da: Il Fatto Quotidiano
Vale
70 miliardi l’anno, per i sindacati è la nuova frontiera dello
sfruttamento. La riforma di Renzi estende ancora la possibilità di usarli.
di Virginia
della Sala
Riviera romagnola, estate 2014. Un bagnino di 19 anni racconta al Fatto che, per assistere i bagnanti dalle 8 del mattino alle 8 di sera, sarà pagato
con i voucher lavoro. “Faccio orario completo per tre mesi e il datore di
lavoro mi paga a fine stagione – racconta –. Mi dà 2 mila euro tutti in
voucher. Poi mi richiama l’anno dopo”. Il ragazzo, per riscuoterli, dice che
dovrà andare in almeno dieci diverse tabaccherie. O dividersi tra posta, banca
e tabaccai. “Altrimenti si insospettiscono – dice –. Non che cambi nulla. Lo
sanno tutti come funziona il sistema dei voucher. O mi accontento di questo
metodo oppure il capo chiama un altro. Lavorare qui è sempre meglio che stare a
casa senza fare niente”.
E con
il Jobs Act, l’uso dei voucher è destinato ad aumentare. Milioni di pezzi
di carta per milioni di lavoratori Secondo i dati dell’Inps, l’Istituto
nazionale di previdenza sociale, in totale sono stati venduti 69.183.825 di
voucher. Considerando che l’Italia ha 60 milioni abitanti circa, è come se ogni
italiano ne avesse utilizzato almeno uno. E il volume economico che producono è pari a circa 70 miliardi di euro. Ad aprile 2012, in circolazione c’erano poco
meno di 29 milioni di buoni lavoro. Nel 2013 si era arrivati a 43 milioni. “È la più grande operazione di lavoro nero
legalizzato che ci sia nel nostro Paese – spiega Gugliemo Loy, segretario
confederale della Uil –. Non si può neanche parlare di vero rapporto di lavoro:
i vincoli sull’uso dei voucher sono
minimi. Ci sono solo i tetti: il datore di lavoro può elargire al massimo 2 mila euro in voucher per ogni
lavoratore, il lavoratore può guadagnare in voucher non più di 5 mila euro all’anno. Ma il datore di lavoro non ha limiti per quanto riguarda il numero di persone che può pagare con i voucher. Quindi potrebbe
anche cambiarne uno al giorno e utilizzarne 300 all’anno”.
Di
legge in legge, cosa sono e come funzionano.
L’uso dei buoni lavoro è legato al
cosiddetto lavoro occasionale accessorio, cioè quello che genera un reddito
netto inferiore a 5 mila euro all’anno. Un voucher costa 10 euro e corrisponde
al pagamento di un’ora di lavoro: 7,50 euro vanno al lavoratore, 1,30 euro alla
gestione separata dell’Inps, 70 centesimi sono destinati all’assicurazione
Inail e il resto compensa la gestione del servizio. L’intento con cui furono introdotti, nel 2003, era quello
di limitare il lavoro nero e riuscire a
tassare alcune attività saltuarie come il giardinaggio, l’assistenza
domestica, le ripetizioni private e gli altri tipi di impieghi occasionali
indicati nel decreto 276 del 2003. Poi, di legge in legge, di decreto in
decreto, di circolare in circolare, le limitazioni
sono cadute. Le prestazioni di
lavoro accessorio sono stata estese a quasi tutti i settori produttivi e a
tutte le categorie di lavoratori. E con il diminuire dei vincoli, è aumentato
il ricorso a questo tipo di rapporto di lavoro. “Una sicurezza per le aziende
nei periodi di crisi” “La formula funziona – spiega Elvira Massimiano,
responsabile delle politiche del lavoro di Confesercenti – soprattutto nei casi
in cui le imprese non riescono a far
fronte al carico di lavoro con il personale fisso”. Per la Massimiano, poi,
il tetto di 2 mila euro per le imprese è in alcuni casi troppo stringente. “Se
fosse più alto, molte categorie ne beneficerebbero. Penso ai tirocinanti e ai
praticanti: potrebbero essere pagati per il lavoro in più che fanno. Si
porterebbe alla luce molto lavoro nero. Ed è una formula che il Jobs Act sta
incentivando”. Secondo Confesercenti, i voucher lavoro sono utilizzati specie
nei casi in cui il datore non riesce a sostenere i carichi di lavoro ricorrendo
ai dipendenti regolarmente assunti. “È il caso dei weekend e della stagione
estiva per le attività del settore del turismo –dice, ma ammettendo anche che
si tratta dell’approdo degli imprenditori in difficoltà per la crisi –. Quando
un’azienda non può fare una programmazione a lunga durata sui costi del
personale, i voucher sono una salvezza”.
