votare
ogni 5 anni.
Il Governo Renzi, stracciando convenzioni
scritte e non scritte vuole cambiare, imponendo al parlamento, ricattato dalla
minaccia di scioglimento, radicali modifiche della Costituzione e della legge
elettorale. I 2 aspetti sono inscindibili.
Con la legge elettorale un partito solo
avrà comunque una maggioranza schiacciante nell'unica camera decidente, non
foss’altro che per effetto del ballottaggio finale, e i deputati saranno in
maggioranza nominati dai “capi partito”, quindi fedeli al governo.
Con le modifiche della Costituzione il
Senato diventa un simulacro con meno poteri che non potrà nemmeno esercitare e
sarà anch’esso nominato da platee ristrette tra persone che hanno altro da
fare, una sorta di dopolavoro di lusso.
La Camera eletta con un sistema iper
maggioritario diventa l’unica sede politica, ma il governo avrà il potere di
fare approvare comunque i suoi provvedimenti in tempi rapidi, rendendo il
parlamento subalterno e asfittico. La Corte costituzionale e il Presidente
della Repubblica vengono così attratti nell’orbita della maggioranza. Queste
modifiche della Costituzione vanno semplicemente respinte insieme alla legge
elettorale. Chi non subisce il ricatto dello scioglimento anticipato del
parlamento se ne rende benissimo conto.
Non è la prima volta che vengono tentate
modifiche della Costituzione, ma finora non sono andate in porto. Questa volta
il pericolo è reale. Colpisce che si insista sul bisogno di cambiare senza la
necessaria prudenza e lo sguardo lungo che ebbero i costituenti. Guardando alle
modifiche fin qui abortite si potrebbe scoprire che la democrazia italiana è
stata garantita da questi fallimenti: dalla bicamerale al tentativo di
Berlusconi bocciato nel 2006. Un esempio. Il centro sinistra modificò il titolo
V, decentramento dei poteri, nel 2001. Una scelta infelice, foriera di
altri errori, che oggi nessuno difende. Eppure i proponenti e gli approvanti
non hanno fatto autocritica e anzi spingono oggi nella direzione del
riaccentramento dei poteri, rischiando un errore al contrario. Il nuovo titolo
V proposto da Renzi è un riaccentramento dei poteri nel Governo. Le regioni in
questi anni hanno demeritato, ma anzichè proporne un rilancio serio, ne viene
ridimensionato il ruolo senza criterio, soprattutto in materia territoriale.
Così i governi in futuro decideranno senza ascoltare. La Tav di val Susa ne è
un emblema. Renzi ne aveva parlato in modo critico nel suo libro del maggio
2013 ma oggi è tra le priorità del governo allegate al Def. Si delinea un
riaccentramento dei poteri e come ha detto Susanna Camusso si rischia una
torsione autoritaria. Se le modifiche della Costituzione e la nuova legge
elettorale verranno approvate la democrazia italiana funzionerà in modo molto
diverso da quanto previsto dalla Costituzione attuale e anche la prima parte,
quella che non dovrebbe essere toccata, in realtà cambierà perché tra principi
e modalità decisionali c’è uno stretto rapporto, come dimostrano il Jobs act e
la cancellazione dell’articolo 18 per i nuovi assunti.
Un potere politico incontrastato potrà
decidere tutto e se ne riparlerà solo dopo 5 anni. Non è la democrazia che la
Costituzione delinea, compreso il conflitto che è visto come funzione del
progresso, soprattutto dei subalterni. Eliminare il conflitto ed escludere i
subalterni dalle decisioni diventerebbe un serio pericolo per la democrazia
italiana, nata dalla Resistenza, e tornare al significato profondo del 25
aprile può aiutare tutti a comprendere i pericoli e a farvi fronte con una
risposta adeguata, per evitare futuri esiti infelici.
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