da: la Repubblica
Il Paese malato
Siamo
ufficialmente il malato d’Europa. L’unico Paese, oltre a Cipro, con il segno
negativo nel terzo trimestre 2014, l’unico a vivere tecnicamente una terza
recessione.
di Tito
Boeri
Siamo ufficialmente il malato d’Europa. L’unico Paese, oltre a Cipro, con il segno negativo nel terzo trimestre 2014, l’unico a vivere tecnicamente una terza recessione. Ma non facciamoci ingannare dai decimali, soggetti ai margini di errore di queste stime. Il fatto nuovo è che anche la Germania è entrata in stagnazione e fa peggio del resto dell’area euro. Chi conta davvero in Europa non può continuare a far finta di nulla.
Mentre il resto del mondo, dalla Cina all’India agli Stati Uniti, continua a crescere a tassi sostenuti. Un anno fa il clima di fiducia di famiglie e imprese volgeva al bello; sarebbe bastata una politica monetaria più espansiva, un accesso al credito meno difficile per imprese e famiglie per tradurre questo cambiamento di aspettative in comportamenti favorevoli alla crescita. Oggi i
piani della Bce, anche qualora attuati compiutamente, non bastano più. Prevale
l’avversione al rischio, si cerca liquidità, anziché investire in progetti
imprenditoriali.
Per contrastare questa depressione delle aspettative ci vorrebbe un piano di
investimenti pubblici a livello europeo, finanziato soprattutto da quegli Stati
che possono permetterselo. Andrebbe anche a loro vantaggio. Ma chi ha sin qui
agitato la bandiera degli investimenti europei, il Presidente della
Commissione, Juncker, è oggi, a sole due settimane dal suo insediamento,
un’anatra zoppa, delegittimato dalle rivelazioni sui favori fiscali concessi,
con accordi segreti, alle imprese che investivano in Lussemburgo quando era
alla guida del granducato. E non sarebbe la prima volta che un piano di
investimenti pubblici europei si perde nel nulla: è già successo col piano di
Delors del 1993, con la strategia di Lisbona del 2000 e con il Growth Compact
del 2012. Eppure il vertice europeo che a dicembre dovrà decidere sul piano di
investimenti pubblici non deve fallire.
Juncker, nel suo discorso di investitura,
ha parlato di 300 miliardi, spalmati su tre anni. Significa circa lo 0,3 per
cento del Pil dell’area euro. Troppo poco per stimolare l’economia in crisi,
anche considerando moltiplicatori fiscali favorevoli. Ci vorrebbe almeno il
doppio e soldi veri, non delegati ai prestiti concessi dalla Banca Europea
degli Investimenti che, per ragioni di rating, evita di finanziare investimenti
che hanno effetti positivi su tutti gli operatori economici anche se non sono
magari molto redditizi. Devono anche essere spesi subito, senza le interminabili
procedure che regolano l’accesso ai fondi strutturali. E devono essere spesi
bene, da amministrazioni pubbliche non corrotte.
C’è un piano che soddisfa questi tre
requisiti. Si tratta di assicurare l’accesso alla banda larga su tutto il
territorio dove si paga in euro. Sarebbe un piano gestito a livello di
istituzioni sovranazionali europee, facilmente soggette allo scrutinio
dell’opinione pubblica. L’accesso alla banda larga permette di migliorare
l’efficienza delle imprese allargando i mercati perché riduce i costi di
transazione. In questo modo stimola la crescita. Secondo alcuni studi sui paesi
Ocse, un incremento della penetrazione della larga banda di 10 punti
percentuali porterebbe ad aumentare il tasso di crescita del reddito pro capite
dell’1,5 per cento all’anno. In Germania è stato stimato che l’ampliamento
della banda larga comporterebbe una crescita addizionale cumulata di 33
miliardi in dieci anni. È un investimento che favorisce anche i Paesi in cui la
banda larga è già ampiamente diffusa, perché permette alle imprese di vendere
ai consumatori oggi localizzati in aree in cui il commercio online è meno
sviluppato per i limiti della rete. Al tempo stesso sono i Paesi che oggi hanno
maggiore bisogno di stimoli fiscali, come l’Italia, quelli più indietro nello
sviluppo della banda larga, e in cui gran parte degli investimenti avrebbe
luogo. Da ultimo, è un investimento percepibile dai cittadini, darebbe quel
senso al fatto di appartenere all’area dell’euro che oggi manca soprattutto nel
sud del continente. Al punto che molti demagoghi di professione, a Beppe Grillo
si è ieri aggiunto Stefano Fassina, hanno ormai deciso di abbracciare la causa
dell’uscita dall’euro.
Il governo Renzi sembra aver compreso la centralità dell’investimento in banda larga, tant’è che sulla carta vuole mobilizzare fino a dieci miliardi attingendo ai fondi strutturali. Ma gli obiettivi dell’Agenda digitale velocizzano l’accesso a chi è già connesso, portando la fibra fino ai palazzi anziché collegare chi oggi è di fatto tagliato fuori. In altre parole, si muovono più nello spirito degli investimenti privati che di quelli pubblici. Proponendosi, invece, di ridurre davvero il digital divide ci si potrebbe presentare a Bruxelles a dicembre con ben altra forza e credibilità. Gioverebbe non poco avere anche una riforma compiuta da esibire. Dovendo esprimere un giudizio sul governo Renzi, viene da pensare a quei candidati a posizioni di professore di ruolo che hanno tanti lavori in corso, ma ancora nessuna pubblicazione. I working paper possono riempire le pagine dei giornali, ma non rientrano nei curricula che vengono presi in considerazione a livello internazionale.
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