da: Il Fatto Quotidiano
Il minimo che si dovrebbe fare, prima di lanciare la candidatura di
Tizio o Caio alla più alta carica dello Stato, è informarsi bene sul suo
curriculum, i suoi trascorsi e quelli
della sua famiglia, onde evitare di ritrovarsi un presidente imbarazzante,
o addirittura ricattabile, per i più svariati motivi. Non solo penali, ma anche
morali, politici o semplicemente di inopportunità. La logica che invece sembra
ispirare il caravanserraglio delle consultazioni e delle candidature usa e
getta di questi giorni è esattamente quella opposta: non si butta via niente.
Di Amato abbiamo già detto tutto: il fatto che continui a essere tra i favoriti
la dice lunga sulla scriteriata superficialità dei politici che contano e che
la memoria storica o non ce l’hanno o l’hanno azzerata con un clic sul Reset.
Per la Finocchiaro, a parte tutto il resto, dovrebbe bastare il marito sotto
processo per truffa e abuso d’ufficio.
Del giudice
costituzionale Sergio Mattarella abbiamo ricordato la fama di persona perbene (come quella del fratello Piersanti,
assassinato da Cosa Nostra) e l’assoluzione
per finanziamento illecito, ma anche la confessione di aver accettato un contributo elettorale da Filippo Salamone,
universalmente noto in Sicilia come
il costruttore di Cosa Nostra. Siccome
poi, per il capo dello Stato, conta
anche la reputazione della famiglia (ne sa qualcosa la buonanima di Leone), non
si possono dimenticare le ombre sul defunto padre Bernardo, ras della Dc siciliana nel Dopoguerra; e neppure quelle
più recenti che hanno coinvolto il fratello
Antonino, indagato negli anni 90 a Venezia per riciclaggio di denaro sporco
e associazione mafiosa col cassiere della banda della Magliana Enrico
Nicoletti, per una speculazione su una decina di alberghi a Cortina: inchiesta
poi archiviata nel 1996 per mancanza di prove sulla provenienza illecita del
denaro, con coda di polemiche anche in Parlamento. Completano il quadretto
famigliare il nipote Bernardo, figlio di Piersanti, deputato regionale in
Sicilia, ora indagato per peculato sui rimborsi regionali; e il figlio di
Sergio, Bernardo Giorgio, allievo di Sabino Cassese, docente di Diritto
amministrativo a Siena e alla Luiss nonché capo dell’ufficio legislativo della
Funzione pubblica al ministero della PA, accanto a Marianna Madia: il suo
compenso di 125 mila euro l’anno ha sollevato qualche malignità.
La sindrome
della memoria corta contagia anche i 5Stelle, che presentano una serie di
candidati di prim’ordine alle Quirinarie. Ma portano in palmo di mano Ferdinando Imposimato. Che, per carità,
è una persona simpatica e onesta, un ex giudice valoroso, un ex parlamentare
Pci-Pds molto vicino anche al Psi, ma anche protagonista di incredibili
attacchi contro il pool di Milano
ogni volta che metteva le mani su qualche ladro socialista. Quando Borrelli, il
30-4-1993, annunciò il conflitto
d’attribuzioni contro la Camera che aveva negato l’autorizzazione a procedere
su Craxi, Imposimato disse che non poteva farlo e tuonò: “Borrelli continui a fare il magistrato, non faccia politica, non
interferisca sulla volontà del Parlamento”. Nel ‘96, tornato in Cassazione, difese il pm romano Ciccio Misiani che
dava consigli a Renato Squillante poco prima dell’arresto di quest’ultimo (era
sul libro paga di Previti): “Ho apprezzato molto Misiani, anch’io avrei dato
quei consigli a Squillante, un uomo dal quale ho imparato molto” (Corriere,
14-3-1996). E nove giorni dopo, non contento, si fece intervistare dal Giornale
per chiedere la scarcerazione di Squillante e accusò il pm di violare la legge sulla
custodia cautelare: “Di questo passo la gente penserà che le inchieste abbiano
scopi politici”. L’11-7 aggiunse: “Le cose fatte da Di Pietro meritavano il
trasferimento per incompatibilità ambientale, ma c’era timore reverenziale
verso tutto il pool”. Poi si ricandidò con gli ex craxiani dello Sdi. Ma che ci
azzecca Imposimato con i 5Stelle e il Quirinale?
A proposito di amnesie selettive, si parla persino di Fassino: 66 anni, deputato per 5 legislature, dirigente del
Pci-Pds-Ds, fu sottosegretario agli Esteri nel governo Prodi-1, ministro del
Commercio estero nel governo D’Alema e della Giustizia nel governo Amato-2,
quando abolisce di fatto i pentiti di mafia e propone la depenalizzazione di
tutti i reati finanziari. Roba che non era venuta in mente nemmeno a B. Nel
2001 è candidato a vicepremier di Rutelli, tanto vince B. Lui, per premio,
diventa segretario Ds. Fino al 2007, quando nasce il Pd. Non è mai stato
indagato, ma il suo nome è comparso spesso in atti giudiziari, anche piuttosto
imbarazzanti. La prima volta nel ‘93: il presidente di Euromercato Carlo
Orlandini racconta ai pm di Torino di aver incontrato nel 1989 Fassino, allora
segretario provinciale del Pds, per parlare del progetto dell’ipermercato Le
Gru di Grugliasco (poi finito in uno scandalo di mazzette rosse); e, subito
dopo l’interrogatorio, inviò un fax a Fassino per rivelargli quel che aveva
dichiarato ai magistrati. Che bisogno aveva di spedire quel fax, violando il
segreto investigativo? E che c’entrava Fassino con un centro commerciale?
