da: Corriere della Sera
I compromessi, come i funghi, si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi. È commestibile il compromesso raggiunto sulla legge elettorale? Perché di questo, in ultimo, si tratta: l’Italicum che sta per varcare l’uscio del Senato non è la legge di Renzi, né di Berlusconi. Il primo avrebbe preferito i collegi uninominali (intervista al Messaggero , 25 aprile 2012). Il secondo ha ingoiato il doppio turno, e ha pure dovuto digerire il premio alla lista, anziché alla coalizione. Ma non è generosità, è realismo. Perfino Lenin, nel settembre 1917, scrisse che in politica non si può rinunziare ai compromessi.
E a noi popolo votante, quanto ci
compromette il compromesso? Per saperlo, bisogna innanzitutto togliersi un
Grillo dalla testa: che da qualche parte esista un sistema perfetto, dove
l’elettore sia davvero sovrano. No, non c’è. I candidati li decidono i partiti,
mica noi. Anche con l’uninominale, la nostra scelta è sempre di secondo grado.
Rousseau diceva che il cittadino è libero soltanto quando vota, dopo di che per
5 anni torna schiavo.
Sbagliava: non siamo del tutto liberi
nemmeno in quell’unica giornata.
Però c’è prigione e prigione. La più buia
era il Porcellum: premio di maggioranza senza limiti, parlamentari senza voto.
Di quanto si sono poi allargate le sbarre
della cella? Di un bel po’, diciamolo;
specie se mettiamo a confronto l’ultima
versione dell’ Italicum con il suo primo stampo. Per farlo, basta puntare gli
occhi su una lettera dell’alfabeto: la
«P».
Premio,
pluricandidature, preferenze, parità di genere, primarie, percentuali per
l’accesso ai seggi: è su questi campi che si gioca la partita
dei partiti.
E dunque, il premio di maggioranza. In origine
scattava con il 35% dei consensi,
poi al 37%, ora al 40%. Meglio così,
la forzatura suona meno forzata.
Quanto alla soglia di sbarramento
per i piccoli partiti, l’8% è diventato
il 3%; ma dopotutto, se la governabilità discende dal premio, non aveva
senso negare l’accesso in Parlamento alle forze politiche minori. Progressi
pure sulle quote rosa: la Camera
aveva detto no, il Senato dice sì. Però regressi sulle pluricandidature: da 8 a
10, come se Buffon giocasse in tutti i ruoli. E niente da fare sulle primarie obbligatorie, che avrebbero
restituito un po’ di peso agli elettori. Infine le preferenze: subentrano alle liste bloccate, anche se restano bloccati i capilista. E clausola di
salvaguardia rispetto all’abolizione del Senato elettivo, un altro punto che
mancava nell’accordo originario.
Si poteva fare meglio? Certo, ma anche
peggio. Tuttavia c’è un’altra «P» da
scrivere a margine di questa legge elettorale: il nuovo presidente. Toccherà a lui compensare
la «P» del premier, che ne esce più forte che mai. Se viceversa al Colle entrerà una sua controfigura, in futuro i compromessi Renzi potrà farli con se
stesso.
Nessun commento:
Posta un commento