da: Il Fatto Quotidiano
Martedì
si chiude la presidenza senza risultati concreti sui conti pubblici.
Ma
resiste il trattato di libero scambio con gli Stati Uniti e l’U.E più morbida
con la Russia.
Aveva parlato di una Europa affidata alla
“generazione Telemaco” che deve “meritare l’eredità dei padri”, di una “smart
Europe”, della “dignità della politica”. Ma soprattutto aveva evocato
“flessibilità” nei conti pubblici. Era il 2 luglio 2014, a Strasburgo. Martedì
il premier Matteo Renzi tornerà davanti al Parlamento europeo per chiudere il
semestre di presidenza italiano, ora tocca alla Lettonia. Ed è quindi il
momento di un bilancio. A guardare i risultati sul dossier
principale, quello economico, verrebbe da dire che nulla è successo. Renzi si
prende il merito di una maggiore attenzione alla flessibilità (sia pure quella
“prevista dai trattati”) nei comunicati finali delle riunioni dei Consigli
europei. Ma questi vaghi accenni si leggono da almeno tre anni. E nella pratica
regole sono ancora durissime, come dimostra il fatto che la Commissione
riconosca a Roma una riduzione del deficit strutturale dello 0,1 per cento
invece che lo 0,4 vantato dal governo.
L’Italia si intesta anche il piano di
investimenti pubblico-privati da 300 miliardi di Jean Claude Juncker, ma il
presidente della Commissione lo ha annunciato in
Parlamento il 15 luglio, solo
dodici giorni dopo il discorso di Renzi. Un po’ forzato darne il merito a
palazzo Chigi. Renzi non ha cambiato verso all’Europa, anche perché da quando
esiste un presidente permanente del Consiglio europeo (2009, prima Herman van
Rompuy, oggi Donald Tusk) la presidenza semestrale di un Paese membro conta
molto meno. Poltrone e Russia, effetto Mogherini.
Però in questi sei mesi sono successe molte
cose. Nei documenti interni di Palazzo Chigi tra i risultati concreti c’è la
“transizione istituzionale senza intoppi”: in effetti la tigna con cui Renzi ha
preteso la poltrona di Alto rappresentante per la politica estera per Federica
Mogherini ha contribuito a trovare l’incastro complessivo delle cariche di
vertice dopo le elezioni europee di maggio. Con la Mogherini, del Pd e dunque
socialista, sull’unica poltrona della Commissione che pesa anche nel Consiglio
(cioè nel coordinamento dei governi), è diventato possibile mandare un popolare
alla presidenza del Consiglio anche se già ce n’era uno alla Commissione.
Juncker e Tusk. Non tutti sono convinti che sia stata la scelta giusta per
l’Italia (molto prestigio ma pochi benefici concreti) o per i socialisti (che
magari con Enrico Letta avrebbero potuto ambire al Consiglio), ma certamente la
nomina della Mogherini è stata importante nella partita delle poltrone. E anche
per ammorbidire la linea dell’Unione nei confronti della Russia di Vladimir
Putin: Renzi considera un successo che sotto la presidenza italiana il
dibattito si stia spostando da “sanzioni più dure” al dialogo costruttivo. La
Mogherini è andata in Russia (e in Ucraina) all’inizio del semestre, quando era
ancora alla Farnesina, e il presidente russo è venuto al vertice coi Paesi
asiatici organizzato a Milano. In quell’occasione Putin ha snobbato la cena di
gala per andare dal suo amico Silvio Berlusconi ad Arcore. Ma per Renzi sono
dettagli, quel che conta è che l’Italia ha perseguito una Realpolitik
decisamente filorussa che ha influito sulla linea europea, pur attenuando i
toni visto che la Germania ha spinto l’Europa in direzione anti-Putin.
Salvare
il libero scambio con gli Stati Uniti
Il tavolo su cui l’Italia ha pesato di più
è stato il negoziato con gli Stati Uniti. Durante il semestre, più volte la
delicata trattativa sul Ttip – il trattato di libero scambio che abbatte le
barriere non tariffarie (standard tecnici, controlli, protezioni legali ecc.)
– è sembrata naufragare. Troppo contraria l’opinione pubblica tedesca, freddi
gli americani che sono impegnati anche a negoziare con i Paesi dell’Asia,
sempre ostili i francesi protezionisti, poco incisiva la Gran Bretagna di David
Cameron. Renzi ha schierato l’Italia a difesa del trattato, che anche in Italia
comincia a suscitare qualche protesta. E dalla presidenza dei tavoli tecnici
dei consigli di settore il viceministro dello Sviluppo economico, Carlo
Calenda, ha dovuto tradurre l’input politico. Prima ha imposto un po’ di
trasparenza sul negoziato segreto: serviva l’unanimità dei 28 Paesi coinvolti,
molti erano contrari. Calenda ha minacciato di rivelare i nomi di quelli che si
opponevano, così da attirare su di loro gli strali del movimento anti-Ttip
(cos’avranno da nascondere?). Ora il mandato è pubblico e ci saranno dei report
dopo i round negoziali, anche per neutralizzare le frequenti fughe di notizie.
Poi Calenda – sostenuto da Renzi nel Consiglio europeo – ha imposto il
principio che o si chiude entro il 2015 o salta tutto. Questo, almeno per il
momento, ha salvato il negoziato dalle resistenze tedesche e dallo scetticismo
americano, visto che a Washington sono perplessi dalle oscillazioni dei grandi
Paesi europei: tedeschi e francesi avevano chiesto a Juncker di riaprire il
mandato negoziale per togliere la clausola Isds (la possibilità di ricorrere a
un foro giudiziale terzo nei contenziosi tra un Paese firmatario del trattato e
un’azienda), che dai contestatori è vista come un modo di aggirare le
legislazioni nazionali. Ricominciare da zero avrebbe ucciso i negoziati,
l’Italia si è opposta con l’argomento che la clausola è applicata dalla
Germania in tutti i suoi trattati bilaterali e toglierla con gli Usa sarebbe un
pessimo viatico per successivi negoziati, specie con Paesi dalle leggi incerte
come la Cina.
Il
pareggio di Galletti sui sacchetti di plastica
Tra le prime mosse della nuova Commissione
Juncker c’è stato lo sfoltimento dell’agenda legislativa: il vicepresidente
Frans Timmermans voleva cancellare un pacchetto di norme su rifiuti e ambiente
che l’Italia, forte della presidenza, ha difeso. Noi abbiamo una delle leggi
più restrittive sui sacchetti di plastica, e le nuove regole in discussione
prevedono un massimo di 40 sacchetti a persona entro il 2025 e la possibilità
di bandire le sporte inquinanti o di farli pagare. Timmermans era determinato
ad affondare il pacchetto, giudicato non prioritario. Il ministro dell’Ambiente
Gianluca Galletti si è opposto e, almeno per ora, Timmermans ha desistito.
Molte cose sono successe, anche se non esattamente quelle promesse da Renzi.
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