Mistero. Nel 2005 l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio racconta al pm
Francesco Greco: “A fine 2004-inizio 2005 sono venuti da me Fassino e Bersani a
chiedere se si poteva fare una grande
fusione Unipol-Bnl-Montepaschi. Io li ho ascoltati”. A che titolo il segretario Ds si occupava di fusioni bancarie? Mistero.
Nell’estate 2005, il Compagno Grissino
(come lo chiamano a Torino) ci ricasca. L’Unipol di Giovanni Consorte, la
compagnia assicurativa delle coop rosse, si svena per scalare la Bnl.
Giornalisti, imprenditori e politici della sinistra segnalano i rischi
dell’operazione e l’impresentabilità dei compagni di avventura: il banchiere
Fiorani, gli immobiliaristi Ricucci e Coppola. Ma Fassino li difende a spada
tratta: “Considero incomprensibile la
puzza sotto il naso che li circonda. Bisogna solo capire se un imprenditore fa
bene o meno il suo mestiere” (22-6-2005). “È tanto nobile costruire automobili o essere concessionario di
telefonia, quanto operare nel mondo finanziario o immobiliare” (7-7-2005).
Quando le telefonate di Fassino, intercettate sulle utenze di Consorte,
diventano pubbliche, il conflitto d’interessi tra Unipol e i vertici Ds dà un
duro colpo alla credibilità del partito. Senza contare la figuraccia del
segretario tenuto all’oscuro fino all’ultimo momento da Consorte & C.,
convinti che sia meglio non informarlo perché “tanto non capisce un cazzo”.
Solo il 18 luglio, vigilia dell’Opa taroccata, Consorte gli svela i retroscena
della cordata occulta che rastrella azioni Bnl in barba al mercato e alla
legge. Fassino, anziché fargli notare la scorrettezza dell’operazione, prende
appunti ed esulta: “Allora, siamo padroni della banca?… Portiamo a casa tutto…
Bravo, bene, congratulazioni, bravo bravo, auguri!”. La telefonata uscirà il 2
gennaio 2006 sul Giornale di B. e costerà all’Unione di Prodi diversi punti
alle elezioni, portando al sostanziale pareggio. A che titolo il leader Ds
sponsorizzava scalate bancario-assicurative? Mistero.
Lui, anziché spiegare, grida al complotto
contro la sinistra e le coop. Denuncia la fuga di notizie, per cui B. sarà
condannato in primo grado e prescritto in appello (anche a risarcire subito
Fassino con 80 mila euro, che però il buon Piero non ha mai chiesto: non si sa
mai…). E soprattutto si proclama “fedele alla lezione che ci ha lasciato Enrico
Berlinguer”. Strano, perché due anni dopo riabilita Craxi come padre della
“sinistra riformista” e addirittura lo issa nel “Pantheon del Pd con De
Martino, Lombardi, Pertini e Nenni”.
Nel 2011
si candida a sindaco di Torino. E chi sceglie come coordinatore della sua campagna? Un compagno pregiudicato: Giancarlo Quagliotti. Che, dopo la sua elezione,
diventa il suo braccio destro. Nel 1983 Quagliotti è capogruppo al Comune e
viene coinvolto negli scandali Zampini e “semafori intelligenti” (sarà poi
prosciolto). Nel ’93 è di nuovo indagato per una tangente di 260 milioni di
lire dalla Fiat al Pds. E stavolta viene condannato in via definitiva a 6 mesi
per finanziamento illecito con il suo sodale Primo Greganti. La mazzetta
riguarda l’appalto per il depuratore del consorzio Po-Sangone: è stata versata
su due conti cifrati a Lugano, “Idea” e “Sorgente”, aperti rispettivamente da
Quagliotti e Greganti.
Quelle vecchie mazzette rosse tornano
d’attualità nel 2014, quando nel frattempo Fassino è trasvolato dalla Ditta al
fronte renziano. A Milano viene riarrestato Greganti per le tangenti Expo. Uno
degli imprenditori pagatori è Giandomenico Mal-tauro, anche lui arrestato, che
dichiara a verbale: “Greganti si consultava con Bersani e Fassino”. Bersani
smentisce di aver “mai in vita mia incontrato o parlato con Greganti”. Fassino
invece smentisce ciò che Maltauro non ha mai detto (“in vita mia non mi sono
mai occupato di appalti”), ma non ciò che ha detto sui presunti referenti del
Compagno G. Il quale, nel Pd torinese dei fassinian-renziani, ha riottenuto la
tessera del partito nonostante le due condanne definitive per Tangentopoli.
Pochi mesi dopo, scandalo del Mose a Venezia. Viene arrestato il sindaco pd
Luigi Orsoni e Fassino mette subito la mano sul fuoco: “Chi lo conosce non può
dubitare della sua onestà e correttezza. I magistrati appurino presto la sua
innocenza per consentirgli di tornare sindaco”. Poi Orsoni confessa e si
dimette. La scena si ripete con Vasco Errani, condannato in appello per falso,
e per Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per abuso. Fassino li difende
entrambi, diventando il santo protettore dei pidini condannati. Nei secoli
“fedele alla lezione di Berlinguer”, ci mancherebbe.
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