Mostra
del Cinema di Venezia, premi al Martin Eden di Marinelli che batte il Joker di
Phoenix e all’omertà palermitana raccontata da Maresco
L'attore
conquista la Coppa Volpi lasciando fuori l'americano che interpreta il Joker
vincitore del Leone d'Oro. Mentre è come al solito irriverente e fortemente
critica la pellicola del regista siciliano, un j’accuse polanskiano
totalizzante che circumnaviga il "Niente so" siciliano di fronte al
rifiuto in pubblico della mafia
di Davide
Turrini
Uno “zingaro” che scippa la Coppa Volpi al
Joker. Tra villain ci si capisce. Ma il colpo gobbo che Luca Marinelli ha
tirato a Joaquin Phoenix qui al Festival del Cinema di Venezia sa di audace. Il
suo Martin
Eden, portuale romantico e sgrammatico, furioso e decadente, con quella
recitazione tutta sopra le righe (nella seconda parte sembra Carmelo Bene) gli calza a pennello. Romanissimo di
nascita e ora berlinese quasi d’adozione, il 35enne che qui al Lido si è
presentato con baffetti “diabolici”, in quasi dieci anni di lavoro ha
interpretato già diciassette film.
Ma gli sono bastati il ruolo del
cattivissimo “zingaro” ne Lo chiamavano
Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e il Fabrizio
De André romaneggiante in Principe Libero
a renderlo divo assoluto, amato soprattutto da masse di fan adoranti. L’esordio è nel 2010 con Alba Rohrwacher nell’argentiano La solitudine dei numeri primi
di Saverio Costanzo. Una prima
interpretazione di livello, ma immersa in un’atmosfera davvero cupa, tanto che
è difficile mettere in risalto i suoi occhioni chiari.
Seguono alcuni passi falsi e nel 2012 forse il suo ruolo più bello,
misurato, intenso, in Tutti i santi
giorni di Paolo Virzì. Un
portiere d’albergo, superlaureato e genio del latino, incapsulato nella
difficile arte della sopravvivenza economica dell’Italia di oggi. Di fianco a
lui un uragano come Tony. Film
imperdibile, da recuperare al più presto, che gli fa ricevere le prime
nomination ai David di Donatello. Ne La
grande bellezza fa una piccola
parte da figlio pazzo e offre un full frontal insanguinato che molti ancora
ricordano e mettono in loop. Nel 2015
fa coppia con un altro talento emergente, Alessandro
Borghi, nel film maledetto di Claudio Caligari, Non essere cattivo. È da lì che in qualche modo nasce il
personaggio dello “zingaro” di Jeeg, definitivo trampolino di lancio per
una carriera ora tutta in discesa. Schivo, riservato, lontano da feste
mondane e riflettori dello showbiz, Marinelli gira alla larga dai progetti più
semplici ma non disdegna un cinema autoriale e popolare, tanto che il prossimo Diabolik in tutina nera e occhi
azzurri lo farà scalare ulteriormente tra i visi e i corpi del nuovo
secolo.
“Fratelli Abbate?”. “Dica!”. Come si fa a
non ricordare Franco Maresco
partendo dai tableau vivants (non li fa mica solo Roy Andersson) di Cinico Tv? La sua voce fuori campo, il
lavoro spalla a spalla con Daniele Ciprì, la passionaccia brutta per Palermo e
la Sicilia. Un pezzo di storia dell’audiovisivo contemporaneo che non poteva
non impressionare una giuria internazionale. Il suo cupo mockumentary, la sua
ibridazione continua tra realtà e finzione, trova il suo apice ne La mafia non è più quella di una volta,
un j’accuse polanskiano totalizzante che circumnaviga l’omertà siciliana, anzi
palermitana, di fronte al rifiuto in pubblico della mafia.
Maresco cerca di svellere le sue amare
certezze ma ancora una volta il presente, ma soprattutto il futuro, rispondono
con foschi presagi. Belluscone nel
2014 era già stato premio speciale nella sezione Orizzonti, e forse conteneva
qualche segnale più positivo, più ottimista. Oggi, invece, Maresco va oltre,
coinvolgendo in quel clima d’omertà perfino il presidente della Repubblica,
Sergio Mattarella.
Il 61enne che negli anni ottanta lavorava
come montatore in una tv palermitana trova il successo finendo con i suoi
spezzoni in bianco e nero di Cinico Tv
nel Blob di Enrico Ghezzi. Da lì,
assieme a Ciprì, il passo è breve. Nel 1995 è l’ora de Lo zio di Brooklyn, film senza interpreti femminili (ci sono uomini
vestiti da donna), un rapporto sessuale tra una contadina e un’asina, e perfino
un peto, conferma un surrealismo irriverente, totalmente finzionale, che
volenti o nolenti rappresenta un’autentica novità nell’asfittico cinema
italiano.
Quando nel ’98 esce Totò che visse due volte si prende un “vietato a tutti” dalla
censura ministeriale. Un film maledetto, su un’umanità affranta, con tanto di
terzo episodio sul Messia che scatena le ire dei cattolici. Nel 2004, prima
della separazione da Ciprì del 2008, ecco il documentario puro Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio,
presentato Fuori Concorso a Venezia. Quando poi comincerà a lavorare da solo,
nel 2010 propone il bellissimo Io sono
Tony Scott, ovvero come l’Italia fece
fuori il più grande clarinettista del jazz, andando a recuperare frammenti
di vita del jazzista italo-americano Anthony Joseph Sciacca. Un lavoro
d’archivio, estremamente pudico, che ha poco a che fare con il ciclone
Belluscone che arriverà nel 2014.
Maresco non accompagna mai i suoi film ai
festival. Si defila, si nasconde, sta lontano dalle noie e dalla noia del circo
mediatico. I suoi film parlano da soli, e con quelli devi fare i conti. Dicono
sia depressione. Di sicuro Franco Maresco è un pessimista cosmico. E solo i
grandi poeti maledetti sanno raccontare, magari anche sorridendo, in maniera
grottesca e inquietante, la pancia profonda di un angolo specifico di mondo
facendolo risultare universale.
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