giovedì 8 gennaio 2015

Adriano Sofri: “Il fondamentalista e l’agente Ahmed, uccidere e morire in nome di Allah”



da: la Repubblica
Il fermo immagine del poliziotto ferito al suolo e finito con naturalezza meccanica dallo sparatore, indifferente al braccio alzato in cerca di pietà, ha un’invincibile doppiezza: noi lo guardiamo con raccapriccio, ma altri avranno esultato.

Gli assassini urlavano “Allahu Akbar”, il poliziotto si chiamava Ahmed. Quando ieri le aperture in rete dei giornali hanno scelto il fermo immagine del poliziotto ferito al suolo, raggiunto e finito con indifferente esattezza dal suo sparatore, non conoscevano il nome del morente. Si chiamava Ahmed, dunque quando ha avuto ancora la forza di alzare un braccio, forse per un gesto estremo di protezione, forse per chiedere pietà — che cosa c’è di più umano che aspettarsi pietà anche dal proprio assassino? — può aver pronunciato anche lui, in altro tono, il nome di Allah?
Hanno ammazzato Wolinski e Ahmed, e gli altri. Non abbiamo, quando scrivo, immagini dell’eccidio perpetrato dentro le stanze di Charlie Hebdo: meglio così, o forse no. Forse avremmo dovuto guardarli questi efficienti vigliacchi mentre trucidavano — e chissà quante lodi al loro Dio gridavano — uomini normalmente coraggiosi che facevano dei disegni. Forse gli assassini avevano una telecamera incorporata e si metteranno in rete, per riscuotere l’ovazione dei compagni di
ideali. Le immagini hanno un’invincibile doppiezza. Abbiamo il film della fucilerìa in strada, il poliziotto inerme e sgomento ferito da lontano e finito mentre si torce al suolo. Gli assassini gli sono addosso di corsa, uno copre dal centro della strada, l’altro gli dà il colpo di grazia, con una naturalezza meccanica, come in un’esercitazione ripetuta cento volte, come in un videogioco. Gridano che Allah è grande.

Guardiamo con raccapriccio. Altri avranno guardato con entusiasmo. Il terrorismo offre al suo pubblico pagante due gratificazioni preziose: i nemici uccisi a saziare il loro odio, l’efficienza sanguinaria a saziare la loro frustrazione. Fossero stati suicidi, avrebbero guadagnato la venerazione che i “martiri” meritano da parte dei correligionari invasati. Sono andati via vivi, agili, sicuri di sé, avendo ragione di tre successive pattuglie di polizia, fino alla beffa: l’automobilista derubato che chiede e ottiene di tenersi il cagnolino. In una parola: professionali. Vere teste di cuoio, al cui confronto i poliziotti fanno figura di bravuomini allo sbaraglio. Sono anni che sentiamo parlare di guerra asimmetrica: non sarebbe che un nuovo nome assegnato al divario fra le armate regolari, inceppate dalla propria stessa potenza, e la guerra di guerriglia. Salvo che l’ebbrezza islamista ha messo in scena la novità della ricerca del martirio: non l’antica eroica disposizione a sacrificare la vita per un ideale — «siam pronti alla morte…» — ma il desiderio goloso di morire uccidendo e guadagnarsi il premio.

Di questa guerra non si può venire a capo, la si può arginare, e tagliarle intanto sotto i piedi l’erba di una cultura delirante. Ma il film di ieri dentro Parigi — la città di ognuno di noi — ha mostrato una guerra asimmetrica alla rovescia. L’efficienza militare dispiegata dai terroristi che soverchiava l’impotenza sbigottita della difesa di un grande Stato. Si capisce, certo: chi decida di squarciare ferocemente l’ordine della vita quotidiana dispone di una potenza provvisoriamente smisurata. Lo conosciamo anche dal nostro terrorismo. Il precedente più agghiacciante, e più pertinente, è l’impresa di un uomo solo, Anders Breivik 2011, cui riuscì una strage enorme, anche allora in due tappe, l’attentato nel centro di Oslo e poi il massacro sull’isolotto di Utoya. Viltà e prodezza sanguinaria non sono infatti in contrasto, e Breivik fece strage di ragazzi e uomini di ogni credo in nome della sua crociata contro l’invasione islamista. Da allora l’infame non ha cessato di proclamare che un giorno l’Occidente lo rivendicherà come il proprio antiveggente eroe e martire.
I servizi di scorta e di vigilanza si possono organizzare molto meglio, ma in una città libera e serena gli assassini potranno sempre colpire e far male. L’asimmetria nella folla serena delle democrazie gioca a loro vantaggio, se non a far che vincano, che sfoghino il loro furore. Il commando di ieri non è di lupi solitari obbedienti all’appello jihadista a colpire chiunque e dovunque. Ma ha comunque a che fare con la guerra di civiltà che infuria nel vicino oriente, e non solo. Lì la cosiddetta guerra non è più solo asimmetrica, e rischia anzi di esserlo anche lì alla rovescia.

C’è un terrorismo che si è fatto Stato, si è preso un territorio cancellandone i confini, ha armamenti pesanti, esercita un richiamo su paesi molto più remoti. La sua propaganda si fonda sull’impressione ipnotica di potenza, efferatezza e vittoria. La cosiddetta comunità internazionale, che aveva lasciato andare la Siria allo sbaraglio per anni, ha esitato ed esita ancora a stroncare la sfida jihadista, benché la forma che ha preso consenta una resa dei conti più netta e risolutiva. L’inerzia verso la Siria spande nel mondo, compreso il nostro, milioni di scacciati e spogliati. L’esitazione verso il Califfato tramuta gli invasati nelle nostre città, commando agguerriti o lupi solitari, in sue avanguardie. Abbiamo ucciso Charlie Hebdo , hanno gridato. Siamo tutti Charlie Hebdo, hanno scandito poi i cittadini nelle piazze. Se solo riuscissimo a prenderlo sul serio.

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