da: Il Fatto Quotidiano
Inutile
delocalizzare
La Cina è qui da noi: le griffe
sfruttano il lavoro come a Prato
“Nelle
filiere italiane pochi soldi e turni anche di 12 ore, spesso in nero”
di Virginia
Della Sala
L’itinerario nel settore della moda italiana inizia dalla Riviera del Brenta, in provincia di Venezia, famosa per il settore calzaturiero. Ci sono più di 550 aziende, le grandi griffe hanno evitato che il distretto collassasse durante la crisi economica, ma hanno divorato le imprese artigianali. I proprietari delle aziende locali sono stati assunti come operai specializzati. Per sopravvivere si deve sottostare a ritmi massacranti: “Hanno installato la manovia elettrica per andare più veloci – raccontano – e poi hanno aumentato le ore perché bisognava consegnare. Erano lì con il camion, pronti ad andare via. Non c’era più tranquillità. Ti dicevano: ‘Si devono fare 90 paia di scarpe per domani sera’. Si lavorava anche il sabato e fino a 12 ore al giorno nel momento del boom: le suole e i tacchi che non arrivano e devi fare tutto di fretta - prosegue - Invece di finire alle cinque e mezza finisci alle otto. E dovevi fare tutto molto bene perchè andavano in sfilata”.
In Riviera c’è poca rappresentatività
sindacale e i rari iscritti sono stranieri che hanno bisogno di spiegazioni
burocratiche. “Tra le varie griffe - si legge nell'ultimo rapporto elaborato
dalla campagna “Abiti Puliti” - sembra che Prada
sia quella in cui i rapporti sindacali
sono più complicati e le condizioni di lavoro più critiche. D’altra parte,
Prada è l’unica delle grandi case
del lusso che applica il contratto di
lavoro del cuoio sebbene la
produzione sia calzaturiera”. Questo tipo di contratto è più basso come
livello economico rispetto a quello tessile o calzaturiero. L'azienda,
contattata dal Fatto, non ha fornito, per ora, alcuna risposta. Ma altri nomi
si ripetono spesso nello studio: Louis
Vuitton, che contattata ha risposto di non “commentare questo genere di
dati”. Dior, che dopo aver richiesto
l'invio di una mail con specifiche domande, non ha fornito risposta. Armani, stessa situazione. Fendi, il
cui telefono ha squillato a vuoto. Ferragamo: anche in questo caso richieste di
mail e poi nulla. Il loro ruolo nelle vicende non è diretto. Spesso, però, le
imprese che applicano condizioni disumane appartengono alla filiera di
subappalti che ha origine proprio dalle grandi griffe.
Gli
asiatici in Toscana producono per i big della moda
In Toscana, nel distretto tessile di Prato,
l'80% delle imprese è a conduzione cinese. Una “filiera nella filiera”, portata
alla luce dopo l'incendio del dicembre 2013, senza permessi di soggiorno, con
rapporti di lavoro irregolari, pagamenti in nero, evasione fiscale, orari di
lavoro prolungati, luoghi insalubri. Ma il dato che stupisce è che l’allarme
del mondo imprenditoriale è stato lanciato solo quando le ditte cinesi sono
uscite dal loro tradizionale ruolo di terziste per assumere il controllo di
tutte le fasi, dalla produzione alla distribuzione. Già nel 2003, uno studio di
Antonella Ceccagno sul distretto tessile multietnico toscano sottolineava come,
tra gli imprenditori cinesi subfornitori di aziende italiane, i nomi più citati
fossero quello di Armani, Ferré, Valentino, Versace e Max Mara. Giovanna, che
invece è italiana, racconta nel rapporto: “Cucivo le tomaie da casa a mano, con
ago e filo. Io e mio figlio facevamo 20-30 paia al giorno. Mi pagavano al paio.
In nero. Ti svegliavi alle 6 del mattino
e fino alla sera tiravi tutto il giorno il filo. Perché devi fare questo
movimento, così - racconta mimando il gesto - Per tutto il giorno, per prendere
poi alla fine del mese 500, 600 euro”.
Dalle finestre a livello strada delle
cantine dei vicoli di Napoli si vedono spesso operai impegnati a cucire nei
sottoscala. Attraversando un ponte della zona industriale è facile notare
laboratori con file di macchine per cucire attive a qualsiasi ora del giorno.
Sono imprese conto terzi che producono per le aziende locali e le grandi firme
nazionali. Ambientiincuiprevaleilricorsoallavoro nero, che sfocia nel sommerso
e nelle produzioni cosiddette “parallele” (a servizio anche delle distribuzioni
legali). A Napoli, il lavoro si tramanda, i laboratori sono casalinghi e familiari
e si lavora anche in età scolare. Marco, che è un tagliatore, addetto ai
tessuti, racconta di aver iniziato a 14 anni. “Ero impiegato nell’azienda di
mio zio, una ventina di persone. Producevamo completi da donna per i grossisti.
La maggior parte dei dipendenti era irregolare”.
Inutile
andare all’estero, meglio importare lo sfruttamento del lavoro in Italia
Oggi, il problema è l'attribuzione di
responsabilità. È colpa dei grandi marchi a capo della filiera o di chi
subappalta? “Non esiste, a livello internazionale, una legge che obblighi le
grandi case di moda ad avere il controllo su tutta la filiera di produzione. E
così per quanto riguarda lo sfruttamento del lavoro in Italia le aziende
possono alzare le spalle e dire 'non ne sapevo nulla'” spiega al Fatto
Francesco Gesualdi, che ha curato il rapporto “Abiti puliti”. “ Per salari più
bassi e condizioni di lavoro infime, non c'è più bisogno di delocalizzare -
continua - Si fa direttamente qui”. Partendo dal paniere Istat, emerge che il
salario degli operai dell'abbigliamento italiano è inferiore a quanto
necessario per vivere dignitosamente. “È assurdo se si considera quanto costa
una borsa griffata o quanto spendono i grandi marchi solo in pubblicità. Si
parla del 10% di tutti i ricavi”. Così, cresce il fenomeno del backreshoring,
ovvero del ritorno in patria delle aziende di moda che avevano inizialmente
delocalizzato. “Gli conviene - spiega Gesualdi - perchè importano lo stesso
modello dell'Europa dell'Est, con la classe politica compiacente, col Jobs act
che riduce le tutele. Le aziende hanno tutto dalla loro parte e il governo è
compiacente. Che bisogno c'è di andare in Cina o Bangladesh se i lavoratori
italiani sono trattati allo stesso modo? ”.
Intanto, Benetton rifiuta di risarcire le
vittime del crollo di Rana Plaza, a Dacca in Bangladesh, che nel 2013 provocò
1.129 vittime e 2.515 feriti. “Si ostina a respingere la sua responsabilità,
nonostante tutte le prove della sua presenza in quella fabbrica – spiega
Gesualdi –. Chiediamo che Benetton versi 5 milioni di dollari nel Fondo
istituito, tramite l’Onu, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Una
cifra proporzionale all’entità dei profitti che il gruppo realizza e ha
realizzato anche grazie al Rana Plaza”. All'accusa, mossa a dicembre da “Abiti
Puliti”, Benetton aveva risposto dicendo di star operando tramite
un'organizzazione non governativa, con un sostegno finanziario e corsi di
formazione per 280 vittime e le loro famiglie. Un’iniziativa che, secondo
“Abiti Puliti”, è “solo beneficenza”. E non ha nulla in comune con i diritti
dei lavoratori.
Nessun commento:
Posta un commento