Un giorno ci chiamarono dalla sala
operativa per un sospetto omicidio.
La vittima era un medico della mutua - così
si diceva allora - che non era rientrato a casa come faceva di solito verso le
tredici, terminate le visite della mattina. La moglie si era preoccupata perché
pare che l’uomo fosse molto abitudinario e puntualissimo. Lo aveva cercato al
telefono, senza ricevere risposta. Allora aveva avvertito la figlia e insieme
erano andate all’ambulatorio. Il dottore era cardiopatico e temevano un malore,
un infarto.
Lo avevano trovato morto, sul pavimento
dietro la scrivania. E lì lo trovammo anche noi.
La causa del decesso appariva chiara anche
solo a un primo sguardo, poiché il cranio era parzialmente sfondato. Però non
c’erano segni evidenti di una colluttazione: la scrivania era in ordine, a
parte un lume da tavolo rovesciato, e a prima vista non sembrava che fosse
stato sottratto nulla. In ogni caso, non era una faccenda di cui dovessimo o
potessimo occuparci noi del radiomobile. Più precisamente, non erano cazzi
nostri, come disse il mio nuovo compagno di pattuglia. Un tizio biondastro, con
un’acne tardiva, cui piaceva picchiare la gente e che non pagava nei bar in cui
ci fermavamo a prendere il caffè o a fare colazione.
Poco dopo arrivarono quelli del nucleo
operativo. Toccarono tutto senza guanti; spostarono oggetti e li rimisero più o meno a posto. Aprirono la
finestra. Un grave errore, poiché si altera la temperatura corporea del
cadavere complicando la rapida ricostruzione dell’ora della morte. Allora non
lo sapevo, in realtà, lo avrei imparato negli anni successivi, ma l’intera
azione, nella sua sciatteria, mi rimase impressa, fotogramma per fotogramma. In
seguito l’ho ripassata tante volte come se fosse un manuale al contrario:
quello che non si fa quando si arriva
sulla scena di un crimine.
Poi comparvero quelli delle investigazioni
scientifiche. Fecero fotografie, spennellarono dappertutto polvere per le
impronte digitali e si lamentarono che ce n’erano troppe. Anche quelle dei
carabinieri, pensai io. Lo pensai così intensamente che fui lì per dirlo. Me ne
stavo davanti alla porta, guardavo tutto, cercavo di registrare tutto e mi
chiedevo cosa potessi escogitare per inserirmi nell’indagine. Per due volte mi
morsi le labbra. Naturalmente sapevo che, se avessi provato a dire la mia
opinione, come minimo mi avrebbero risposto in malo modo di stare zitto.
Un giovane vicebrigadiere in servizio da
meno di un anno che interviene a dire la sua opinione durante un sopralluogo di
polizia giudiziaria è uno che non sa come va il mondo.
Arrivò il capitano comandante del nucleo
operativo. Arrivò il colonnello comandante del reparto operativo. Arrivarono
anche alcuni poliziotti con il capo della squadra mobile, ma era solo una
visita per dare un’occhiata, per informarsi dell’accaduto. Secondo la regola
non scritta che disciplina queste cose, le indagini su un omicidio spettano
alla forza di polizia che per prima arriva sul luogo del delitto. Quindi
l’uccisione del medico - non so perché non riesco a ricordarne il nome -
spettava a noi carabinieri.
Cioè a loro
del nucleo operativo.
Alla fine arrivò anche il sostituto
procuratore di turno. Un uomo giovane, basso e magrolino, con degli strani
capelli rossi, probabilmente un magistrato di prima nomina. Cercava di
comportarsi come uno che sa il fatto suo e proprio per questo mi diede l’impressione
di essere fuori posto.
Aspettarono tutti insieme il medico legale,
il quale, dopo un rapido esame del cadavere, confermò ciò che già si sapeva,
cioè che la morte risaliva a qualche ora prima. Ogni altra affermazione su
cause, tempi, circostanze del decesso avrebbe richiesto l’autopsia.
Il sostituto procuratore, con il tono di
chi ha appena preso una decisione motivata e difficile, autorizzò il trasporto
del cadavere all’obitorio. Poi si allontanò assieme a quelli della polizia.
Poco dopo andarono via anche i nostri ufficiali. Il capitano diede disposizione
ai suoi uomini di parlare con gli inquilini del palazzo e i negozianti dei
dintorni. Bisognava capire quali assistiti avesse visitato il dottore quella
mattina, e sentirli. E soprattutto bisognava procedere a una retata di tossici
della zona, portarli in caserma e torchiarli per bene.
Mentre i vari marescialli e brigadieri si
attivavano, i necrofori rimossero il corpo. Io fui lasciato lì a piantonare la
scena (la macchina di pattuglia con cui ero arrivato era già andata via) in
attesa di altro personale che sarebbe venuto a repertare l’agenda, l’elenco dei
mutuati e ogni altro documento utile.
Uscendo, un maresciallo anziano mi disse,
col tono di chi sta facendo una buona battuta: - Naturalmente non toccare
niente, eh?
Così rimasi solo.
Fu una sensazione difficile da descrivere.
Adesso che non c’era più nessuno, che non c’erano più le voci, si poteva
ascoltare il silenzio, popolato di piccoli rumori insignificanti.
Soprattutto si percepiva lo spazio vuoto lasciato dal cadavere. Era
come la presenza di un’assenza, un vuoto concreto e indelebile. Quando ebbi
familiarizzato con quella strana atmosfera, decisi di seguire un mio
sopralluogo. Era la prima volta che disobbedivo in maniera deliberata e senza
imbarazzi all’ordine di un superiore.
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