Siamo
belli, dunque deturpiamoci.
Se è giusta la mia ipotesi che nella
categoria dei tuoi coetanei «obbedienti» trovino posto, e per primi, «coloro
che erano destinati a morire» - cioè coloro che la scienza medica ha salvato
dalla «mortalità infantile», e sono quindi dei «sopravvissuti» - quale è la
loro funzione pedagogica nei tuoi riguardi? Che cosa ti insegnano col semplice
loro essere e comportarsi? La loro caratteristica primati ho detto – è il
sentimento inconscio che il loro essere venuti al mondo sia stato
particolarmente indesiderato. Il sentimento inconscio di essere a «carico» e «in
più». Ciò non può che aumentare immensamente la loro ansia di normalità, la
loro adesione totale e senza riserve all’orda, la loro volontà non solo di non
apparire diversi ma nemmeno appena distinti.
Dunque ciò che essi prima di tutto ti
insegnano è vivere il conformismo aggressivamente: cosa questa che – come
vedremo – ti è insegnata da quasi tutte le categorie dei tuoi coetanei «obbedienti».
E dunque la analizzeremo meglio andando avanti con nostro discorso. Vorrei
invece soffermarmi su tre punti privilegiati del loro insegnamento pragmatico
(e dunque tanto facilmente assimilabile).
Essi ti insegnano: primo, la rinuncia:
rinuncia resa assoluta, abitudinaria, quotidiana dalla mancanza di vitalità,
che in essi è un dato di fatto reale, fisico, ma che in altri (come in te), può
essere una tentazione. Essi dovevano morire; o meglio, in altre circostanze
sociali, sarebbero di sicuro morti. Essi devono istintivamente ridurre al
minimo lo sforzo per vivere: il che in termini sociali significa appunto
rinuncia. E’ vero che come dice un mio amico di Chia – un ragazzetto che
ricorda i proverbi dei vecchi - «il mondo è dei bravi, e i cojoni se lo godono».
E’ una delle più grandi verità che le mie orecchie abbiano mai ascoltato.
Tuttavia, io, vecchio borghese razionalista e idealista, cioè «bravo», continuo
sempre a detestare con tutte le mie forze lo spirito di rinuncia. Che è poi
ansia di integrazione e qualunquismo. Non temere di essere ridicolo: non
rinunciare a niente. Lascia che i cojoni si godano il mondo, e invidia pure come
me, struggentemente, per tutta la vita, la loro felicità.
La seconda cosa che i «destinati a morire»
ti insegnano è una certa obbligatoria tendenza all’infelicità. Tutti i giovani
di oggi – tuoi coetanei – hanno l’imperdonabile colpa di essere infelici. A
quanto pare, non ci sono più cojoni: se non a Napoli o a Chia. Tutti sono
bravi: e dunque tutti hanno la loro brava faccia infelice. Essere bravi è il
primo comandamento del potere dei consumi (nel cui universo mentale e di
comportamento tu, povero Gennariello, sei nato): bravi cioè per essere felici
(edonismo del consumatore). Il risultato è che la felicità è tutta
completamente falsa: mentre si diffonde sempre di più una immediata
infelicità.
Sappi, invece, Gennariello, che,
contrariamente al proverbio sublime di Chia, c’è anche una felicità dei bravi.
Il proverbio di Chia dice infatti che il «mondo è dei bravi», alludendo
decisamente al possesso, al potere. Ma allora va aggiunto che oltre al possesso
del mondo da parte dei padroni, c’è anche un possesso del mondo da parte degli
intellettuali, e questo è un possesso reale: come del resto quello dei cojoni.
Si tratta soltanto di un diverso piano
culturale. E’ il possesso culturale del mondo che da felicità. Non lasciarti
tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria cretina, della serietà
ignorante. Sii allegro. La terza cosa che ti viene insegnata dai «destinati a
morire» è la retorica della bruttezza. Mi spiego. Da alcuni anni i giovani, i
ragazzi fanno di tutto per apparire brutti. Si conciano in modo orribile. Fin
che non sono del tutto mascherati o deturpati, non sono contenti. Si vergognano
dei loro eventuali ricci, del roseo o bruno splendore delle loro gote, si
vergognano della luce dei loro occhi, dovuta appunto al candore della loro giovinezza, si vergognano della bellezza
del loro corpo. Chi trionfa in tutta questa follia sono appunto i brutti: che
sono divenuti i campiono della moda e del comportamento. I «destinati a essere
morti» non hanno certo gioventù splendenti: ed ecco che essi ti insegnano a non
splendere. E tu splendi, invece, Gennariello.
Ho imperversato un pò contro questi «destinati
a esser morti», col rischio di apparire un po’ vile e razzista: di creare cioè
una categoria di persone da proporre alla condanna. No. Tra i «destinati a
esser morti» ci sono esseri adorabili per lo meno come te, così vistosamente
destinato alla vita. Se ho polemizzato con particolare violenza contro gli
insegnamenti che ti impartiscono i «destinati a essere morti», è perché ho
preso questa categoria a simbolo della media: media che ti insegna, appunto,
queste stesse cose, e senza quel tanto di disperato che le corregge, le
giustifica, le rende umane.
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