lunedì 12 gennaio 2015

Il cinema che non c’è più: Francesco Rosi



Una delle dimostrazioni che siamo in piena crisi culturale è nell’assenza, da ancora più di anni di quanti siano quelli attraversati dalla crisi economica, di registi che sappiano raccontare con i loro film la realtà del nostro paese. Così come non abbiamo cantautori e musicisti del livello di Lucio Dalla e Pino Daniele. Qualche starletta uscita dai talent show che svanisce rapidamente, qualche starletta che rimane visibile tramite poppazza. Artisti, cinematografici e musicali = zero. Vedere l’età media dei grandi artisti per rendersi conto del vuoto nel quale viviamo da anni. 


da: La Stampa

Il cinema come impegno civile
L’addio al regista che ha messo il dito nelle piaghe dell’Italia contemporanea. Per lui ogni film era una battaglia, da combattere a viso aperto
di Fulvia Caprara

Il piglio da condottiero, il tono deciso, i modi diretti e una curiosità insaziabile per il mondo e per i suoi abitanti. Francesco Rosi era così. Dai tempi dell’esordio, con La sfida, nel 1958, radiografia della camorra del tempo «praticata da piccoli boss locali su contadini taglieggiati» agli ultimi anni, inquinati dal dolore insuperabile per la morte della compagna Giancarla, ma
anche rischiarati dai tributi, dagli omaggi, soprattutto dalla vicinanza e dall’affetto degli amici e dei colleghi che con lui dividevano la passione fondante della vita: «Il cinema è conoscenza - diceva Francesco Rosi, scomparso ieri nella sua casa romana -, un grande mezzo di comunicazione che permette di offrire testimonianze sulla realtà».
Nel nome di questa certezza, Rosi ha costruito il suo percorso di regista di fama internazionale, inventore di un cinema che ha fatto scuola, ma anche, e soprattutto, di testimone della storia d’Italia: «Dai miei film non vengono mai fuori celebrazioni di personalità deviate, ma piuttosto il quadro dei rapporti tormentati tra giustizia e illegalità». Una lente usata fin dall’inizio, dopo gli anni di scuola a Napoli, dopo la giovinezza divisa con Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli e Giorgio Napolitano, che e come lui s’interessava di teatro, dopo gli studi di giurisprudenza, dopo l’infanzia in epoca fascista : «Sono nato - raccontava a Giuseppe Tornatore - nel novembre del ’22, l’anno della marcia su Roma, lo stesso giorno in cui nacque Salvatore Giuliano. Bisognava portare la divisa da balilla, poi da avanguardista, una volta ero a un’adunata senza uniforme, si incazzarono, fui punito». Più tardi la ribellione diventò voglia di capire, di indagare, e con quella spinta Rosi iniziò a fare cinema, avventurandosi ogni volta sui territori più accidentati della realtà italiana.
Ogni film era una battaglia, da combattere a viso aperto, guardando in faccia gli eventuali pericoli. Nel 1962, per girare Salvatore Giuliano, s’immerse nell’universo torbido di Cosa Nostra, conobbe Leonardo Sciascia, e poi i cittadini di Montelepre convincendoli a recitare scene cui avevano preso parte nella vita reale: «Ho descritto i criminali senza il gusto dell’avventura e del personaggio che invece oggi è tanto diffuso. Giuliano l’ho visto da morto e da lontano, inserendolo nel contesto delle sue azioni, evitando accuratamente di farlo diventare un mito».
L’anno dopo, a Napoli, per Le mani sulla città, Rosi studia i verbali delle riunioni del Consiglio Comunale scosse dagli scontri fra sinistra e destra monarchica. Al centro del film, da una parte il costruttore Nottola interpretato da Rod Steiger, dall’altra il consigliere comunista Carlo Fermariello, grandi occhi azzurri, fama di tombeur de femmes, per la prima volta davanti alla macchina da presa in un ruolo che rifletteva la sua vita. Prima di lui era stato preso in considerazione Antonio Caldoro, (padre di Stefano Caldoro attuale, governatore della regione Campania), ma Fermariello alla fine fu la scelta migliore: «L’avevo conosciuto, mi era parso che continuasse a esprimere con passione e con tenacia l’impegno e le preoccupazioni che, prima di lui, erano appartenuti all’ingegnere e architetto Luigi Cosenza. Mostrare quei personaggi serviva a innescare la discussione concreta, fattiva su quei conflitti». Alla Mostra di Venezia, quando il film vinse il Leone d’oro, attribuito all’unanimità, si scatenarono reazioni infuocate: «Signore e signori della buona società veneziana vennero alla proiezione portandosi le chiavi dei loro palazzi affacciati sulla laguna. Erano chiavi fatte a tubo, con un foro, perfette per fischiare. E per quello furono usate».
Proteste, contrasti, minacce e anche difficoltà pratiche di realizzazione dei film si trasformavano, nelle mani del Maestro, in materia creativa, stimolo a fare meglio e di più. Successe con Il caso Mattei e con Lucky Luciano: «Sai com’è - commentava con Tornatore -, quando c’è l’ombra della mafia tutto si complica, no?». E con Cronaca di una morte annunciata, girato a Cartagena de Indias, nel luglio dell’86, tra continui temporali che imponevano pause alle riprese, su un set pieno di comparse (tra le altre anche la figlia Carolina), con i protagonisti Rupert Everett e Ornella Muti afflitti dal caldo umido. Su tutti Francesco Rosi, fascia rossa intorno alla testa, regnava con elegante autorità, voce stentorea, senso pratico tipicamente partenopeo. Caratteristiche mai perse, anche quando, tanti anni dopo, confessava lo smarrimento doloroso dell’essere rimasto vedovo, oppure constatava, senza giri di parole, il peso inevitabile degli anni: «Ho un’età molto rispettabile - rispondeva alla domanda su un eventuale prossimo lavoro .- Le cose bisogna farle quando si è sicuri di poterle affrontare e portare avanti».
Francesco Rosi ci è riuscito, fino alla fine, seguendo la voce della sua coscienza civile, il suo impulso di uomo libero, assetato di verità.

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