da: la Repubblica
Il
fermo immagine del poliziotto ferito al suolo e finito con naturalezza
meccanica dallo sparatore, indifferente al braccio alzato in cerca di pietà, ha
un’invincibile doppiezza: noi lo guardiamo con raccapriccio, ma altri avranno
esultato.
Gli assassini urlavano “Allahu Akbar”, il
poliziotto si chiamava Ahmed. Quando ieri le aperture in rete dei giornali
hanno scelto il fermo immagine del poliziotto ferito al suolo, raggiunto e
finito con indifferente esattezza dal suo sparatore, non conoscevano il nome
del morente. Si chiamava Ahmed, dunque quando ha avuto ancora la forza di
alzare un braccio, forse per un gesto estremo di protezione, forse per chiedere
pietà — che cosa c’è di più umano che aspettarsi pietà anche dal proprio
assassino? — può aver pronunciato anche lui, in altro tono, il nome di Allah?
Hanno ammazzato Wolinski e Ahmed, e gli
altri. Non abbiamo, quando scrivo, immagini
dell’eccidio perpetrato dentro le stanze di Charlie Hebdo: meglio così, o forse
no. Forse avremmo dovuto guardarli questi efficienti vigliacchi mentre
trucidavano — e chissà quante lodi al loro Dio gridavano — uomini normalmente
coraggiosi che facevano dei disegni. Forse gli assassini avevano una telecamera
incorporata e si metteranno in rete, per riscuotere l’ovazione dei compagni di
ideali. Le immagini hanno un’invincibile doppiezza. Abbiamo il film della
fucilerìa in strada, il poliziotto inerme e sgomento ferito da lontano e finito
mentre si torce al suolo. Gli assassini gli sono addosso di corsa, uno copre
dal centro della strada, l’altro gli dà il colpo di grazia, con una naturalezza
meccanica, come in un’esercitazione ripetuta cento volte, come in un
videogioco. Gridano che Allah è grande.
Guardiamo con raccapriccio. Altri avranno
guardato con entusiasmo. Il terrorismo offre al suo pubblico pagante due
gratificazioni preziose: i nemici uccisi a saziare il loro odio, l’efficienza
sanguinaria a saziare la loro frustrazione. Fossero stati suicidi, avrebbero
guadagnato la venerazione che i “martiri” meritano da parte dei correligionari
invasati. Sono andati via vivi, agili, sicuri di sé, avendo ragione di tre
successive pattuglie di polizia, fino alla beffa: l’automobilista derubato che
chiede e ottiene di tenersi il cagnolino. In una parola: professionali. Vere
teste di cuoio, al cui confronto i poliziotti fanno figura di bravuomini allo
sbaraglio. Sono anni che sentiamo parlare di guerra asimmetrica: non sarebbe
che un nuovo nome assegnato al divario fra le armate regolari, inceppate dalla
propria stessa potenza, e la guerra di guerriglia. Salvo che l’ebbrezza
islamista ha messo in scena la novità della ricerca del martirio: non l’antica
eroica disposizione a sacrificare la vita per un ideale — «siam pronti alla
morte…» — ma il desiderio goloso di morire uccidendo e guadagnarsi il premio.
Di questa guerra non si può venire a capo,
la si può arginare, e tagliarle intanto sotto i piedi l’erba di una cultura
delirante. Ma il film di ieri dentro Parigi — la città di ognuno di noi — ha
mostrato una guerra asimmetrica alla rovescia. L’efficienza militare dispiegata
dai terroristi che soverchiava l’impotenza sbigottita della difesa di un grande
Stato. Si capisce, certo: chi decida di squarciare ferocemente l’ordine della
vita quotidiana dispone di una potenza provvisoriamente smisurata. Lo
conosciamo anche dal nostro terrorismo. Il precedente più agghiacciante, e più
pertinente, è l’impresa di un uomo solo, Anders Breivik 2011, cui riuscì una
strage enorme, anche allora in due tappe, l’attentato nel centro di Oslo e poi
il massacro sull’isolotto di Utoya. Viltà e prodezza sanguinaria non sono
infatti in contrasto, e Breivik fece strage di ragazzi e uomini di ogni credo
in nome della sua crociata contro l’invasione islamista. Da allora l’infame non
ha cessato di proclamare che un giorno l’Occidente lo rivendicherà come il
proprio antiveggente eroe e martire.
I servizi di scorta e di vigilanza si
possono organizzare molto meglio, ma in una città libera e serena gli assassini
potranno sempre colpire e far male. L’asimmetria nella folla serena delle
democrazie gioca a loro vantaggio, se non a far che vincano, che sfoghino il
loro furore. Il commando di ieri non è di lupi solitari obbedienti all’appello
jihadista a colpire chiunque e dovunque. Ma ha comunque a che fare con la
guerra di civiltà che infuria nel vicino oriente, e non solo. Lì la cosiddetta
guerra non è più solo asimmetrica, e rischia anzi di esserlo anche lì alla
rovescia.
C’è un terrorismo che si è fatto Stato, si
è preso un territorio cancellandone i confini, ha armamenti pesanti, esercita
un richiamo su paesi molto più remoti. La sua propaganda si fonda
sull’impressione ipnotica di potenza, efferatezza e vittoria. La cosiddetta
comunità internazionale, che aveva lasciato andare la Siria allo sbaraglio per
anni, ha esitato ed esita ancora a stroncare la sfida jihadista, benché la
forma che ha preso consenta una resa dei conti più netta e risolutiva.
L’inerzia verso la Siria spande nel mondo, compreso il nostro, milioni di
scacciati e spogliati. L’esitazione verso il Califfato tramuta gli invasati
nelle nostre città, commando agguerriti o lupi solitari, in sue avanguardie.
Abbiamo ucciso Charlie Hebdo , hanno gridato. Siamo tutti Charlie Hebdo, hanno
scandito poi i cittadini nelle piazze. Se solo riuscissimo a prenderlo sul serio.
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