Negli anni, la vendita più estesa dei buoni
lavoro è stata registrata nei settori del commercio, del turismo, dei servizi e
di altre attività. Il primo decreto legge prevedeva, negli articoli dal 70 al
73, che il lavoro occasionale accessorio, pagato con i voucher, fosse riservato
a “piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compresa la assistenza
domiciliare ai bambini e alle persone anziane, all’insegnamento privato
supplementare, ai piccoli lavori di giardinaggio, nonché di pulizia e manutenzione
di edifici e monumenti, alla realizzazione di manifestazioni sociali, sportive,
culturali o caritatevoli, alla collaborazione con enti pubblici e associazioni
di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza, come quelli dovuti a
calamità o eventi naturali improvvisi, o di solidarietà”. L’intenzione
iniziale, però, è stata tanto snaturata che oggi questi settori rappresentano il
minor campo di applicazione per i voucher lavoro. E il Jobs Act prevede proprio
l’abrogazione degli articoli dal 70 al 73 del 276 del 2003. Liberalizzazione e
mancati introiti con la firma del governo “Quella dei voucher – spiega Corrado
Barachetti, responsabile mercato del lavoro della Cgil – è diventata una
politica principe di questo governo. Deve essere messa in cima alla scala della
precarietà. Il recente abbozzo delle riforme contrattuali, con accento sul
lavoro accessorio, rivede le tabelle pre Fornero e, alzando il tetto massimo di
guadagno, genera solo un aumento del lavoro precario”. Nel riordino dei
contratti previsto nel Jobs Act, infatti, i buoni subiranno un’ulteriore
liberalizzazione. La bozza del decreto analizzata in consiglio dei ministri lo
scorso 20 febbraio prevede che il limite di guadagno netto annuo per la
definizione del lavoro occasionale accessorio passi da 5 mila a 7 mila euro.
Secondo i rilievi della Uil i voucher
producono 70 milioni di euro di elusione fiscale ogni anno: gli oltre 46
mila lavoratori pagati con i voucher genererebbero un mancato gettito
dell’Irpef, l’imposta sul reddito, pari a 57,8 milioni di euro e un mancato
gettito dell’Irap, imposta sulle attività produttive, di 12,2 milioni. “Il voucher non è imponibile per l’Irap e
il lavoratore è esentasse – dice Loy della Uil – ed è pertanto un sistema
che spinge i lavoratori verso il basso. Altro che contratti a tutele crescenti.
Le aziende possono accordarsi e scambiarsi
i dipendenti e, come se non bastasse, creano un danno alle casse dello Stato”.
Zero tutele, nessun contratto, diritti col contagocce Sul sito stranierinitalia.it
, un utente chiede agli esperti: “Al
momento ho un permesso di soggiorno per attesa occupazione. Ho trovato una
persona che mi prende come babysitter e mi paga con i buoni lavoro. Posso
richiedere il rilascio del permesso di soggiorno con questo lavoro?” La
risposta è “no”, nonostante la maggior parte degli stranieri (quella non pagata
in nero) sia retribuita proprio con questa forma di pagamento. Il reddito
percepito con il lavoro accessorio ha un’utilità esclusivamente integrativa.
Con i buoni lavoro, insomma, non si
hanno diritti: non si matura il Tfr, il trattamento di fine rapporto, non si
maturano ferie, non si ha diritto alle indennità di malattia e di maternità, né
agli assegni familiari. “Fino a due anni fa – spiega Isabella Pavolucci,
della Filcam di Rimini – avevamo registrato un aumento del lavoro a intermittenza, quello cioè che permette al
datore di chiamare il dipendente quando ne ha bisogno. Non era il massimo per
il lavoratore, ma perlomeno poteva contare sulle garanzie e le tutele di un contratto.
Invece abbiamo notato che parallelamente
all’aumento della vendita dei voucher e alla loro graduale liberalizzazione,
c’è stata una conseguente diminuzione di questo tipo di contratti”. E con
il Jobs Act, dicono tutti, sarà anche peggio.
Il
punto debole dei controlli e dei pochi ispettori
Per rendere più tracciabili i voucher, sarà
introdotto l’obbligo per le aziende di acquistare i buoni solo
con modalità telematiche e quello di comunicare alla Direzione territoriale
del lavoro il luogo della prestazione e l’arco temporale in cui sarà usato (che
non può superare i trenta giorni successivi all’acquisto). “In questo modo l’Inps crede di poter controllare la
domanda – spiega Barachetti della Cgil –. Ma in realtà è una stupidaggine. Prima si acquistavano
in tabaccheria, ora per via telematica. Forse così si assicura in automatico il
contributo all’Inps ma non c’è alcuna operazione di controllo aggiuntiva. Il
committente può prendere un voucher e farlo valere per due, tre, quattro
prestazioni. Può far lavorare il dipendente 10 ore e pagarlo con soli cinque
voucher”.
Uno dei maggiori problemi dei voucher
lavoro è legato ai controlli.
L’ispettore del lavoro non può verificare orario d’inizio e fine del lavoro,
limitandosi ad appurare che siano stati pagati i contributi. Inoltre, sempre il
Jobs Act prevede la nascita di un’agenzia unica ispettiva del lavoro che dovrà
occuparsi di sicurezza, infortuni, contribuzione e rispetto delle norme
contrattuali. “Gli ispettori non riusciranno mai ad acquisire competenze
complete in tutti e tre i fronti – commenta Barachetti – né a tenere sotto
controllo in modo efficiente aziende e imprese. Quest’agenzia, prima di
nascere, sembra già essere depotenziata. Inoltre, tutti gli ispettori nominati
che avrebbero dovuto entrare in ruolo quest’anno, sono ancora precari. Non è
previsto un euro per loro. Già sono sotto organico, figuriamoci se riusciranno
a vigilare anche sui voucher”.
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