da: https://www.glistatigenerali.com/
- di Jacopo Tondelli
Abbiamo (ri)ascoltato il presidente del
Consiglio Giuseppe Conte. Si è mosso – e non poteva essere altrimenti – nel
solco che aveva tracciato accettando l’incarico dalle mani di Sergio
Mattarella. Ora che la riserva è sciolta approfondisce i punti, entra nel
dettaglio dei programmi, declina le idee in azioni ma anche, soprattutto,
diremmo, in grandi principi.
Il quadro che tratteggia oggi, chiedendo la
fiducia al parlamento, è tanto ampio e radicale da impressionare, e lasciare vagamente
interdetti, se lo si inserisce nel contesto in cui si cala. Parla anzitutto di
una revisione delle regole della stabilità economica e politica europea. Di un
tavolo di aprire ad hoc. Una questione epocale – invero già cara all’ex alleato
leghista che preferiva agitare le regole che ci sono come spauracchio e
minaccia, anzichè provare a cambiarle – che richiederà sforzi titanici e tempi
lunghissimi. Perché che l’austerità e il rigore di bilancio su cui si fonda
l’Unione sia un problema a detta di molti è vero, verissimo: che cambiarlo sia
facile, e sia nello spettro delle volontà dei padroni d’Europa, beh, è
tutt’altro discorso.
Anche sul versante migranti, il programma
di Conte non sembra meno impegnativo. “Rivedere Dublino”: rivedere cioè le regole
pesantemente svantaggiose per i paesi che hanno i porti di primo approdo di
migranti e richiedenti asilo (come l’Italia) a vantaggio di una condivisione
del problema più solidale tra paesi europei. È sicuramente vero che lo “stile
Salvini”, tutto teso a vedersi riconosciuto come nemico dall’Europa di Macron e
Merkel, non aiutava a trovare spiragli di collaborazione su un tema così
delicato, per ogni governante, oggi, in occidente. Altrettanto è vero,però, che
le resistenze dei nostri compagni di continente non nascono con Salvini, e
difficilmente saranno finite solo perché ora non governa più lui.
Anche sul fronte di politica interna e di
politica economica, il programma di Conte è sembrato travalicare il confine dei
tre anni di legislatura che ha davanti. Non è tanto sulle misure contingenti
che serviranno per impedire l’aumento dell’Iva, o sul pur complicato percorso
che porterà un governo che per il 50% è quello vecchio a modificare i decreti
sicurezza. Ma è su parole come “green new deal”, valorizzazione del patrimonio
turistico e ambientale, rilancio strutturale del sud “ma anche” autonomia
differenziata per le regioni del nord che si vive la sensazione di un orizzonte
temporale ben più vasto non solo, e non tanto, di quello su cui potrà
ragionevolmente contare questo governo: ma anche, soprattutto, di quello che le
società contemporanee sono disponibili a concedere a qualunque governante.
Del resto, è appena il caso di ricordarlo,
questo governo nasce dal matrimonio innaturale non solo tra due popoli che non
si amano, come ha ben spiegato Paolo Natale qui, ma anche come la fusione nel
piombo del potere di due classi dirigenti che si sono disprezzate e vilipese
fino a ieri, sia per distanze politiche per (apparentemente) irredimibile
lontanza antropologica. In una politica che cambia colore e umore così
rapidamente, è possibile pensare e credere, ragionevolmente, che proprio da
questo strano sodalizio nasca un’unione in grado di lavorare per un tempo lungo
e faticoso, che è quel che serve per mettere a terre i cambiamenti epocali
prospettati da Conte e, in gran parte, davvero necessari al paese?
È quantomeno lecito dubitarne, ovviamente
sperando di essere smentiti. Vorrebbe dire che la politica ritroverebbe una
dimensione concreta, di lungo periodo, di coerenza programmatica. Traguardi che
paiono altissimi: quasi come la “lingua mite” che sempre Conte ha ufficialmente
adottato, a nome di tutti, quest’oggi, davanti agli ululati che si alzavano dai
banchi della Camera dei deputati.
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